Una città - anno III - n. 28 - dicembre 1993

• storie UNO SCRICCIOLO DI FRONTE A HITLER Da una scuola di oggi dove l'attendevano con un cartello con iuden raus alla scuola ebraica del ghetto del 43 dove insegnarono professori indimenticabili, i ricordi di Giacoma Limentani. Giacoma Limentani è autrice di racconti e romanzi ispirati alla cultura e le11eratura ebraica. E' inoltre tradu11rice di fiabe, leggende e testi della Torah. Da anni, da quando son cominciate leprime apparizioni dei naziskin, io ed altri andiamo nelle scuole a parlare coi giovani. Abbiamo cominciato con le scuole di borgata. Nella prima in cui siamo andati c'era un gruppo di professori eccezionali, che avevano preparato l'assemblea con incontri e letture nelle classi. Insegnanti bravi che sentivano il pericolo. E c'era anche un gruppetto di naziskin che aveva appeso cartelli con scrittojuden raus. Questo gruppetto di fascisti, non potendo respirare la stessa aria di due ebree si è chiuso in uno stanzino, ghettizzandosi da solo. Gli altri studenti hanno partecipato e fra loro c'era anche chi pensava di essere furbo, di poter fare domande a tranello. Tante scuole sono così. In tante scuole ci sono giovani che pubblicamente fanno discorsi fascisti e antisemiti, arrivando a dire "ma se voi ebrei vi hanno sempre ammazzato, qualcosa avrete fatto ...". La cosa più nauseante è che spesso vedi che i professori sono i primi a non essere preparati e ti immagini le loro lezioni quotidiane ... Per noi che abbiamo avuto quella esperienza a contatto coi giovani il successo della destra nelle recenti elezioni amministrative non è stata una sorpresa. E' stata invece una sorpresa, che mi ha irritato, che mi ha offeso, I' atteggiamento di quei giornalisti che mi hanno telefonato per sapere come vivevo io, da ebrea, il successo dei fascisti a Roma. E' vero, noi ebrei abbiamo sofferto per il fascismo e per il nazismo più di altri, però insieme agli zingari, insieme ai pazzi, insieme agli omosessuali, insieme a tutti quelli discriminati per qualche motivo, e questo non è un "problema ebraico", ma umano, civile. Perché chiedermi in quanto ebrea? Io sono cittadina italiana, pago le tasse, partecipo attivamente alla vita culturale del mio paese, nel mio piccolo dò una mano a chi ha bisogno ... quindi ho diritto di parlarne come italiana, perché è come ita1iana che me ne vergogno, come ebrea non ho niente di cui vergognarmi. Se si arriva a rimettere in gioco l'estrema destra per la paura del PDS non so dove si arriverà. Se a chi vota fascista viene ricordato cosa pensano gli ebrei rispondono: "Bé, alla peggio se la piglieranno con gli ebrei, io che c'entro?" E quelli che sono stati non dico mascalzoni, ma distratti, che non si sono accorti, che non sapevano si sentono legittimati a ricomportarsi allo stesso modo. E invece qui bisogna darsi da fare, bisogna prendere coscienza. Devo dire che non sono stata d'accordo con la comunità ebraica romana che s'è schierata ufficialmente contro Fini. Gli ebrei italiani sono italiani e devono prendere posizione in quanto italiani su una vergogna italiana. Su questo nessuno mi farà cambiare idea. Non devono fare schieramenti politici in quanto ebrei, devono educarsi al loro interno, se è vero che qualcuno ha votato per Fini; ma fare dichiarazioni pubbliche del tipo "noi ebrei ..." è sbagliato. Io stessa, ebrea, sono divisa in centomila pensieri - l'unica cosa su cui son sicura è che non sono fascista - quindi oggi posso pensare in un modo, domani in un altro, non si può essere tutti d'un pezzo. La gente tutta d'un pezzo vuole dei dogmi, è gente che non riflette, che non sa farsi una coscienza e questo mi fa terrore come ebrea, perché la mia cultura è una cultura di