Una città - anno III - n. 26 - ottobre 1993

\ila no. La normalità e familiarità della ,.,frase normale". l'importanz i '80. l'anonimato della grande città come occasione per una norma qualche parte. In quella direzione c'è la normalità alla quale tutti e due si sta tendendo: cioè si guarda dalla parte dove le parole stanno di casa. Guardi in un punto, ma in realtà non ci stai guardando, stai solo orientando l'orecchio nella direzione del linguaggio. Questa normalità è anche una normalità di suoni, di ritmo della frase, di familiarità e di giustezza della frase da un punto di vista che non è né grammaticale, né linguistico, né fonetico: è una giustezza che quando è stata raggiunta ti fa sentire a casa tua in quella frase, ma è anche una giustezza che nessuno può stabilire, è la frase stessa che quando appare ti fa sentire a casa, tu lo riconosci e speri che molti altri si sentano nello stesso modo. In realtà questa cosa non è affatto garantita: l'uso della frase, che ha il suo significato, non è una cosa che sia già data, che puoi utilizzare, è una cosa nella quale tu puoi orientarti ad orecchio. scrivere solo nella lingua che si conosce Chi scrive io credo usi questo orecchio; lo si può fare orientandolo nel senso di una letterarietà della lingua -e nella nostra tradizione è la cosa prevalente, per cui sei sintonizzato sul Petrarca, sul Tasso, o sul Manzoni- oppure la puoi orientare nel senso di immaginarti, mentre scrivi, un parlante che non è mai nessuno dei parlanti che ti trovi di fronte, perché tu sei a Milano e quando sarai a Roma il tuo modo normale di parlare diventerà irriconoscibile. Questa "frase normale" ti mette a casa tua, ma nello stesso tempo non toglie affatto l' estraneità che vivi nella condizione normale. Leggendo le tue cose si ha una strana impressione. La tua poesia è in italiano ma . assomiglia alla poe- . sia dialettale. I poeti che mi hanno interessato di più sono quasi tutti poeti dialettali, perché in loro mi sembrava di riconoscere un tendere verso una lingua di tutti, verso la lingua di unacomunità "normale" nel senso che dicevo prima, una lingua, quindi, non letteraria, anche se è vero che nella quotidianità spesso si è di fronte a una iperietterarietà. Mi rendevo conto che istintivamente mi convincevano molto di più i poeti dialettali perché l'italiano paga un debito nei confronti di una lingua letteraria che nessuno ha mai realmente parlato, una lingua costruita, senza frasi normali. E' una lingua che è un mezzo di espressione, mentre nella poesia dialettale mi sembrava di riconoscere una lingua che è testimonianza di una appartenenza. In effetti, non avendo io un dialetto cui fare riferimento, se lo avessi italiano-milanese, cioè l'italianochesi parla a Milano. Quale sia, lo si decide nella poesia. In realtà la poesia non può basarsi su un fatto linguistico dal punto di vista socio-linguistico o ideologico-politico: la poesia crea l'italiano di Milano e per crearlo deve fare come se vi facesse riferimento. Nello stesso tempo crea e si fonda su questo italiano. Ed è un italiano estremamente standardizzato. La cosa difficile è che in questa lingua non si può dire tutto, pone dei grossi limiti espressivi. Ne ero perfettamente consapevole, ma credo che senza questo non sarei riuscito a scrivere: è un vincolo indispensabile. Sono arrivato ad un punto in cui ho creduto di saper scrivere in italiano, così come ci trova di fronte ad una tastiera che si sa di poter utilizzare dai toni più bassi a quelli più alti, ma poi ci si rende conto che non è la disponibilità della tastiera che ti fa fare la musica. Ho quindi limitato la mia tastiera, le mie possibilità espressive, e l'ho fatto non in un senso arbitrario, arzigogolato, ma a partire da quelli che sentivo essere i miei limiti veri. Quindi