Una città - anno II - n. 15 - settembre 1992

Muovendo da alcune considerazioni sul rapporto fra lefferatura e realtà, un'intervista a tuffo campo sulla situazione dello scriffore nell'Italia degli anni 1 90. A Edoardo Albinati. Edoardo Albinati (Roma 1956) è tra i più significativi scrittori dell'ultima generazione. Ha pubblicato presso Longanesi due libri di narrativa, Arabeschi di vita morale (1988) e Il polacco lavatore di vetri (1989) e presso Mondadori una raccolta di poesie dal titolo Elegie e Proverbi (1989). Si sente dire, sempre più spesso, che la rivitalizzazione della letteratura deve passare attraverso un rinnovato confronto con la realtà, qualcosa come un nuovo "impegno", una nuova poesia civile. Cosa ne pensi? Espressioni come questa sembrano presuppore che questo confronto sia stato chiuso, il che, credo, è tutto da dimostrare. lo sento continuamente questi appelli, che sono poi· richiami all'ordine, anche nel senso reazionario del termine, a ritornare alla realtà, a riguardare la realtà, come se ad essa un giorno fossero state girate le spalle. C'è qualcosa di molto strumentale in questa questione della poesia ci vile. Soprattutto perché credo che la letteratura non sia tutta dello stesso segno, così come non si può dire, come invece sostiene qualcuno, che la musica rock sia tutta per il bene e l'amore dell'umanità. Esiste senz'altro una letteratura di "fondatori" o di "legislatori" o di "scrittori civili" nel senso lato del termine, ed ovviamente Dante è uno di questi, però la letteratura è fatta anche da distruttori, da scompaginatori, da gente che ha buttato giù i castelli. In linea generale, per quante buone intenzioni si possano mettere in campo, un buon romanzo o della buona poesia tenderanno sempre a scompaginare le buone intenzioni, a metterle in dubbio, a minarle. Anche i più propositivi ed ideologici scrittori finiscono per mettere tra parentesi la loro stessa ideologia. Penso allo scrittore in potenza più ideologico fra quelli che conosco, cioè a Tolstoj, il qùale, in realtà, continuamente contraddice la sua tesi ed in questo consiste la sua forza di scrittore. Quando uno scrittore è perfettamente conseguente di solito è uno scrittore mediocre. Dunque i Iparadosso del la letteratura è, se vogliamo, che essa porta con sé come argomento, come contenuto, un bagaglio di idee, ma la grandezza, quando c'è in letteratura, è che queste idee vengono bruciate, polverizzate dall'opera stessa. Inversamente abbiamo delle opere puramente di tipo istruttivo, agiografico, politiche in senso stretto. Lo specifico della letteratura è quindi che l'idea scompare dentro l'opera, si brucia in essa. Se invece sopravvive all'opera, vuol dire che è più forte l'idea dell'opera ed in questo caso non siamo più nella letteratura, siamo in un'altra cosa. li letterario è proprio l'ambito in cui le affermazioni categoriche vengono continuamente rimescolate da diverse voci. L'esempio più tipico sono i romanzi di Dostoevskij, non solo per la loro struttura polifonica, ma soprattutto perché le idee sono continuamente in lotta fra loro e l'autore non è rinvenibile, non è chiaramente identificabile in una posizione o in un'altra. La radicalità di uno scrittore non è dunque un semplice fatto di idee Uno scrittore che abbia delle idee ben precise non è quasi mai un grande scrittore. Potrà forse, a livello conscio, avere delle idee ben formate, ma quando lavora si trova sempre ad imitare le voci. Lo scrittore è un imitatore, il suo compito è imitare le voci: tutte le voci quindi anche tutte le idee. La misura della sua radicalità è quindi data dal coraggio con cui si consacra a questo compito. Questa è la sua unica incombenza, che è una incombenza di tipo radicale, giacobino, ma che non ha assolutamente niente a che vedere con la sua radicalità ideale e politica. Molto spesso scrittori mediamente conservatori, dal punto di vista della politica vera e propria, erano estremamente radicali come scrittori (penso a Flaubert o allo stesso Dostoevskij). E' dunque molto problematico questo sospirato confronto con il reale? Si perché in questo modo si tende a dare per scontato un concetto volgare di realtà e si pensa alla letteratura soltanto come ad un fatto descrittivo. il giornalismo del predicatore, del retore Non credo ci sia peggiore letteratura, o peggior cinema, di quella che crede che la realtà sia quella delle copertine di "Panorama" o de "l'Espresso". Il problema della letteratura è che essa ha molto stinto sul giornalismo. O