Una città - anno III - n. 28 - dicembre 1993

che recentemente, hanno avuto grossi sviluppi economici, si vede che sono paesi che hanno fallo dei grossissimi investimenti per l'educazione. L'impero Austro-Ungarico aveva l'istruzione fino ai quattordici anni già alla fine dell" 800 e ancora adesso il Friuli Venezia Giulia e altre tre o quallro regioni che erano nell'impero Austro-Ungarico sono quelle che hanno il più alto livello di istruzione d'Italia. E non è vero che i paesi che hanno fallo dei grossi investimenti educativi li abbiano falli dopo gli investimellli industriali, li hanno falli prima. Le rivoluzioni culturali precedono le rivoluzioni economiche perché le idee diventano forza materiale, ma le forze materiali difftci Imente diventano idee. Non è che propongo di innovare il rapporto fra le forze materiali e il pensiero, ma certamellle la cultura di un popolo, se per cultura si intende il modo di costruire la vita comune, viene prima degli strumenti pratici che poi si dà per produrre. Per questo un disoccupato consapevole dei propri mezzi, dignitoso, sovrano, certamente sarebbe stato molto meno sensibile al richiamo del cliemelismo di bassa lega, che ci sarebbe stato lo stesso, però in forme più accettabili. Perlomeno, invece di essereun clientelismo individuale, basato sullo scambio mercificato, sarebbe stato un clientelismo più democratico, basato sullo scambio di obiettivi e non sullo scambio monetario. E' vero che chi vive in una situazione dura, di miseria, di illegalità è esposto più di altri al rischio del clientelismo e della corruzione, però bisogna anche dire che se questa persona ha fatto un'esperienza escludente attraverso le prime strutture sociali - cioè le scuole, le strutture amministrative elementari, quelle che garantiscono i diritti di tutti i giorni-, si trova in una situazione di disperazione in cui è disponibile per chiunque gli offra qualcosa. A chi, nel passato, mi diceva "Siamo tutti sulla stessa barca" io rispondevo che non era vero, ma oggi anch'io dico che siamo sulla stessa barca. Siamo su una barca vecchia e scassata,con toppe messeper farla sembrare nuova, con un comandante incapace ed inetto e un equipaggio infedele, fatto di irresponsabili, incompetenti e banditi, e abbiamo dei poveri cristi di passeggeri, alcuni dei quali indubbiamente stanno in prima classe e se la godono, ma ce ne sono tanti che stanno su questa nave per necessità; e allora che si fa? Ad un certo punto, siccome anche nell'equipaggio c'è chi è meno incapace, meno inetto, alcuni possono ritenere che basti sostituire il comandante con uno che sappia individuare la rotta perché le cose vadano bene, ma è chiaro che in piena tempesta un buon comandante può sì stabilire la rotta, ma se la nave è scassata affonderà comunque. E questo non va bene. Un altro può dire ·'Siamo sulla stessa barca. è ben vero che qualcuno se la gode e qualcuno stamale, però aquesto punto lasituazione èdrammatica e se tra i passeggeri c'è qualcuno capace si faccia avanti e vediamo come gestire la sorte comune" cd è possibile che in questo modo si trovi chi sia bravo a rare le riparazioni alla fiancata, altri in grado di sostituire l'equipaggio infedele e in grado di sorvegliare che non rubino pcrlìno durante la tempesta. Che ognuno faccia la sua parte, insomma ... Che ognuno faccia la sua pane e conduca in porto questa barca scalcagnata. li confronto è meno simbolico di quanto sembri. Mio figlio scrive racconti di fantascienza e una caralleristica di questi racconti è il paragone fra il pianeta terra e una nave: in lui e in molti giovani c'è questa coscienza planetaria, per cui noi siamo l'equipaggio di una nave in viaggio che deve vedere come gestire la situazione. La cosa interessante di questa idea è che non possiamo gestire le cosegli uni contro gli altri proprio perché siamo un equipaggio su una nave. Ragionare in questi termini non significa, secondo me, eliminare i conflitti, significa che i conflitti si gestiscono in un modo compatibile col