Una città - anno III - n. 26 - ottobre 1993

vo, in parte indipendente da quella che era la volontà del sindacato all'inizio degli anni '80. Un altro aspelto della crisi. che invece è politico edipende dalle scelteche il sindacato ha fallo, è dovuto al fallo che il sindacato non ha saputo fare un·analisi e trarre delle lezioni adeguate da quella sconfitta. Abbiamo avuto porzioni consistenti del sindacato -di cui la ClSL è l'esempio più clamoroso, ma che vale anche per buona parte della CGIL- le quali hanno semplicemente pensatoche si era stati troppo estremisti, che avevamo lo1tato troppo e quindi bisognava diventare più moderati. Un'altra parte del sindacato, ad esempio molti compagni di '·Essere Sindacato", in sostanza esprime invece una nostalgia per quei tempi e quindi non si domanda fino in fondo perché quella linea è stata sconfi1ta. Nei falli, comunque, l'incapacità di elaborare questa esperienza, unita al dato oggettivo di alcuni anni di rottura di continuità e di mancanza di lotte, hacontribuito aportare alla situazione attuale. in cui si ha la sensazioneche buona partedel sindacato giri su se stesso, che sia molto proiettato sui problemi interni e i problemi di politica sindacale li affronti in modo molto accademico, avendo presente gli interlocutori istituzionali, maavendopoco presente la situazione dei lavoratori. Questo ovviamente non vale per moltissimi pezzi periferici del sindacato, che continuano a fare un lavoro oscuro e faticoso di rapporto effettivo con la base, ma non sono questi che segnano le scelte e la vita politica del sindacato. Ma perché la crisi degli anni '80 non è stata capita bene da nessuna delle correnti sindacali? I motivi sono molti. Uno è che le lotte degli anni '70 erano arrivate ad un punto tale che c·era bisogno di una soluzione politica; in fabbrica si era creato un sovraccarico di forLe e di scontri che richiedevano delle misure di politica economica e di politica sociale che non potevano più essereprese dalla fabbrica, ma dovevano essere prese dal governo. Questa esigenza, che era avvertita anche nel sindacato, si è però tradotta da un lato nei governi di solidarietà nazionale e dall'altro nella linea dell'EUR, che è finita male. Ha finito per portare alla centralizzazione della contrattazione e al prevalere di una linea moderata. Dall'altro lato, nei luoghi di lavoro, il sindacato non ha saputo affrontare il problema della gestione della contraltazionc e delle lolle. Non è un casoche allora, anchenei Consigli di Fabbrica. dominasse il timore della "istituzionalizzazione··, non è uncasoche allora parole come '·cogestione" fossero viste come bestemmie e si avesse tulti paura di qualsiasi stabilizzazione delle relazioni industriali in fabbrica. In realtà i rapporti di forza che si eranocostruiti potevano consolidarsi solo sesi trovava con le aziende un modo che permcltesse di esercitarequestaforza inmodi compatibili con l'esistenza e la competitività del le aziende stesse.Questo è un problema che allora non si è affrontato, si è affrontato dopo ed in termini puramente teorici, cioè con una serie di elaborazioni che il sindacato ha fa1to e che nel caso della CGIL vanno sollo l'etichetta di "codeterminazione". Questeelaborazioni traevano la giusta conseguenza dalle contraddizioni non risolte degli anni '70, però l'hanno tratta solo sulla carta: quando il sindacato aveva la forza per fare la codeterminazione non la voleva per pregiudizi ideologici, quando poi hacominciato aparlarne non aveva più la forza per applicarla e poi prevaleva una linea di tipo moderato che non permetteva neanche di ricostruire questa forza. Ma questo approdare, ora che è divenuta inapplicabile, alla codeterminazione, non nasce soprattutto dal fatto che il sindacato non ha saputo cogliere pienamente il senso della tensione al cambiamento che animava le lotte degli anni '70? La tensione c'era, è vero, ma questasituazione non può durare indefinitamente. L'ho visto bene nella situazione FIAT, dove questacontinua tensione di lotta, di connitto. di intervento attivo, di controllo, già negli ultimi anni '70, e quindi ben prima della sconfitta del!' 80, vedeva una partecipazione sempre più ristretta e una passività sempre più grande. Anche all'inizio, nel '69 o nel '70, a partecipare attivamente alle lotte, ai cortei, non erano tutti gli operai, forse non era neanche la maggioranza, forse era la metà, ma via via la partecipazionesi è ristretta. Nei contratti del '79 a fare i blocchi stradali erano