Una città - anno III - n. 26 - ottobre 1993

• storie PROFUGHI E VOLO TARI Nel racconto di Raffaella Bolini, la campo profughi nell'exYugoslavia e ormai da tre anni. storia travagliata di un di un impegno che dura La Yugoslavia è una di quelle cose dove l'aspetto dell'impegno nella propria associazione e quello personale, umano, si mescolano molto e trovare i confini non è facile. Come responsabile internazionale della Confederazione ARCI ho lavorato molto nel periodo prima dello scoppio della guerra nella ex Yugoslavia, subito dopo la caduta del muro di Berlino, con i gruppi della cosiddetta società civile all'estero. Ho così conosciuto i primi gruppi per la pace e i diritti civili nell'ex Yugoslavia e mi ricordo molto bene di una riunione a Budapest con tutti i gruppi - della ex Yugoslavia ce n'erano molto pochi- in cui una signora piccola, vestita di nero, una delle animatrici del movimento della pace a Belgrado, ci diceva: "State attenti, la crescita dei nazionalismi sarà il problema del futuro". Lì sembrava proprio che fosse una un po' suonata in mezzo a gente euforica, convinta che la strada fosse ormai spianata. Purtroppo Sonja Licht era l'unica che aveva visto giusto. E da lì è arrivato questo interesse a seguire la questione della ex Yugoslavia. Ho una storia di pacifismo lunga e verso la fine degli anni '80 c'era stato come una sorta di riciclaggio del mio impegno sulla questione del razzismo che pensavo essere un punto essenziale. Mi sembrava che lo stesso movimento pacifista stesse troppo attento alle armi e troppo poco ai cambiamenti sociali che erano in corso nella nostra società. Se si guarda al fenomeno del nazionalismo, a come ha conquistato terreno e a come è stato capace di scatenare una guerra, si capisce subito quel che voglio dire. Ho sentito che dentro quel la guerra c'erano un po' tutte le mie radici ed era un po' la frontiera nuova del pacifismo. Quando guardi dall'altra parte la sensazione è di vederti in uno specchio, cioè di vedere riflesso tutto quello che possiamo essere. E noi che abbiamo una concezione molto illuminista dell'uomo e della società pensiamo che, seppure con interruzioni, con stacchi, con contraddizioni, il mondo vada avanti; purtroppo temo che non sia così e dobbiamo essere ben consapevoli che possiamo tornare indietro di brutto. Questo è un po' il motivo per cui moltissimi di noi hanno avuto questa specie di full immersion emotiva nell'esperienza politica e professionale della ex Yugoslavia. Penso che il rapporto del pacifismo italiano coi gruppi democratici e di pace nelle zone di conflitto sia un'esperienza nuova ed importante perché segna il superamento degli anni in cui si pensava che bastasse riuscire a capire dove stava il nemico e fare la manifestazione per risolvere il problema. Il salto vero è stato poi collegare questo all'iniziativa concreta, cioè tutta la questione del volontariato e degli aiuti umanitari. Lì è stata per me la vera esperienza nuova; il fatto che non solo aiuti concretamente coloro che si battono contro la guerra e per la democrazia, ma ti fai carico di costruire la legittimità della tua ingerenza nei fatti di un altro paese, caricandoti dei problemi della gente. Se dovessi scegliere un senso, il senso, fra i tanti che può avere questa esperienza di volontariato, sceglierei questo. Cioè appunto di prendere su di sé la responsabilità dei problemi che sono di fronte a un paese in conflitto, non tanto come spinta morale e etica, che ovviamente c'è ed è fondamentale, ma anche come uno strumento politico che abbiamo nelle mani per riuscire a costruire le condizioni di una nostra presenza lì. E' interessante conoscere la storia di Posusje. Il gruppo di Dare ruote alla Pace, che in quel periodo si era spinto per primo nel territorio della Bosnia Erzegovina, in un incontro sottopose il problema di questo campo profughi a Posusje, un luogo all'interno della Bosnia ErLegovina a 50 Km da Mostar, in territorio controllato completamente dai croati, dove si trovavano 800 mussulmani, provenienti da diverse realtà della Bosnia centrale, che stavano lì ormai da aprile. In tutti quei mesi era stato completamente abbandonato a se stesso; i croati, a quel tempo ancora alleati dei mussulmani, non se ne facevano carico perché sentivano guesto iam o fome una spina{ fi:anco (come s'è poi visto a Mostar avevano altri progetti sui mussulmani ...); nessuna organizzazione internazionale ci lavorava, a parte quelli che passavano a lasciare del cibo. Abbiamo fatto una delegazione e siamo andati a vedere. I profughi