fallo che siamo sulla stessabarca ed è proprio per questo che mi devo liberare dei cialtroni, degli incompetenti, dei ladroni ... Me ne devo liberare mollo più decisamente che non se avessi la speranza di unapalingenesi rivoluzionaria ...Un tempo mi sono fortemente dichiarato ':rivoluzionario" e in modo altrettanto forte oggi mi dichiaro "non rivoluzionario", però sono più radicale oggi che non allora, nel senso che oggi vedo la necessità e l'urgenza del cambiamento, mentre nel passato la speranza di palingenesi non dico mi facesseaccettare l'ingiustizia immediata, ma mi portava adandareoltre con lo sguardo e a non pretendere che la realtà cambiasse subito. Aspettavamo la resa dei conti, per cui dicevamo "A te ti tengo puntato" piuttosto che" Ti devi levare subito". Mi sento più radicale oggi e più indignato delle schifezze. Oltretutto molte cosenon hanno spiegazione, io credo nell'influsso della stupidità nella storia: ci sono meno complotti nelle cose e contemporaneamente c'è un gigantesco complotto fatto dall' insipienza umana, che è il peggiore dei complotti, perché non si riesce mai a beccare il "grande vecchio" perché non c'è, perché sta nella testa della gente, perché sono meccanismi automatici .. Nei discorsi della Lega viene detto che l'assistenzialismo, oltre a dissipare grandi risorse, ha tarpato le ali allo sviluppo del sud... L'accetto con totale tranquillità, le cose stanno esattamente così, c'è poco da discutere. L'unica cosa da contestare a Bossi, e secondo me anche a tanti altri, è che in questi calcoli sui trasferimenti vengono dette delle grandi balle. Faccio 1• esempio più banale: 1•operaio che ha lavorato trent'anni alla Fiat e che una volta in pensione se ne ritorna in Calabria; quando si fanno questi comi si dice "Al sud arrivano tot miliardi come trasferimento", e per trasferimento si intendono appunto pensioni e annessi, cioè trasferimenti cli denaro. Ma il problema è che questi operai la ricchezza l'hanno prodolla al nord, in Australia, in America ... Non solo, ma gli investimenti in edilizia privata falli nel sud in questi anni, compresi i macelli che hanno fatto sulle coste della Calabria, con quali soldi sono stati fatti? Con i soldi di questi che andavano in Svizzera a lavorare e accumulavano pochissimi milioni con le loro braccia ... Ma al nord bisognerebbe anche raccontare che al sud si fa tanta fatica e c'è poco lavoro. C'è gente che cava il sangue dalle pietre, gente che si è costruita le case da sola, mallonc su mattone e ha coltivato i campi levando le pietre. Uno del nord di origine contadina ha detto, tornato al suo paese dal sud ·'Dovreste provare a zappare la terra della Calabria, come è dura e sassosa, invece questa come è morbida..." E' chiaro che la terra del sud non è dura dappertullo, il terreno del Vesuvio èmorbido, però in altri posti ... C'è mancanza di acqua, ci sono dei fallori climatici, quindi c'è tanta fatica e poco lavoro. E molta di questa fatica non dà luogo a un'autonomia monetaria nel senso più moderno del termine. E' indubbio, poi, che ci sono le false pensioni di invalidità, le grandi opere pubbliche, ma tulio questo era notissimo, non l'ha detto Bossi, tulla la letteratura sul sollosviluppo da anni dice esattamente questo: che gli aiuti allo sviluppo in realtà aiutano il sottosviluppo. • ------------------------------stazioni L'UMANIZZAZIONE ATTRAVERSOL'ASCOLTO Molti di noi ricorderanno la scena finale dell'ultimo film di Federico Fellini, La voce della luna (un po' tutte le televisioni, per uno strano scherzo del destino, l'hanno ritrasmessa in occasione della sua mot1e): Benigni, avanzando con il suo incedere sonnambolico e balordo nel falto di una brughiera rischiarata dalla luna e animata dal rumore degli animali notturni, prima di raggiungere un misterioso pozzo si volgeva verso lo spettatore dicendo: "Eppure io credo che se si facesse un po' più di silenzio, se tutti tacessimo un po' di silenzio, forse qualcosa potremmo capire." Un'osservazione molto semplice, forse