striminzite avanguardie organizzate, gli altri seguivano, subivano, salvo poi fare la marcia dei 40.000 un anno dopo. Il problema è che una situazione di tensione non può durare oltre certi limiti e ad un certo punto deve tradursi in conquiste. in istituzioni consolidate. In quella situazione e·eraunelemento di tensione anticapitalista importanteche però non aveva sbocchi politici possibili e del resto il sindacato stessonon ha mai osato tradurla in paroled' ordine. Il sindacato non ha mai dello che bisognava eliminare i padroni e se i padroni non si potevano eliminare bisognava trovare delle forme di rapporto che consentissero la coesistenza, ma che riuscissero anche a conservare il più possibile le conquiste che si erano falle. La situazione entusiasmante che abbiamo vissuto alla fine degli anni '60eall'iniziodcgli anni '70 non poteva durare in eterno, ed infatti già nella secondametà degli anni '70 la situazione nonera più la stessa. Questa tensione al cambiamento oggi non rischia di essere fatta propria dalla Lega? Secondo me sono cose diverse, anche se c'è un elemento comune di tensione, di protesta. Al di là di questo dato comune. però, bisogna poi vedere quali sono i contenuti concreti. I contenuti concreti allora riguardavano il miglioramento delle condizioni di lavoro e il miglioramento salariale, che in parte si sono ottenuti anche se adesso la situazione è molto peggiorata, poi riguardavano la partecipazione, i diri1ti, l'esigenza di contare. Questa esigenza c'è ancora e non credo che sia la Lega a raccoglierla. La Legaraccoglie altri elementi di protestachee' eranoancheallora; quando si facevano le lotte per le riformc di fatto si voleva un fisco più giusto, dei servizi chef unzionassero, la riforma sanitaria, una pubblica amministrazione efficiente. Su queste cose, che dipendevano dal potere politico, non si è riusciti ad ottenere delle conquiste importanti ed è su questo terreno che la Lega gioca; sono argomenti su cui la Lega può trovare consensi anche tra gli operai. Ma non è che ci sia una astratta tensione al cambiamento che di volta in volta si dirige verso la lotta sindacale o verso la Lega; bisogna vedere ogni volta la tensione da che problemi parte e verso che obieltivi si dirige, non è sempre la stessa. Non che non ci siano operai che votano Lega però il segno caratterizzante del blocco sociale della Lega non è dato dalla classeoperaia. lo credo che tutt'ora la classe operaia, se la intendiamo in un sensonon restriltivo, cioè non solo chi fa lavoro manuale, ma chi fa lavoro dipendente, continui ad essere un gruppo sociale che ha degli interessi comuni. Che questo DAL LOGOS ALLA LEGA E' uno strano paradosso della po- per cambiar l'Italia usa un linguaglitica, che per essere un'attività emi- gio "popolare"; o meglio rompe il nentemente pratica, dipende tutta- codice linguistico nazionale. Di più: via dalle umilissime e astrattissime usa la violenza volgare del linguagparole. In politica, le parole conta- gio. La scelta di un nome nuovo per no. Non solo owiamente per quel il proprio partito non è solo una che riescono a far credere (se ci mera operazione di facciata: chi riescono) ma proprio perché paro- l'ha voluta era ben consapevole le, che in quanto tali comportano, della potenza di identificazione legano (logos) un universo menta- politica che comportava, del nuovo le che è poi quello che cambia universo di significati e di riferimenpraticamente la realtà. ti che implicava: strategicamente, Due riferimenti illuminanti alla poli- una intelligente operazione polititica del nostro tempo: da una parte ca. Al polo opposto il nuovo linun partito che si rinnova cambian- guaggio violento e volgare della Bi 00 rròl 1 ercaartGi nO 13t8n°cO del discorso vien da chiedersi se si tratti solo di una semplice questione di gusti, di stile; problemi marginali. O se invece non c'entrino anche la politica e l'uomo: a quale livello di umanità ci si rivolge in piazza quando si parla così? Si sa che il linguaggio dei comizi non è mai stato particolarmente tenero e gentile. Eppure in questo linguaggio leghista sembra di riascoltare la spavalda volgarità fascista. Chi applaude e ride crassamente all'oratoria del "senatur" è ancora capace di intelligente giudizio critico, o intende la politica solo come oggi non si traduca in una capacità attiva di essere un blocco sociale con una sua fisionomia che pesi in politica, è indubbio; credo però che sia ancora questo il terreno su cui occorre lavorare. Anche il