erano ospitati dentro la vecchia ala della scuola del paese, un posto dove pioveva dal tetto. C'era a disposizione solo la palestra e tutti dormivano per terra con le coperte senza nemmeno i materassi, non c'erano i gabinetti, c'erano dei buchi scavati ~ella terra coperti da delle assi, non c'era la luce, c'era una sola pompa per l'acqua e non c'era nemmeno la possibilità di consumare pasti caldi, per cui mangiavano pane, acqua e scatolette. Al ritorno da questa perlustrazione abbiamo cercato di costruire un pool di associazioni che si assumessero questo campo. E così Dare ruote alla pace, che lo aveva scoperto, l' ARCI, l'Associazione Nàzionale Pubblica Assistenza, il Servizio Civile Internazionale e la Caritas Francescana degli Abruzzi si sono messi tutti insieme e siamo tornati giù sei volte nel giro di un mese, soprattutto per capire che tipo di progetto serviva, ma anche per fare l'accordo con le autorità croate perché ci lasciassero entrare nel campo e lavorare. Cosa che non era facile. L'irruzione di gruppi estranei alla realtà del paese, all'interno di una dinamica di grossa tensione, non era gradita; però, con l'aiuto dell'alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, aggiunto alle pressioni ed ai rapporti che lì eravamo riusciti a stabilire con il parroco, il Sindaco, il Presidente della Croce Rossa, eccetera, abbiamo avuto i permessi. Quando siamo arri vati già c'erano tensioni e una netta discriminazione nel paese rispetto agli aiuti; i profughi croati vivevano in una situazione completamente diversa: erano tutti alloggiati nelle famiglie, certo con le difficoltà di un paese in guerra, povero, ma non nella situazione veramente inumana in cui vivevano i musulmani. Questi per la maggior parte erano anziani, donne e bambini; praticamente mancava completamente la fascia degli uomini adulti.C'erano parecchi adolescenti, molte famiglie divise, a pezzi, molti contadini tipicamente bosniaci, coi vestiti tradizionali. Posusje si trova vicinissimo al confine con la Croazia, quindi è in una delle strade di maggior transito dei profughi. A un certo momento della guerra la Croazia ha chiuso le porte, accettando di fare entrare chi già aveva una destinazione finale che non fosse la Croazia stessa: quindi gente che passava dalla Croazia per andare in altri paesi. E' evidente che chi è in grado, dalla Bosnia, di avere una simile documentazione, tutta l'ospitalità e legaranzie per essere accolto in un altro paese sono solo i ricchi. Chi è rimasto a Posusje, cioè alle porte della Croazia, bloccato senza potere entrare, sono stati i poveri, i meno collegati con il mondo, cioè la gente di paese. Molto spesso si dice dei profughi: perché questa gente non si dà una mossa, non si dà una svegliata? Perché loro medesimi non si organizzano per vivere meglio? La sensazione che ho avuto in questa esperienza è quella dell'inazione totale, dell'apatia; proprio uno shock da guerra. Questa gente potrebbe anche fare qualcosa per migliorare la propria vita, ma per farlo ha bisogno di uno stimolo e in questo senso il volontariato ha svolto un ruolo essenziale portando l'energia, la voglia di fare, a contatto con queste persone che ne hanno viste di tutti i colori e che quindi si sono lasciate andare. Pian piano si è visto recuperare in queste persone il senso del vivere e quindi anche la capacità di organizzarsi. Questo si è visto tantissimo nell'evoluzione del lavoro del campo, perché il primo mese ci siamo dedicati con un sacco di volontari - ce ne andavano 30 alla settimana- alla ristrutturazione dell'edificio, alla sistemazione dei bagni, alla sistemazione dell 'acqua, del tetto, di alcuni spazi che potevano servire per fare la scuola, il laboratorio di animazione, l'installazione della cucina, eccetera. Man mano che andava avanti questa esperienza si è cercato, e la reazione ' · · di farci sostituire dai ,.,o profughi stessi. Il senso era quello di fare scattare il meccanismo dell'autorganizzazione. Però per farlo scattare è molto importante la vicinanza con qualcuno che ti dia la carica, l'energia, con cui stabilisci una relazione umana forte, che riesce in qualche maniera a scuoterti. Lì una cosa che mi divertiva moltissimo eracheall'inizio ci dicevano: "Chi siete? Perché lo fate?". Dietro c'era del sospetto; cioè: ne ho viste tante e di tutti i colori che non mi fido del fatto che ci sia qualcuno che viene qua a fare questo in mio favore, gratuitamente. Dov'è il trucco? Poi dipende dal livello di relazioni che stabilisci. In genere si instaurava un meccanismo di grande