ho deciso di scrivere in una lingua che conosco bene: so quello che riesco a dire e quello che non si può dire in quella lingua. In genere chi fa questa operazione di abbassamento fa un'operazione molto rischiosa: o cerca un recupero, oppure fa un'operazione autentica nel senso di un'operazione di verità e allora si espone perché si trova di fronte alla sua voce, che è un fatto allo stesso tempo fisiologico, fisico, ma anche culturale. Tutti noi abbiamo mezzi vocali che possiamo sviluppare, ma hanno dei limiti precisi, come l'estensione o il fatto che una voce sia maschile o femminile. Uno può anche avere la prepotenza di volere superare i limiti di questa sua determinatezza, però rischia veramente un naufragio totale. Per me capire la propria voce significa riuscire a dire le cose e a cantare; se uno non conosce i limiti della propria voce non riesce nemmeno a cantare. La voce è in un certo senso la nostra ombra, quel lo che noi non sappiamo di noi stessi e che possiamo vedere soltanto come limite. Per me parlare significa accettare questo limite, stare in questo limite senza volerlo sovrastare, cioè senza volere dire che cosa è. E' il contrario di una concezione atletica della voce. La voce può essere anche concepita come un mezzo di una performance vocale, ma la voce non è questo: la voce è un segno di ciò che noi siamo e quindi richiede un riconoscimento più che un uso. Si tratta di riconoscerla, di riconoscerne la sua forma, il suo timbro, il suo stile, che è altrettanto difficile, forse di più, che non utilizzarla a fini di performance Tutto questo ha un forte senso etico, sembra alludere ad un modo d'essere e di abitare il mondo estraneo alla ybris della volontà di dominio. Si, ha un senso etico, ma non in un senso normativo per gli altri, cioè in un senso normativo universale, ma nel senso che uno mostra se stesso, mostra la sua voce. Ma questo mostrare lapropria voce è esemplare, non normativo. E' il fatto stesso che si mostri ciò che si è ad essere paradigmatico, perché quando tu mostri qualcosa è come se dicessi: «bisogna essere così»; però sai anche che questa cosa non può essere coercitiva per gli altri, non può essere una norma vera. E' una norma che si può subire, si può mostrare, ma non si può imporre. La voce manca di universalità, è un'individuazione che non può essere imposta ad altri. Ad un altro tu puoi dire "Abbi la tua voce!", ma non puoi dire "Abbi la mia voce!". lo ti mostro la voce che ho, ti mostro che cosa sono, qual è la mia lingua e il posto nel quale abito ed è indispensabile che chi si trova di fronte a questa paradigmaticità dia segno di essere nello stesso gioco. si tornava a paria re solo • • 1nnome proprio C'è il rischio che l'esemplarità della voce e dello stile sia esposta anche ad un fallimento totale, non solo al fallimento di un giudizio estetico o etico, ma, se non viene riconosciuta, proprio alla inesistenza. Il rischio della frase normale è quella di essere nulla, di non essere neanche stata pronunciata perché non viene riconosciuta e quindi non c'è. Mi sembra che senza una cosa di questo genere la scrittura possa solo far conto o su un dato estetico -e quindi su un gusto, una società letteraria, estetica, su una comunità di persone che pensano una stessa cosa- oppure semplicemente su un fatto casuale. Negli anni '70 la comunità era più ideologica che vera,dinamica. con un rischio dentro; sembrava una cosa letta sui libri e poi applicata. Negli anni '80, quando molti si sono trovati da soli con una situazione di sbandamento, di spaesamento, hanno dovuto rimpaesarsi in qualche modo e quindi parlare senza che ci fosse la garanzia di una comunità già data, scritta da qualche parte o comunque visibile. Questo è stato molto utile; è stata un'esperienza ancora più forte