quadro di alto livello, che ha dei grossi margini di decisione tecnica sul suo lavoro e non è certo un operaio della linea di montaggio, non ha però nulla ache fare con le decisioni politiche aziendali equindi subisce le conseguenze di scelte fatte daaltri. Il contestoorganizzativo in cui si svolge il suo lavoro è determinato da altri e questo spessogenera malcontento, contraddizioni. Varie inchieste fatte dal sindacato fra gli impiegati rivelano una forte carica critica verso l'azienda e delle non piccole esigenzedi cambiamento. Il sindacato non ha saputo, salvo brevi momenti, cogliere questa situazione, neanche negli anni '70 e nemmeno oggi sta facendo molto verso gli impiegati. II movimento degli "autoconvocati" può rappresentare una prospettiva? Credo che il movimento degli autoconvocati, sia, nei fatti, più un residuo del passatoche non un coagularsi di forze nuove. Gli ·'autoconvocati" sono ciò che di meglio è sopravvissuto dei vecchi Consigli di Fabbrica edalcuni loro settori esprimono una visione del tutto condivisibile, ma non credo che possano rappresentare l'inizio di un nuovo movimento. Punto decisivo per la rivitalizzazione del movi mento dei lavoratori è la ricostruzione di un tessutodi rappresentanze di baseche innanzitutto raccolga tutte le forze nuove che sono entrate in fabbrica in questi quindici anni e che non sono rappresentate. Da questo punto di vista anche le forme di rappresentanza più ambigue e criticabili sul piano della democrazia, come adesempio le formule proposte per la elezione delle Rappresentanze Sindacali Unitarie, sono una cosasecondaria se davvero si riuscisse ad eleggerle. lo credo che dal punto di vista sindacale, ma anche più in generale. il fatto che rinascano in fabbrica delle forme capillari di rappresentanzadi basesia un passaggiodecisivo. In questo senso i Consigli di Fabbrica non sono superati, però occorre che siano rappresentati anche tutti quei settori che oggi. sia per età che per collocazione professionale, non lo sono. Da lì può nascerequalcosa di nuovo. magari in forme molto diverse dal passato. • sfogo? Se il "medium è il messaggio" cosa si porta a casa questa gente dai comizi? Le espressioni e i gesti rozzi e grossolani, quelli sì che se li ricorda. E li ripete. Facile e semplice, dimostrava una ricerca recente, il linguaggio scurrile mantiene basso il livello mentale. Cosa comporta allora introdurre nel confronto politico il linguaggio violento e osceno della Lega? Si mobilitano le passionalità, si distrugge la critica. Sarà difficile con questa gente ragionare, discutere, distinguere, cercare, dialogare. Non è più in nome della "rosa" che ci si può rassegnare a perdere il significato delle cose; anzi non è nemmeno più con la parola che ci si esprime, ma con i gesti. La Lega ha NECROPOLI Necropoli. Così, dall'esilio, il grande poeta russo Chodasevic ha chiamato la Russia sovietica. Nessun paese aveva infatti conosciuto una guerra altrettanto accanita e altrettanto sistematica contro la propria anima poetica. Che cosa significasse la poesia per la Russia è ben noto. Essa è stata il luogo in cui si è costituito l'identità di un popolo. Quando già nel resto dell'Europa era divenuta qualcosa di residuale, di semplicemente bello, la poesia in Russia era ancora voce, grido, affermazione. La sua straordinaria stagione si spense tra fucilazioni, campi di sterminio, suicidi ed esilio. I nemici della parola, come li definiva Mandel'stam, avevano definitivamente vinto. Di questo delitto incancellabile è erede la povera Russia attuale dove la miseria non si misura solo dalla penuria economica o dalla diffusione, impressionante, dell'alcolismo e della prostituzione. Con tutto questo la Russia e i suoi poeti sono sempre stati abituati a convivere. Durante la guerra civile a Pietroburgo non c'era letteralmente nulla da mangiare e nulla con cui riscaldarsi, ma tutto questo non impediva affatto che in bettole luride i poeti si contendessero anche a ceffoni la palma di più grande poeta della Russia. "Non esiste forza -scrive con finto cinismo Anatolij B. Mariengof nel suo Romanzo senza bugie- che sia riuscita a strappare di dosso, a noi russi, la funesta inclinazione alle arti: non c'è riuscito il pidocchio portatore di tifo, né il fango gelatinoso di periferia che t'arriva alle caviglie, né la guerra, né la rivoluzione, né la pancia vuota, né i guanti consunti fino alle unghie. Possiamo dire di essere delle anime nobili". Ma dove non è arrivato l'orrore della guerra