fiducia, le relazioni erano molto buone. Dopo la cucina e il suo mantenimento ci siamo fatti carico della salute dei bambini e di tutta la partita sanitaria -infatti abbiamo creato lì un ambulatorio molto buono che veniva usato anche dalla gente del paese- e di un lavoro specifico sui bambini della scuola del paese, per cui si era fatto una specie di gemellaggio a tre fra bambini italiani di alcune scuole romane, bambini del campo e bambini della scuola croata, che non hanno fatto altro che scambiarsi letterine, disegni, mandarsi cassette registrate, film, eccetera. Per creare una relazione con il paese i bambini sono stati fondamentali. Man mano che siamo andati avanti abbiamo curato anche tutta la parte di piccole esperienze di lavoro per le donne: lana, filo, cucito, che è loro servito per fare un po' di soldi e anche per superare l'inazione in cui erano tenute. La reazione della gente, per la maggior parte, è stata positiva, anche perché noi abbiamo cercato di non fare razzismo al contrario, ma di dimostrare che eravamo capaci di guardare anche ai problemi del paese. E' interessante vedere come è finita questa storia. Di fatto, dal momento in cui si è rotta l'alleanza tra croati e mussulmani, Posusje è rimasto uno dei pochissimi baluardi nell'Erzegovina dove resisteva una qualche convivenza fra croati e musulmani, dove i musulmani non venivano espulsi e dove il campo continuava a venire sopportato. Dire sopportato è fare uno sgarbo alla gente di Posusje perché quegli ultimi mesi sono stati quelli in cui la gente del paese era più disponibile rispetto al campo. Ci sono stati momenti di tensione, come quando per due volte soldati diciottenni di Posusje sono morti combattendo a Mostar contro i mussulmani. E' stato uno di quei momenti in cui l'ondata di emotività è stata più forte e in cui più c'è stata tensione, ma in generale non è che la popolazione abbia cambiato atteggiamento. Purtroppo è aumentata la presenza di forze estremiste e sono quelle che di fatto hanno evacuato il campo alla fine di giugno, andando contro il tentativo del Comune di continuare a tenere questo campo. Ecosì in piena notte c'è stata l'evacuazione forzata del campo. E' stato chiesto ai volontari di sottoscrivere una carta in cui si dicevano d'accordo con l'azione di sgombero, cosa che è stata rifiutata. Quindi è stato praticamente un atto di forza anche se non c'è stato uso di violenza, se non ali' inizio, quando sono entrati nel campo sparando. I profughi sono stati fatti partire su degli autobus, insieme a tutti i nostri volontari e portati a Medjugorie, dove sono stati sbarcati di fronte al comando dell'ONU. Lì non c'era nessuna possibilità di trovare una sistemazione e quindi questi profughi sono stati per ore circondati dai soldati che si facevano sempre più nervosi e minacciavano di fare fuoco. Il problema era che la Croazia non li faceva entrare e quindi erano praticamente prigionieri in Erzegovina che non li voleva più, ma che non sapeva famiglie disponibili. La cosa ha funzionato perché alla fine sono rimasti soltanto alcuni casi speciali di persone che hanno handicap fisici o psichici che non potevano godere di una sistemazione familiare, ma avevano bisogno di una sistemazione specialistica in ospedali o istituti. Per noi è stata la dimostrazione che volendo si può trovare anche un altro modo che non sia quello di concentrarli in luoghi come Cervignano, dove poi si creano problemi di integrazione. Tra l'altro questi profughi li ho ritrovati in gran numero nella marcia Perugia-Assisi, dove sono venuti insieme alle persone che li stanno ospitando. A Posusje il campo è stato immediatamente riempito da profughi croati provenienti dal la Bosnia centrale, da una zona di scontri fra croati e musulmani dove i croati stavano perdendo. Quindi una situazione anche lì molto dura perché si trattava di persone appena venute dalla guerra, con traumi addosso. Nonostante fossimo stati buttati fuori dal paese, abbiamo deciso di continuare per lo meno a gestire la fase di emergenza, affinché i profughi appena arrivati non dovessero pagare costi che non dipendevano da loro, ma dai militari estremisti della loro nazionalità. Anche qua non potevamo fare i razzisti a rovescio. Dopo quella fase di gestione, le ANPAS hanno deciso di continuare anche nel periodo estivo a sostenere il campo. Il gruppo delle dove buttarli. Qui è scattata l'emergenza, fra l'altro era domenica, ma il meccanismo ha funzionato bene lo stesso: abbiamo contattato il Ministero degli Interni, il Ministero degli Esteri, con