continui pensamenti e ripensamenti, di scandagli delle parole e innovazioni e riflessioni, è una vita continua dell'anima. E quindi né fascismo né comunismo possono far parte di questa vita interiore. Sono cresciuta nella casa di un perseguitato politico ed è stato un trauma molto forte. Però mi ha dato una spina dorsale e mi ha insegnato a non odiare i tedeschi in blocco, perché a casa mia son passati tanti tedeschi non nazisti che fuggivano il nazismo. Vivere nella casa di un perseguitato politico voleva dire non sapere mai dov'era tuo padre, non sapere mai se sarebbe tornato o no, poteva essere preso, incarcerato, fallo sparire. Voleva dire vederlo tornare a volte talmente mal ridotto da non sapere se si sarebbe rialzato. Voleva dire che in ogni r' momento poteva entrare in casa tua questa gente a cercare lo sa il cielo cosa, sfasciando tutto, insultando, dicendo volgarità terribili anche con una bambina. Voleva dire non poterne parlare, dover avere dei segreti che non potevi comunicare alle tue amiche. Avere una vita da adulta dentro un corpo da bambina martoriato a suo modo. Voleva dire guardarsi sempre intorno e sapere che anche le persone per bene che incontravi per strada potevano essere tuoi nemici terribili, perché quelli che venivano poi a farti quelle cose a casa erano persone per bene, che alla domenica vedevo a messa con la famiglia alla chiesa del quartiere. Voleva dire portare di nascosto pubblicazioni o stampati da una parte ali' altra, magari andando o tornando da scuola. Voleva dire non avere un attimo di pace quando tutte le persone cui volevi bene non erano sotto i tuoi occhi. Ricordo una persona passata a casa nostra che non vedemmo più per un certo tempo, tanto che pensavamo fosse riuscito ad espatriare, che improvvisàmente telefonò. E ricordo ancora bene mamma che gli diceva "come, ancora qui ... ha bisogno di qualcosa? - No, volevo solo salutare ... - Ah, finalmente può partire. - No, signora, vado a buttarmi nel Tevere..." Ecco, voleva dire questo vivere nella casa di un perseguitato. Voleva dire che bisognava anche cercare di far ragionare gli altri, sentirsi addosso una responsabilità enorme che non ti abbandona mai più. Fino al '38 la repressione fu esclusivamente politica. Con l'introduzione delle leggi razziali la situazione per la mia famiglia peggiorò di molto, tuttavia - come si dice: non tutto il male viene per nuocere - non dovevo andare più con le Piccole Italiane. Perché fino ad allora io dovevo andare con le piccole italiane. Mentre le figlie di tante brave famiglie fasciste potevano ogni tanto con qualche scusa non partecipare, una come me, con un padre in quelle condizioni, non poteva mancare mai. E siccome da bambina ero uno scricciolo ero sempre in prima fila e così ho avuto l'avventura di vedere Hitler alla distanza di qui a lì. E' stata una delle cose che ha comportato un grande insegnamento. Noi vediamo Hitler nelle caricature ... ma non sono caricature, era proprio così. Nessuna faccia umana ha dei segni nitidi, tutti abbiamo delle sfumature nel colore, nei lineamenti, negli occhi ... lui era un disegno nitido, perfetto. Non si può dire brutto, però gli occhi azzurri, i capelli neri, la pelle bianca, gli zigomi rosa, una melina immobile ... che devo dire, era veramente il ritratto di qualcosa senza vita, disumano. Le altre bambine vicino a me trovavano che era bello. Ed era giusto che lo trovassero bello, perché era un disegno, come quelli cui eravamo abituati allora. Un disegno senz'anima. E anche questo mi separava dalle altre bambine. Era una percezione che avevo perché sapevo il resto. Questo mio orrore per i dogmi, che è ebraico, assolutamente, viene dal terrore della fissità, della immobilità. Con