ingenua, che, però, ci segnala umilmente, in questo mondo frastornato, confuso dai messaggi, come una speranza possa sempre maturare nel silenzio. Chiunque, in effetti, abbia veramente detto qualcosa, ha conosciuto, almeno inizialmente, un proprio deset1o. Lo stesso Cristo, prima della predicazione, ha ritenuto necessario ritirarsi, per ricevere, solo al termine di quell'ascesi, da Giovanni, /'eremita, l'uomo del deset1o, il verbo nunzia/e delle acque. Nel silenzio, infatti, non solo ha luogo un vero e proprio combattimento spirituale, il più temerario: quello contro noi stessi, ma cresce l'ascolto, e con l'ascolto la parola che sana, che sorprende, la parola dell'altro. Maestri e allievi si avvicendano così, come ci insegna il buddismo, in un flusso ininterrotto dall'origine alla sorgente. In fondo, notava lo scultore Fabio Melotti, a separarmi da Cristo sono appena venti esistenze. Per quanto ci si adoperi nel moltiplicare le occasioni di discussione o di dibattito, nell'interrogare "lepiazze", ancor oggi gli incontri più significativi fra gli uomini avvengono fuori dagli spazi deputa ti: nei corridoi delle sale di congressi, in aereo o in treno, e più facilmente all'estero, quando ciascuno è facilmente libero da ciò che, malgrado tutto, rappresenta o gli viene attribuito. Quante volte amici, coniugi, amanti, si confessano il loro amore dopo essersi resi conto dell'abiezione alla quale un litigio, nato da un confronto Bibl10eca Gino Bianco su un tema ordinario, li aveva condotti? Persino il mondo che quotidianamente ci appare opaco, ostile al nostro desiderio di pianificazione, assume un senso diverso allorché, spenta la radio, interrotta la conversazione, apriamo lo spot1ello della nostra macchina per una breve sosta in mezzo alla campagna; oppure ad un improvviso mancare della luce, quando un cielo stellato sembra irrompere dalla finestra. Non è dunque un caso che per accedere al segreto dell'at1e, anche noi, come l'at1ista, dobbiamo far lo sforzo di tacere: in silenzio ascoltiamo, infatti, un brano musicale o una rappresentazione teatrale, in perfetta solitudine leggiamo un libro o scriviamo. Che cosa ci impedisce di riservare al resto un uguale trattamento? Che cosa ci impedisce di trattare ogni uomo, ogni cosa, persino l'azione più umile, come quella di lavare le stoviglie o di pulire la casa, alla maniera di un'opera d'arte, così come ha dovuto fare l'artista per ritrarla? I motivi possono essere molti, alcuni comprensibili: l'emarginazione, la malattia, l'ignoranza, una banale stanchezza; altri meno, ma spesso più tenaci e meschini: l'avidità, il benessere, l'impazienza, la superbia; tutti comunque alimentati da una cultura della funzionalità e del sospetto che, pur riconoscendo la sua miseria e il suo disincanto, non ci pensa minimamente ad aprirsi, a mostrare la sua arrendevolezza, se non per consumare, digerire, disprezzare. Una mancanza di fede, perciò di assiduità, di esercizio nel coltivare la libet1à, un silenzio, che non essendo soggetto né a sé né agli altri, ci permetterebbe di valutare e di contemplare le nostre azioni, ciò che ci circonda, come fatti del mondo. "L'umanizzazione", recita un aforisma di una scrittrice brasiliana, Marcia de Sà Cavalcante, "si fa nell'ascolto", eppure niente è così oltraggiato, aggredito, vilipeso come colui che ascolta, il solo, come diceva Anuro Martini, che con il suo silenzio "rende il linguaggio chiaro". Gianluca Manzi C'ERA UNA V011'A UN PONl'E Lunedì 8 novembre '93 ho avuto un lutto in famiglia. Fino a tarda notte è squillato il telefono. Hanno chiamato da lontano gli amici e i conoscenti per farmi le condoglianze. L'indomani sui giornali c'erano i necrologi e le foto. In queste foto, nonostante gli anni, sembrava giovane, snello e sano. Non era ancora tempo per morire, quando se ne vanno quelli che amiamo, è sempre troppo presto, ma quando muoiono di colpo, di morte non naturale, il dolore è più profondo, acuto, persistente. Sopra le verdi acque di Neretva, vivaci come le