civile, è invece arrivata la pianificazione socialista. Ciò che doveva essere sacrificato per primo alla costruzione del «palazzo di cristallo» doveva infatti essere proprio /"'anima nobile" dei russi. Di là era venuta la rivoluzione nella vita quotidiana, ma di là veniva ora il pericolo. I burocrati del socialismo reale si sono applicati in questo meticolosamente. Con grande intelligenza tattica hanno mirato alle radici, hanno bruciato ogni forma di vita, anche la più embrionale. Nessuno doveva più poter dire, come Aleksandr Blok, che «la vita è bella". La vitapoteva essere solo sacrificio, lavoro, produzione. Quando, con l'inizio della fine del comunismo, la moglie di Chodasevic, Nina Berberova, ebbe modo di rientrare in patria, si mostrò alquanto pessimista sul futuro del suo paese. Gorbaciov è solo, sembra che abbia detto, ormai sono morti tutti. Per chi voglia pensare il presente senza farsi strozzare dall'attualità, la vicenda russa attuale è allora segnata da questa tragedia. Non sono certo i protagonisti di questa farsa sanguinaria -capetti codardi che sfruttano il rancore naziona/-fascista di masse brutalmente impoverite, improvvisati leader al servizio del Fondo Monetario Internazionale e della criminale idea di «libertà» da esso propugnata- a poter essere chiamati in causa come i responsabili di questa situazione. Essi non sono responsabili di nulla perché sono soltanto gli esecutori materiali di quel nulla che li ha partoriti. La Russia, si dice, dopo il crollo del comunismo, è stata restituita alle convulsioni della libertà, ma ciò che ottimisticamente (e ipocritamente) si interpreta come il dolore di unparto è in realtà il compiersi di una agonia interminabile. Dopo la fine del comunismo sembra infatti sia rimasta solo la fine. Essa era dipinta sui volti della stragrande maggioranza dei moscoviti indifferenti a quanto succedeva intorno alla Casa Bianca perché troppo presi dalle necessità della sopravvivenza in una economia di mercato. Le immagini delle agitazioni moscovite comunicano una paradossale sensazione di sfinimento e casualità: forze dell'ordine stanche, insorti stanchi, s9/dati stanchi, vincitori stanchi. Perfino i morti, da ambo le parti,_appaiono estranei ad ogni possibile aura di gloria, più simili a· vittime di incidenti stradali che a caduti «per l'idea». Queste immagini sembrano così confermare la diagnosi di Chodasevic. Nella Russia trasformata dagli ingegneri sociali del comunismo in una necropoli, anche i moti insurrezionali e i colpi di stato sono una questione tra ombre, tra pietroburghesi spettri. Ma una speranza alligna in fondo al cuore. La fine è infatti materia troppo incandescente per non risvegliare la potenza poetica della lingua russa (una delle più interessanti correnti letterarie e cinematografiche di Pietroburgo ama definirsi significativamente «necrorealista» ). Anche se non è detto che un giorno, con tecniche più raffinate, magari importate dall'Occidente, sia possibile ad una Russia capitalista e democratica uccidere non solo i poeti, ma anche la lingua che essi, con amore, si ostinano a custodire. sostituito il Logos: riduzione progressiva. Non bisognerebbe resistere allora al fascino volgare di questa borghesia, che invece contagia e si diffonde progressivamente? Anche dal linguaggio si coglie l'autenticità umana delle ispirazioni: il dolore dei popoli, lo sdegno etico, il gemito religioso della creatura oppressa hanno sempre dato la parola ai poeti. Pablo Neruda, Garcia Lorca, Majakovskij e padre Turoldo. "io trovai lungo i muri ... / una goccia di sangue del mio popolo / e ogni goccia, come il fuoco ardeva": così si sentiva la passione politica e si diventava uomini per un mondo di uomini. Ma il linguaggio leghista adempie ad un'altra funzione, consegue coRocco Ronchi munque un altro scopo politico. In presa diretta del "linguaggio popolare" (ma il popolo non c'entra), diventa appello al senso comune e insieme rottura del linguaggio nazionale. Non è nemmeno questione di dialetto lombardo. Il localismo della parola è un fattore non trascurabile della propria identificazione politica e quindi anche del successo politico. Non per nulla si richiede anche l'uso del dialetto negli uffici pubblici; si marca la diversità lombarda. Il linguaggio della Lega non è solo originalità, colore, divertimento; è scelta politica e imbarbarimento umano. E' scritto che "in principio era la Parola". Sergio Sala UNA ClffA' 3

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