l'introduzione delle leggi razziali mi hanno obbligata a lasciare la scuola. Ma ancora una volta una situazione che poteva essere disastrosa s'è rovesciata nel suo opposto, perché l'esperienza della scuola ebraica di Roma è stata una delle più importanti e indimenticabili della mia vita. I bambini e i ragazzi ebrei non potevano andare più a scuola, ma anche gli insegnanti ebrei non potevano più insegnare, quindi in questa scuola dove confluirono tutti i ragazzi ebrei di Roma c'erano molti fra i migliori professori per le medie, il liceo, l'Università. Dei fatti miei, di quello che succedeva a casa, anche lì non potevo parlare, non era sicuro, però almeno ero sicura che il mio vicino di banco non mi avrebbe detto di scrivere "Viva il duce" e anche quello era una liberazione; in più, essendo un ambiente abbastanza piccolo e in una cillà dove il ghetto era stato aperto da poco - nel 1870-ivecchidicasa,inonni,siconoscevano un po' tutti, quindi c'era un'estrema libertà di frequentare gli amici. In quella scuola nacquero degli amori, dei matrimoni, ma, in linea di massima, nacque anche una grande fratellanza, eravamo un po' tutti nella stessa barca e avevamo questi professori incredibili: ad esempio la professoressa di matematica, Emma Castelnuovo, che adesso è famosa, allora, giovanissima, era al suo primo incarico e poco più grande dei suoi allievi, usava dei metodi nuovissimi, facendoci studiare, in terLa ginnasio, cose a livello universitario, perché era talmente un gioco meraviglioso studiare con lei, che andavamo sempre avanti. Avevamo un professore di Filosofia -Enzo Monferrini- che in mezzo alla retorica fascista imperante, ci faceva dei discorsi di un'apertura incredibile. li primo anno che ho fatto al la scuola ebraica era il secondo ginnasio (la seconda media di oggi) e avevo nove anni -ero qualche anno avanti. Un giorno mancò una professoressa e questo Monferrini, che era il vicepreside, venne a farci una supplenza. Era famoso fra i ragazzi, l'avevamo adorato subito tutti, ma francamente eravamo molto spaventati che ci interrogasse. Ci chiese cosa stavamo studiando: noi stavamo facendo l'Odissea, il canto di Polifemo. Disse "chiudete il libro, che lo rifacciamo". Ci raccontò questo canto come se fosse un western e ci fece una lezione di cinema, di economia politica, di letteratura indimenticabile, dalla quale capimmo che il libro di testo che avevamo davanti non si poteva leggere solo così com'era scritto, dovevamo dargli un'altra vita. Forse anche il mio destino di narratrice è nato da lì. Avevamo una famosa professoressa di Scienze, chiamata Zi' Maria, perché era la zia di certi ragazzi che studiavano lì, e proprio perché erano i suoi nipoti li tartassava di più; allora Monferrini quando avevamo lezione con lui prima di Zi' Maria, diceva "studiate pure, noi ci vediamo oggi pomerig-. gio" e magari con lui ci vedevamo all'osteria con le castagne arrosto, a fare lezione di Filosofia. Come si possono dimenticare queste cose? Il fatto che fosse così difficile l'esistenza, e che lì invece fosse vivibile, mi sembrava ancora più bello. Il clima aiuta di più a dare il senso di una comunità e noi non saremmo stati una comunità; entravano ragazzi di famiglie totalmente assimilate, che non sapevano cosa volesse dire essere ebrei. Come spesso succede l'identificazione viene da fuori, sono gli altri che ti obbligano; se non ci avessero rotto le scatole io non credo che ci sarebbe una comunità ebraica. Ma io non mi voglio fare domande di questo genere; non sono una storica e non mi piace interrogare il destino. Le cose poi vanno, ma è certo che le persecuzioni o colpiscono i vigliacchi - allora tradiscono e in qualche modo anche se lì per lì stanno