Una città - anno III - n. 28 - dicembre 1993

di operai e altro Partito, sindacato generale, stato sociale: i pilastri della sinistra novecentesca crollati sotto i colpi della globalizzazione dell'economia. La perdita di significato dell'unità nazionale. La fine del modello fordista e dell'idea di una produzione che producesse la società. Il monismo egemonico del toyotismo. Il ritorno al mutualismo delle origini come terza via fra difesa del vecchio e apologia del nuovo. Intervista a Marco Revelli. Marco Revelli, storico, da sempre impegnato nel movimento operaio torinese, lavora al Dipartimento di Scienze Politiche dell'Università di Alessandria ed è redattore della rivista l'Indice. casa madre negli Stati Uniti, via satellite, in tempo reale, utilizzando, grazie ai fusi orari, gli impianti che sono lasciati liberi dai lavoratori americani che a quell'ora stanno dormendo, ci accorgiamo di aver di fronte un processo lavorativo in tempo Parliamo di sinistra e di movimento_ reale ai due estremi del mondo. operaio. Come vedi la situazione? La transnazionalizzazione dell'economia Sono convinto che in questa fine secolo e l'acquisizione di una formidabile mobiuna serie di grandi pilastri culturali e istitu- · · lità del capitale che può spostarsi in tempi zionali su cui si era formata la sinistra straordinariamente rapidi in ogni parte del novecentesca, stiano crollando e con essi mondo, fa sì che possa scegliersi quelle una serie di tabù o di luoghi comuni: il localizzazioni che gli danno maggiori gaprimato dello stato rispetto a ogni altra ranzie dal punto di vista delle condizioni forma di socialità; la dimensione generale delle forze lavoro, delle infrastrutture, deldell'organizzazione da preferirsi alle dimensioni particolari; l'assistenza pub biica anziché forme di solidarismo che non passino attraverso la mediazione dello stato; l'unità nazionale come valore all'interno del quale il movimento operaio può costruire una politica molto più adeguata che su una base di tipo localista. Questi punti fermi sono stati erosi da una serie di processi che stanno segnando la fine del novecento e che costituiscono una sfida molto J alta, che richiede fantasia, che richiede la capacità di tenere molto fermi i principi, ma molto flessibili le strategie e gli obiettivi. Occorre una capacità di inventare forme nuove, diverse, di stare insieme, di far politica, per rompere frontalmente con i tre elementi che costituiscono la tradizione consolidata della sinistra del novecento, più o meno dagli anni venti in poi, in tutte le sue varianti, dal leninismo al laburismo, all'S.P.D., all'eurocomunismo: il sindacato generale, il partito di massa e lo stato sociale. Questa triade -la crucialità della rappresentanza degli interessi da parte del sindacato generale, il significato del partito come contenitore esclusivo dell'azione politica e lo stato sociale come garante del solidarismo e delJ'universalismo dei principi- è scardinata da due elementi: uno è la fine del fordismo taylorista, cioè la fine di un modello di organizzazione del lavoro e della produzione basato sulla produzione di massa e sulla razionalizzazione del lavoro di grande fabbrica; l'altro è' il venir meno del modello keinesiano di rapporto tra politica ed economia, un modello basato sulla coincidenza fra spazio della politica e spazio dell'economia, fra stato nazionale e mercato nazionale. E a provocare la fine di questi due modelli sono i processi di globalizzazione dell'economia. Questo forse è l'elemento nuovo, radicale, che sta segnando la svolta. E il processo di globalizzazione non è semplicemente il commercio internazionale, non è l'economia capitalista che spazia in tutto il mondo neIJo scambio delle merci. E' che tutto il mondo oggi è diventato disponibile alle attività produttive in termini istantanei, che oggi è possibile comunicare in tempo reale con qualsiasi punto del pianeta e non solo dal punto di vista delle telecomunicazioni, ma anche del trasferimento delle merci. Spostare un semilavorato dall'Europa ali' Australia richiede al massimo diciotto ore. Questo significa che tutto il mondo può diventare un segmento di un processo di produzione