di quella degli anni '70. Negli anni '70 si immaginava una rivoluzione e quindi un insieme di persone consapevoli, anche se minoranza, che cambiavano tutto in nome della comunità; negli anni '80qucstacosaera talmente persa che invece era ancora più viva, cioè la comunità a venire era ancora più legata al singolo individuo, ciascuno era in gioco e se la giocava come poteva, parlava in nome proprio e non più in nome di libri, di amici, di gruppi politici o di strani soggetti mai esistiti. L'esperienza che si aveva nenel prossimo numero: la spazzatura intervista a Guido Viale vivere insieme? intervista a Wlodek Goldkorn gv{Sr10teCa' hG 1tn o t:S1anco gli anni '70 era mitologica -c'era il mito di una comunità forte, di un soggetto rivoluzionario, di un soggetto ideale-, non c'era mai il venir meno di questo mito. Negli anni '80, anche percircostanzeesterne, c'è stata invece una caduta brutale di questo puntello, di questo suolo, e mancando il suolo ognuno di noi è stato costretto ha vedere che cosa veramente lo sosteneva. E' stata una specie di caduta libera molto vertiginosa, ma anche molto istruttiva. Si sentiva il suono delle parole. Negli anni '80 sentivo quando parlavo, il suono delle parole. Sentivo che queste parole erano sorrette da nulla se non dalla mia propria presenza. Però era come se parlassi per la prima volta, perché non stavo più megafonando in nome di altri: ero di fronte a me stesso, parlavo per mio conto e le mie parole risuonavano per la prima volta in tutta la loro imbecillità. Da questa cosa ho imparato a non prevaricare, a sapere che quando parli in nome tuo chi ti è di fronte parla in nome proprio e quindi siamo pari. Anche questa parità era una cosa impressionante; una parità che non era parità politica. La cosa che mi colpiva non era l'edonismo, il culto delle apparenze, l'individualismo imperanti, ma era la profonda parità che c'era, cioè il fatto che in me come in chiunque fosse in gioco la stessa cosa e che quindi quando parlavamo ci stavamo giocando la stessa cosa ed eravamo perciò corresponsabili. Questo ha portato più di una persona a sbocchi di tipo religioso che sono, senza dubbio, uno dei possibili esiti di quello che sto cercando di descrivere. Chi invece non ha avuto nemmeno lo sbocco religioso credo sia rimasto in una situazione di sospensione, di tensione veramente incomparabile, che forse oggi è meno palpabile. Tu parli della necessità di un abitare. Nelle tue poesie mi pare si possa cogliere la possibilità di abitare poeticamente la città, pur sapendo che la città è il luogo dell'anonimo in cui l'autenticità vacilla. L'anonimo non è l'inessenziale e l'insignificante. Esso comunque manifesta una norma. Non è un luogo in cui ci si perde, ma anzi è un luogo in cui ci si può ritrovare. restituire allà città la sua dignità poetica Penso che l'anonimo possa offrire l'unica norma con la quale ci si possa misurare, perché la norma che si deduce da ciò che non è anonimo, che vuole essere carico di senso, molto spesso è una norma posticcia ... Uno dei luoghi comuni del nostro secolo è proprio la spersonalizzazione della "only crowc1··,della massificazione, per cui le città appiattiscono tutto, l'individuo non esiste più. In realtà io credo che proprio di lì passi un· idea di individuo che non è quella eroica, romantica, non è più quella della autoaffermazione dell'individuo come eccezione rispetto alla regola, come personalità straordinaria. lo credo che di lì possa crescere un'idea etica dell'individuo, un'idea, cioè, dell'individuo che dia conto di sé alla comunità, un individuo che può essere tale soltanto perché si erge a partire dalla comunità. A me piace molto l'idea di restituire alla città una dignità poetica, una dignità di luogo di incontri naturali e non artificiali ... Più che