bene poi pagano peggio- oppure colpiscono gli indifferenti -e tutto gli scivola sopra e non si accorgono di nulla e poi viene il giorno in cui pagano- oppure colpiscono delle persone che nel bene e nel male si assumono un'identità che è una responsabilità. E io questo lo dico dalla parte ebraica e dalla parte non ebraica. Quante cose mi hanno insegnato amici miei carissimi non ebrei; è una questione di guardarsi intorno e di prendere coscienza. Il 16 ottobre del' 43 non abitavamo già più a Roma, mio padre non poteva più stare qui a Roma; anche perché come lo vedevano gliene davano tante e non era più possibile. Quindi da parecchio tempo noi stavamo in una piccola casa in campagna vicino a Val Montone; lì scappammo e andammo da altre persone proprio in piena campagna. Comunque noi non sapevamo (io, mia sorella e mia nonna) che proprio in quella / .--/_.;•·.-• / ::~<:~ . ~~< ;~·:~ .·-~ ·~<-·;:·:: ..~- , .. ~-/ ~- .-.-- ..... : , __ , / .•. /·~ -/•.,V. ·>:· zona mio padre aveva messo su un gruppo di persone che portavano armi a chi si preparava in qualche modo alla resistenza, perché era nell'aria che qualcosa sarebbe successo. Mio padre aveva fatto un giro fra i contadini, le persone che si conoscevano, quelli che lasciavano l'esercito, per i quali occorreva trovare i vestiti e portarli in montagna. E la casa dove scappammo diventò un po' il centro di tutto questo. I più piccoli tagliavano le linee del telefono tutti i giorni con un trinciapollo, quando potevamo rubavamo ai tedeschi. Morivamo di fame ma non per modo di dire. Una volta che non trovammo niente vedemmo una cassetta che ci sembrava lucido da scarpe e la prendemmo pur di rubare ed invece era cioccolato alle vitamine. Quello fu un bel furto! Una sera vennero dei tedeschi e siccome questa era una villetta a tre piani completamente nascosta dagli alberi, avevano pensato di requisirla per il comando di zona. Noi dovevamo andarcene il giorno dopo. Erano molto gentili perché lì c'era solo mia nonna vecchissima, mia madre, la padrona di casa e cinque ragazzi. Quindi non avevano motivo di temere, anzi gentilmente ci volevano aiutare a fare i bagagli. Era proprio quello che non volevamo perché aiutarci voleva dire scoprire quello che c'era. Fra l'altro sotto un letto c'erano due testate di bombe di aeroplano, che erano state portate con un camioncino da certi comunisti. Cosa ci volevamo fare? Chissà... Forse aprirle e prenderne l'esplosivo per fare saltare il ponte ... Mentre c'erano questi tedeschi lì la notte, invece di prepararci abbiamo passato tutta la notte a cantare canzoni per tenerli svegli; perché non girassero per casa e mentre stavamo lì uno dei nostri ragazzi che passava continuamente le linee tornò ferito a morte. Morì poi sotto un letto. Noi eravamo convinti che ci avrebbero comunque preso il giorno dopo, ma improvvisamente arrivò un camioncino con un ufficiale che disse di aver trovato una casa ancora più coperta dagli alberi e ancora più grande e che quindi noi potevamo pure restare. Fu uno di quei colpi di fortuna che nella vita a volte capitano, però venne fuori la necessità di avere documenti, perché noi non avevamo documenti falsi. Quindi decidemmo di fare il viaggio a Roma, all'anagrafe, dicendo che si era napoletani; partimmo e il treno si ruppe quasi subito, quindi ci avviammo a piedi per strade di campagna, e intanto i tedeschi erano corsi a cercarci al treno. Infatti mentre noi partivamo i tedeschi avevano arrestato tutti quelli che erano in casa: la padrona, le due figlie piccole e il ragazzo che aveva quindici anni come me. Venendo a Roma è stato un andare di qua e di là. Gli amici che ti accoglievano, i conventi dove si poteva, perché quelli bisognava pagarli. Mio