puledre ed eterne come la vita, in profonda vecchiaia è stato vergognosamente massacrato il più visto e vecchio cittadino di Mostar. Sul luogo dove è nato e vissuto 427 anni, dignitosi e ben portati, amoreggiando con Neretva e facendo amicizia con gli uomini. Nell'estate scorsa l'hanno ferito i "non nuotatori" della riva sinistra e, finito il lavoro sporco, i "non nuotatori" della riva destra. Suonatori di "gusle" {1) e i cantanti di "gange" (2), gente di mente oscura e non abituata ai ponti, ai fiumi e alla città, dalle quali sempre fuggiva e che, nei tempi propizi, saccheggiava e poi distruggeva e bruciava per nascondere le tracce dei misfatti compiuti. Poche città al mondo si sono identificate con le loro costruzioni più belle come Mostar col suo Ponte, che chiamava chissà perché "Vecchio", nonostante fosse lui più giovanile e immacolato di tutti gli altri ponti della città. Per la "funzione" era come tutti gli altri ponti, un loro fratello, ma, per l'età, era un bisnonno. Tutti i fratelli minori hanno fatto scomparire davanti agli occhi del più grande e amato. Lui, Stari Most, li ha accompagnati con tristezza. E' grande giustizia ma scarsa consolazione che siano tutti insieme nell'abbraccio dell'Unica che hanno amato. I ponti sono i più fedeli amanti sotto la cupola celeste. I ponti si fanno per non dovere compiere un lungo percorso, scorciatoia per arrivare prima dove si voglia andare. Con loro le sponde si danno la mano e si maritano. I ponti sono le anime pietrificate degli arcobaleni nati e morti sulle acque. Nessuna delle costruzioni pensate con la testa e col cuore dell'uomo ha tanta "anima" quanto il ponte. Nessuna gli è tanto vicina. li ponte è dell'uomo il cugino più prossimo. I cugini sono tanti e a volte si somigliano molto gli uni agli altri. Lui somigliava solo a se stesso o alla curva lunare che si rispecchia nelle acque di Neretva nelle notti silenziose. Tutti i ponti, con le radici sanguinanti di cemento o ferro, si annidano e crescono sulle rive. Solo Stari Most è cresciuto e vissuto nel verso: "Questo ponte è come il semicerchio dell'arcobaleno, Esiste qualcosa di simile al mondo, Dio mio?" Così è scritto sulla prima pietra posta alle fondamenta nel 1566. Questo ponte lo portò, nella testa e nel cuore, Hairudin, costruttore di ponti ma poeta nell'essenza. Lo portò dalla Persia. Percorse terra e mari fino a farsi calli ai piedi, attraversando montagne e bagnandosi nei fiu• mi. E soltanto là, tra le spondé scoscese di Hum e Velez, sulla selvaggia e misteriosa acqua di Neretva, decise di dare carne al suo sogno. Per questo Stari Most non è solo strada di pietra sull'acqua. E' un sonetto di pietra bianca e tagliata, chiamata ''Tenelia"(3), sulla Neretva. Più poesia che ponte. La sera prima che il ponte si liberasse e fosse consegnato festosamente alla vista e all'uso degli abitanti, quell'anno 1566, Hairudin, segretamente e senza ritorno, lasciò la città. li ponte non vedrà mai. Lo spaventò forse l'incontro con la bellezza che aveva creato, la paura che quel sogno, troppo alto e troppo snello, svanisse nel fiume. O forse era geloso dell'opera sua, che vivesse più a lungo di lui. Non si sa. Quanti sono venuti dopo e hanno guardato Stari Most, sono rimasti abbagliati dalla bellezza. I poeti l'hanno cantato, i narratori narrato, pittori dipinto, la gente, come la gente, vi ha camminato. Per primo ne ha scritto il viaggiatore e scrittore Evlia Celebia: "Ecco, si sappia, che io, umile e povero schiavo di Dio, Evlia, visti e percorsi sedici regni, un così alto ponte, che sovrasta due rocche guizzanti verso il cielo, mai ho visto." L'ameranno e proveranno stupore i viaggiatori e passanti nel corso dei secoli. Nell'Ottocento Bozur e Somet, scrittori. Un secolo prima, nel viaggio verso l'Oriente, il francese Bulè scriveva: «Per costruzione è più audace ed ampio del Ponte Rialto a Venezia, nonostante il ponte di Venezia sia da tutti considerato una meraviglia». Anche Ivo Andric', scrittore, premio Nobel, intingerà la sua penna