globale. Il telelavoro è l'esempio classico. Cipputi è rimasto fermo al suo posto. Agnelli no. Se pensiamo che le grandi softer-house americane, produttrici di programmi per computer, impiegano nel loro ciclo lavorativo ingegneri indiani che, costando da sette a dieci volte di meno, producono i loro pezzi di programma collegati via em con gf elab;:tori ce~i della le politiche dei servizi che gli stati possono mettere a disposizione. Cipputi è rimasto inchiodato al suo territorio di fabbrica e non può prescinderne, ma Agnelli ha acquisito una mobilità straordinaria. Questo significa che le politiche economiche nazionali, che lo stato nazionale che, attraverso la leva fiscale e l'erogazione del reddito ridisegnava i rapporti tra le classi, è totalmente saltato, lo spazio dell'economia è diventato il mondo mentre lo spazio della politica è rimasto quello del territorio nazionale. E alla fine lo stato si riduce a praticare nei confronti del capitale quello che il capitale pratica nei confronti del cliente, tenta di interpretare i bisogni dei vari capitali edi offrire servizi e condizioni tali da attirare gli investimenti. Ci saranno anche funzioni di coordinamento dell'economia, normative, ma questa funzione la svolgono già i grandi organismi sovranazionali, la banca mondiale, il fondo monetario internazionale, la CEE, eccetera. Nel competere per le localizzazioni avranno addirittura maggiori chance singole regioni che non i mastodontici stati nazionali fra l'altro molto differenziati al loro interno. Microregioni o macroregioni che potranno anche attraversare i confini degli stati, ridisegnare aree, Torino potrebbe avere delle ·e Riù forti con Lione che con Milano o o con Venezia. Questa è la dimensione. E se questo da una parte ha messo in crisi il modello di stato keinesiano, dall'altra parte ha fatto saltare il modello fordistataylorista. Cioè un modello che era fondato sull'idea del carattere relativamente illimitato della domanda di beni di consumo durevole, di una domanda, estendibile a tutta l'umanità, di tutti i prodotti del I' industria elettromeccanica, prodotti nuovi, prodotti legati alla modernità avanzata. L'idea, cioè, del primato del produttore sul consumatore, che chi decide i volumi produttivi e la qualità del prodotto ha mano libera, è in grado di imporre queste scelte al mercato. Si credeva, in fondo, che la produzione producesse la società, che il relativo disordine incontrollabile della società potesse essere razionalizzato a partire dalla produzione di fabbrica. Il modello gramsciano era questo: conquistando il potere nella produzione costruivi la società nuova, diversa, razionale. la fabbrica toyotista: . ' . non p1umeccanismo, ma organismo Ma nel momento in cui il mercato diventa globale e la produzione anche, nel momento in cui ha conquistato l'intero globo, paradossalmente, ha misurato i propri confini. Ha verificato che la domanda è un'entità finita, non infinita. li mercato non assorbe tutto il prodotto, il mercato non può coincidere con tutta l'umanità. Ci sono dei vincoli, non solo di saturazione del mercato, ma ecologici, dei vincoli determinati dall'eco-sistema, dei limiti di sopportabilità che non possono essere rolli. Se solo il 7% della popolazione mondiale possiede l'auto, il produltore fordista pensava all'altro 93%. Ma questo 7% di consumatori di auto sta rendendo invivibile il pianeta. Figuriamoci se a questo 7% si aggiungesse anche solo una parte del restante 93%. Il genere di consumi che il '900 ha trasformato in way of life per se stesso, e che immaginava generalizzabile, non è tale, è un way of Iife per privilegiati che tale deve rimanere, altrimenti sarebbe una catastrofe. Lazio ha calcolato quante tonnellate di rifiuti produrrà nella propria vita un bambino nato oggi negli Stati Uniti e quanti alberi si sarà costretti ad abbaltere per soddisfare i suoi bisogni e quanti milioni di litri di acqua consumerà ... Sono cifre spaventose che se dovessero essere estese al resto dell'umanità farebbero immediatamente saltare tulle le soglie di pericolo su tutti i campi. Quindi il mercato globale è anche un mercato che misura i propri limiti strutturali. Allora, in