padre correva grandi rischi girando, mia sorella faceva scarpe con le vecchie pezze, io facevo golfini e così abbiamo tirato avanti in questo modo. C'è stata gente che ha aiutato, gente veramente eroica, e c'è stata gente che ha aiutato perché non ha capito nemmeno la gravità della cosa, quelle generosità che in certo senso sono pure le più belle. Per un certo periodo appena arrivati a Roma abbiamo dormito ali' obitorio e non era molto allegro. Quando c'erano delle vasche vuote dormivamo lì. Poi arrivò un momento che non ci si poteva più stare perché c'erano troppi morti e non c'era più posto e allora gira, gira, bussammo alla casa di una signora che era stata molto amica di mia madre, le cui figlie avevano l'età mia e di mia sorella. Aveva una casa enorme, tanti bagni, gente ricchissima e quando ci videro ci fecero tante feste. Mia madre azzardò che non avevamo dove andare a dormire. Quella disse: non venirmi a parlare dei guai tuoi, sapessi i miei: ho comprato un quintale di castagne e mi si stanno marcendo. Uscimmo e andammo via. Comunque molta gente era così: pensava che fosse un problema degli ebrei. Il nazismo ha creato un precedente di uccisione senza colpa, solo perché sei quello che sei. Come sterminare le cimici nel letto. La pulizia etnica è la stessa cosa. Uno non è responsabile dei colori che ha ma può essere responsabile dei colori che si sceglie. Quando io ero bambina e sapevo i rischi che correvamo - li ho capiti subito perché sono cose che si imparano immediatamente - io sapevo che se non lo avessi fatto non avrei corso rischi; rimaneva la mia scelta di farlo, che poi era una scelta dei miei che mi insegnavano certe cose, ma era anche una mia scelta. E potevo sperare che nel momento in cui non lo avessi fatto più mi avrebbero fatto campare in pace. Dopo, con le leggi razziali, non dipendeva più da me e c'era una cosa sola: cercare di andarsene. Qui mi sono trovata un'altra volta davanti ad una grandissima lezione di mio padre:: per noi sarebbe stato comunque difficil~ p!lflire, ma tanti ci hanno provato, sono partiti alla ventura, sono andati in Sud America, sono arrivati lì senza nulla e in qualche modo se la sono cavata. Mio padre partiva dal principio che le questioni razziali, le intolleranze, vengono nei momenti in cui una società è in disfacimento, è in crisi. E allora lui diceva che se chi, di questa crisi, ha capito di più se ne va, gli altri non avranno mai salvezza. Quindi a maggior ragione dovevamo restare e noi bambine dovevamo capire. Non parlavamo mai delle sofferenze fisiche o psichiche di nessuno di noi, perché parlarne avrebbe significato perdere la forza di esistere, riconoscere una sofferenza è un po' abbandonarsi alla sofferenza. Ma questo non deve far pensare che la mia fosse una casa triste; erano quasi tutti musicisti e si faceva sempre musica, si cantava, si ballava. Più gravi erano le cose e più bisognava reagire. Gli stessi amici della scuola ebraica facevano spettacoli. Si sa che nel ghetto di Varsa via fino all'ultimo giorno hanno fatto delle cose. Riparlare adesso di quello che è successo è certamente molto importante. Per anni, quelli che se ne erano fregati prima se ne fregarono anche dopo, volevano divertirsi; chi era stato ferito voleva tirare un pochino il fiato. Chi sentiva questo bisogno assoluto di testimoniare, difficilmente trovava da testimoniare. Si pensi al libro di Primo Levi, a come è stato scartato, scartato ... poi se ne è ricominciato a parlare e Primo Levi ha aperto la diga. Lui era un essere inimitabile e l'ha pagato. Questo suo desiderio di giustizia ... si pagano care queste cose. Bisogna anche un pochino odiare per salvarsi. •

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