nella tinta scura della Neretva notturna per rendergli omaggio con la sua scrittura. Intorno al ponte si incontra la gente e si allarga la città. li ponte è più giovane della sua città. Col nome Mostar la città si nomina, per la prima volta, il primo giugno 1474 nel consiglio della Repubblica di Dubrovnik, dove si discute di come premiare Skender "subascia"(4). Non si sa quale premio offrissero i nobili di Dubrovnik a Skender, però si sa che la città ha preso il nome dai guardiani del primo ponte di legno. Ignoriamo quale nome abbia avuto Stari Most nella sua giovinezza. Nella storia di Stari Most è stato l'esame di maturità per i ragazzi di Mostar, i ragazzi che avevano fretta di crescere e si lanciavano dall'alto del ponte verso l'acqua. La maturità si conquistava col pericolo di tre/quattro secondi dal punto più alto del Ponte verso Neretva. Dalle acque fresche e turbolente di Neretva uscivano adulti. Si tuffavano dal ponte anche le ragazze di Mostar, per fuggire da amori infelici e da una vita opprimente. Erano donne bellissime, ingenue e giovani di Mostar. D'inverno, dal Sud, da Dubrovnik e da Makarska, arrivavano i gabbiani. Giravano e svolazzavano intorno e sotto al ponte, da dove i bambini poveri gli gettavano il pane. Gli irrequieti gabbiani, sulle acque, sembravano sponde frananti. Igabbiani ci lasciavano con i primi alberi fioriti. Se i gabbiani da sotto questo ponte "al nord", trovavano il sud, allora Stari Most era il ponte europeo più a sud. Credo più alle bussole naturali dei gabbiani che a t4tli i cartografi del mondo che pongono Mostar più a nord di Dubrovnik e di Makarska. Ecco, questo ponte non c'è più. Ucciso e sprofondato nelle acque, soprawissuto nella gente. Cosa fare? Non desidero che queste righe siano un "In memorandum". Gli abitanti di Mostar sapevano dire: «Che al ponte non succeda niente, altrimenti ne faremo uno nuovo ancora più bello e "vecchio"». Forse così bello e "vecchio" non sapremo più farlo, però possiamo e dobbiamo, ai pazzi, mettere le camicie cucite per loro dalle bandiere nazionaliste; ai veri cittadini di Mostar restituire le chiavi dorate della città e al ponte Stari Most fare un monumento, un monumento che per snellezza nel portamento, bontà e di- .gnità nelle fondamenta sia uguale al primo. Farlo di quella pietra bianca, chiamata "Tenelia", come un sonetto sull'acqua. Un "Ponte Giovane", segno di gratitudine, amore e ricordo eterno a Stari Most e agli uomini, come monito ai "non uomini", sperando che un'umanità più cosciente lo protegga finché non diventi forte e lo consegni da amare alle generazioni future, specialmente quando sia diventato vecchio. Credo che così sia giusto. Miso Maric' Scritto nel novembre 1993 a Exeter, Inghilterra, in esilio, in onore a dove c'era una volta un ponte che ora è solamente un silenzio sepolcrale. Dedicato a tutti i vivi e i morti di Mostar ea tutti gli amici di questa città e agli amici dei ponti che hanno orecchie per sentire. 1) Strumenti musicali della tradizione serba. 2)Can• zoni tradizionali dei Croati dell'Erzegovina occidentale. 3) Pietra bianca usata in Erzegovina. 4) Grado militare nell'Armata turca UNA CITTA' IO numeri .,0000 lire. C. C. I'. N.12405478 intc,tatoaCoop. L1naCitt11a r.l. l'.za Dante 21. 47 I 00 Forlì - Tcl. e fa,: 054.,/21422. La rcdationc ~ apertatutti i giorni. certamentedalle 17 alle l'J. Una cill<Ì si pui>tro\'are nelle lihn:rie: ""h•ltrinelli"". "Tempi 1110,krni".L'Libreria !),·Ile Molinc ,1Bologna. "Dedalu,". "lkllini" ""\linena·· a Ce,ena. "\lob~ Did."" a Facn1a. ··pe,aro Libri" a Pesaro: a Milano: ndk tre ""Feltrinelli". alla 'Ttopia··. ;tlk librerie della S111111lt'. "Cl 1EM" di Via Festa del l'a1rn1w e ··ct:ESI'"" di Via Con,en alorio: a l'a\'ia: alla "Libreria d"a11<:Cardano". alla ··coopL·ra1i,a Libreria llni,er,itaria··. alla "'Libreria (iar1an1i'". alla ""LihrL·rialncon1rn··. alla "Libreria TiL·inum". ;1lla"Libreria Il ddlìno". a "I.a Libreria". UNA CITTA' 3

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