naturale, direi destinale, e visto che abbiatribalismo e modernità in Africa intervista a Rodolfo Casadei mo avuto il destino di abitare qua in qualche modo deve essere possibile abitarci. Questa è una cosa per la quale devo risalire molto in là nei miei ricordi, perché io sono arrivato a Milano, che per me è la città per eccellenza, quando ero bambino avendo abitato prima in un luogo molto più "abitabile", Sarzana, cioè in un luogo in cui c'era il mare, la campagna, e di cui conservo un ricordo mitico. E invece ho un ricordo miticamente orrendo di Milano, perché ho avuto proprio la sensazione di una deportazione. Gli spazi che si restringevano, le case che diventavano più piccole e brutte, l'affollamento, una continua esperienza di oppressione. Quando ero bambino, poi, mi trovavo dentro a questo affollamento come un animale in gabbia e credo che la mia scrittura sia stata anche un esercizio di adattamento; non tanto di un adattamento psicologico, ma in un senso più vasto. Ho fatto, per esempio, un lungo esercizio di raccolta di muri di Milano. Sono andato in giro in bicicletta per alcuni anni fotografando i muri di Milano e questa cosa non era un esercizio estetico, ma di "abitazione". Cercavo di capire che faccia avevano .. i muri, come parlavano. Secondo me imuri di Milano parlano più di quanto parlino i muri di altre città. A Firenze tu hai un linguaggio architettonico dei muri, hai il linguaggio di qualcuno che ha concepito quella scena. A Milano c'è una casualità architettonica tale per cui attraverso questo linguaggio non è l'architetto che ti vuole parlare, né chi ci abita, né n Sindaco; c'è una combinazione paesaggistica apparentemente accidentale che però ti parla. Io, come tutti, avevo sempre sentito il linguaggio dell'architettura, sono cose che si fanno a scuola, ma una cosa è occuparsene scolasticamente altro è capire che cosa questo significhi. Le case, le piazze, dicono delle cose che però non sono parole. Per me si trattava di fare una collezione di questi esempi di spazi abitativi e, di lì, cercare di imparare qualcosa. Cosa mi vogliono insegnare e cosa prescrivono le case di Milano? Quel lo che prescrivono principalmente è di «stare là». Il fatto che tu sia qui non è casuale, non vuol dire che te ne puoi andare e che sei libero da questo muro. No, loro sono qui e · tu devi stare qui, se non ci sarà questo ci sarà qualche altra cosa. - Le foto di Vmberto Fiori, J anno parte di una serie di polaroid a colori,fatte tra 1"82 e il '90, sui muri di Milano. UNA CITTA' INTERVISTE A Vittorio Rieser: Franco Mclandri. A Gianni Baget Bouo: Anna FrigerioeGianni Saporetti. A Sonja lici!/: Massimo Tesei. A suor Gemma: Luisa Campana e Gianni Saporetti. A Umberto Fiori: Rocco Ronchi e Gianni Saporetti. A Paolo Berto:,_i: Franco Melandri e Gianni Saporelli. A Giulio Soravia: Franco Melandri. A Francesco Campione: Rosanna Ambrogelli. A Raffaella Bolini: Massimo Tesei. FOTO Foto: di Fausto Fabbri. In quarta c in ultima: di Emilio Casalini. In ottava e nona: di Umberto Fiori. In dodicesima e tredicesima: tratte da "L'ILLUSTRAZIONE ITALIANA". COLLABORATORI Rita Agnello, Edoardo Albinati, Lorella Amadori, Rosanna Ambrogetti, Antonella Anedda, Gior• gio Bacchin, Paolo Bertozzi. Patrizia Belli, Vincenzo Bugliani, Luisa Campana, Libero Casa• murata, Dolores David, Fausto Fabbri. Anna Frigerio, Rodolfo Galeolli. Liana Gavelli, Diano Leoni, Marzio Malpczzi. Massimo Manarelli, Gianluca Manzi, Silvana Masselli, Orlanda Matteucci, Alice Meladri, Franco Melandri, Morena Mordenti. Linda Prati, Carlo Poletti, Roberto Poni, Rocco Ronchi, don Sergio Sala, Gianni Saporetti, Sulamit Schneider. Massimo Tesei, Ivan Zallini. Grafica: "Casa Walden··. Fotoliti: SCRIBA. UNA CITTA' 9

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