l'aiuto dei Parlamentari per la pace e con una trattativa che si è svolta metà per telefono e metà col fax tra governo italiano, noi, Nazioni Unite, Ambasciata di Zagabria, governo croato, siamo riusciti, dopo molte ore, ad avere l'autorizzazione per imbarcare tutti questi profughi e portarceli in Italia. La Croazia ha messo ugualmente i bastoni fra le ruote, lasciandoli, per l'assenza di qualche timbro, un'altra notte al confine. Comunque nel giro di due giorni siamo riusciti ad accompagnarli fino a Spalato e da lì sono arrivati in Italia. Erano centoquindici, perché nei mesi precedenti avevamo fatto tutto quello che potevamo per far uscire la gente da quella situazione. Arrivati in Italia, c'è stato un altro esperimento: abbiamo fatto un accordo con il governo per far sì che queste persone non venissero trasferite nei campi profughi, perché non ci piacciono questi luoghi di concentramento di grandi masse di persone in cui è complicatissimo non riprodurre meccanismi di segregazione. Abbiamo fatto una proposta che il governo ha accettato: noi ci saremmo fatti carico in un periodo di tempo relativamente breve, 3 settimane, di sistemare tutti questi profughi collocandoli in famiglie, in piccoli nuclei, o attraverso la copertura degli enti locali. I profughi arrivati ad Ancona sono stati ospitati in un albergo a Senigallia a spese del governo, mentre il consorzio delle nostre associazioni ha fornito le persone che hanno lavorato per tre settimane a contattare gli enti locali e le associazioni sta attualmente discutendo come intervenire su Posusje. Naturalmente occorre pensare ad un intervento completamente diverso, perché il campo in questo momento è un campo diverso, non più isolato dal paese, ma è un campo in cui dentro ci sono persone considerate dalla gente del paese come fratelli. Il punto è che noi ci teniamo particolarmente a continuare un lavoro lì, perché abbiamo imparato che il fatto di riuscire a portare avanti un progetto, che consiste nel dare a un paese la possibilità di ascoltare voci diverse, che non siano quelle della guerra e del nazionalismo, può essere molto importante. Anche in quelle zone lì, dove ha vinto la logica della guerra, cerchiamo ugualmente un modo per restare senza comprometterci, senza perdere i nostri valori, ma continuando ad aiutare la gente e cercando di far sì che dentro a quel paese ci sia qualcuno che possa ascoltare una campana diversa. In un paese come Posusje non hai le forze pacifiste; in un paesino così sperduto nell'Erzegovina, dove la guerra ha veramente spazzato via la democrazia e la convivenza, quello che puoi fare è cercare di lavorare nelle contraddizioni. Lavorando con le persone scopri che spesso e volentieri, al di là della ufficialità, se hanno di fronte una sponda, si muovono. Se non ce l'hanno, l'unica cosa che possono fare è allinearsi ali' ideologia vincente. · Vorrei fare una riflessione conclusiva sull'atteggiamento che, soprattutto a sinistra;c' è spesso stato sul volontariato. Ricordo che nel 1990, con" Nero e non solo " abbiamo fatto il primo campo per lavoratori extracomunitari immigrati a Villa Literno, e ancora allora c'era tantissima gente che faceva questo ragionamento: "Noi dobbiamo essere quelli che denunciano, che lottano, non dobbiamo essere quelli che tolgono le castagne dal fuoco allo Stato". I tre anni passati sono serviti molto perché quest'anno una cosa del genere non l'ho sentita dire da nessuno. Questo è un problema che non risolvi con la discussione teorica, ma semplicemente dimostrando che il volontariato può non essere mero assistenzialismo, può essere un senso nuovo della politica. lo credo che se noi come volontari della ex Yugoslavia, che adesso siamo riuniti nel Consorzio Italiano di solidarietà, 160 gruppi, se fossimo stati gruppi che si presentavano al Governo o al Parlamento solo sulla base di belle dichiarazioni di intento o di manifestazioni fatte qui, sicuramente non avremmo ottenuto il rispetto che c'è oggi. Nessuno adesso nel Governo, anche quelli che mettono i bastoni fra le ruote, può negare legittimità alle nostre posizioni e alle nostre idee perché stiamo facendo delle cose lì, perché i meriti ce li siamo conquistati sul campo in mille modi, anche piccolissimi. Ho veramente idea che questa questione del volontariato di pace sia stata una cosa che ci ha un po' rivoluzionato l'animo e la coscienza e che può essere una di quelle cose che possono rivoluzionare la politica, anche quella che ancora non vuol cambiare. -

RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==