questo mercato, non più infinito ma finito, la competitività globale impone ad ogni produttore di ridurre al minimo i propri costi, di pensare a un mercato non più prodotto dal produttore ma che produce il produttore o che, comunque, retroagisce sul produttore in una misura così forte e impegnativa da mettere in discussione le logiche produtlive, a cominciare da quello che ha caratterizzato la produzione di massa che è l'economia di scala. La produzione di massa finora aveva risolto tutti i propri problemi con dei salti di scala, il problema dei costi, soprattutto dei costi fissi, era stato risolto aumentando il numero di pezzi su cui ripartirli. Questa è stata la logica della produzione di massa. La fine del 900 ci dice che è finita. Se noi andiamo a vedere il modello Toyota, il modello della qualità totale, il modello della fabbrica integrata -esce adesso da Einaudi "Lo spirito Toyota" di Taiichi Ohno- cogliamo subito questo carattere che se, per molti aspetti, radicalizza e completa il modello fordista-taylorista nella sua ossessione di sincronismo produttivo, di gestione scientifica del tempo di lavoro, di massimizzazione del rendimento del lavoro, su un punto è rivoluzionario: nel rapporto tra produttore e mercato, tra produttore e cliente. In questa filosofia il rapporto è esattamente rovesciato. La fabbrica non deve imporre la propria razionalità alla società, deve essere un organismo, non più un meccanismo, in presa diretta con la società e in grado continuamente di assorbirne il disordine e di adattarsi a questo disordine, perché il disordine della società non è riducibile. E devefarloeliminando al proprio interno tutte "le sacche di grasso", tutti gli sprechi di spazio, di tempo, di risorse, soprattutto sprechi di personale, che la produzione di massa caricava nel- ]' economia di scala. Ora la fabbrica deve diventare snella, addestrata al "just in time", a rispondere al momento giusto offrendo la quantità e la qualità richiesta in quell 'istante, non prima e non dopo, da quel determinato cliente, adattandosi e allenandosi, ristrutturandosi per essere costantemente in grado di rispondere ai salti, ai soprassalti, alle cadute o alle riprese di un mercato che non è prevedibile, non è programmabile. Così l'idea della programmazione salta e si passa all'idea dell'occasionalismo. Tutto questo ha conseguenze straordinarie nella gestione della forza-lavoro. La forza-lavoro non può più essere, come nel fordismotaylorismo, quella alterità incorporata nella fabbrica con cui il padrone deve fare i conti, che conosce, che deve conti nuamente dominare e contrastare perché la soggettività operaia se si esprime è antagonismo. Questa idea del fordismo diventa un lusso che il toyotismo non può permettersi. Nella nuova fabbrica si deve costituire una comunità organica di produttori, in cui non ci si può permettere né il conflitto, né la meccanizzazione pura e semplice delle mansioni, ma in cui ai lavoratori si chiede di identificarsi nei fini aziendali, di mobilitarsi per raggiungerli, di spendere la propria soggettività. Meno soggettività esprimeva il lavoratore di Taylor meglio era, nella fabbrica di Ohno invece la soggettività è una risorsa. Nel modello taylorista l'informalità era un disturbo, il lavoratore che inventava un espediente o un piccolo attrezzo per facilitarsi il lavoro e farlo in meno tempo di quello previsto dal cronometrista, commetteva un reato; nella fabbrica di Ohno è un dono che il lavoratore fa ali' impresa, perché la comunità di fabbrica deve essere una comunità totale di cui tutti condividono le finalità. delegato sindacale e caposquadra sono la stessa persona Una fabbrica, quindi, per certi versi più democratica nei confronti del mercato e dei consumatori, perché ne accetta come immodificabili le propensioni, ma infinitamente più totalizzante nei confronti della forza-lavoro. La fabbrica fordista-taylorista era una fabbrica dualistica, in cui l'atto produttivo era il prodotto di uno scontro, la produzione del prodotto era l'effetto di un rapporto di forza e su questo si è costruita l'intera rete delle relazioni industriali.

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