meglio, si vede oggi quanto il giornalismo italiano sia letterario. Il giornalismo è senz'altro il genere che oggi, in Italia, si occupa meno del la realtà. Se pensate ai grandi giornalisti italiani v~ete chr~Q tutte persone che non fanno giornalismo, ma fanno letteratura, cioè quella che si vorrebbe fosse la letteratura. Fanno l'elzeviro, l'articolo di fondo, danno l'opinione. Nessun giornalista italiano di oggi è lo scopritore di fatti, è sempre il commentatore. E' vero che esiste in Italia una radice retorica, eloquente, ma essa oggi è più forte nel giornalismo che nella letteratura, per cui il bravo giornalista è quello che ti convince di qualche cosa, non quello che te lo mostra, ha più il carattere del predicatore, del retore, che non dello scopritore di fatti. Questa è una tradizione italiana che ha le sue radici nel mondo religioso, nella chiesa. Anche se si continua a pensare che sia la letteratura il regno dell'eloquenza e della retorica io ne trovo molta di più nel linguaggio giornalistico. Tornando alla questione della poesia civile va detto che essa esiste, è sempre esistita, ed essenzialmente ha lo scopo di lodare il potere ed è la tradizione più nobile, quella fatta per la gloria di Augusto o dei Gonzaga - oppure di criticarlo attraverso la satira. O uno fa della satira o fa dei poemi encomiastici: fuori da questi due generi non ci può essere della poesia o della letteratura civile in senso proprio. Ci puoi spiegare perché attribuisci alla sola satira questa possibilità di critica del potere? Che cosa è insomma la satira? La letteratura, e soprattutto il romanzo, non può non condividere qualche cosa con il mondo di cui tratta. Non può esistere uno scrittore totalmente alieno o disgustato da ciò di cui si occupa. Se la società degli uomini è ciò che lo interessa deve vivere in questa società. Uno scrittore che attacchi radicalmente, che rifiuti radicalmente la società in cui vive è condannato ad essere uno scrittore satirico e questa è sempre una figura molto ulcerata. molto disgraziata e amara, infelice. Uno scrittore satirico è condannato ad essere la coscienza infelice di un paese o di un'epoca e quindi è il punto estremo di un percorso letterario. La satira è il "genere ultimo", il punto estremo di un percorso letterario, oltre il quale si cessa di scrivere. Quando l'opposizione col mondo diventa radicale e totale uno può fare tante cose, può farsi santo o andare a vendere armi in Africa, ma non può più continuare a scrivere e quindi a condividere il mondo che condanna. Oltre alla satira c'è il silenzio. Sta di fatto che quando ci si vuole occupare politicamente della realtà per criticarla si finisce per fare della satira. E' ciò che è successo in Italia a quelli che vengono chiamati scrittori politici, mentre gli scrittori che citavo prima, da Tolstoj a Flaubert, per quanto potessero essere rivoltati dalla società che descrivevano ne erano però anche dei padroni e maestri. Qualcosa di attraente nella società che descrivevano c'era. Una delle difficoltà più forti per un romanziere italiano è proprio parlare dell'Italia. perché l'Italia sembra essere niente affatto attraente. Non c'è niente di cui uno scrittore italiano di oggi possa innamorarsi. Questo è un grosso guaio perché tu puoi anche sferrare il tuo pugno contro la società, ma la realtà deve avere qualcosa che ti chiama, un elemento in qualche modo affascinante, anche nella situazione più sordida. Un po' quello che accadeva in Italia nel dopoguerra, in cui c'era una situazione orribile, ma con una sua consistenza mitica, affascinante ... No è un caso se molti degli scrittori attualmente più interessanti vengano da zone del mondo marginali, in cui -penso per esempio ai paesi dell'est- c'è ancora un mito, un'epopea, una crescita. Alcuni anni fa decidemmo di fare, per una rivista che si chiama "Panta'', un "Diario di dodici mesi". L'idea era di far scrivere una specie di diario del mese affidandolo ogni mese ad uno scrittore diverso. L'anno scelto fu, per caso, il 1989 ed era straordinaria la differenza che c'era, e che a quel punto non era una questione di bravura o altro, fra quello che vivema e diceva "oggi ho visto in CO televisione" e quello che viveva a Berlino e stava in mezzo alla storia. E' chiaro che anche per uno scrittore ci sono delle congiunture più interessanti di altre. Un'opera ha come un valore aggiunto che è dato, indipendentemente dalla volontà dell'autore, dall'epoca in cui essa ha luogo. Dici, ed è veramente difficile darti torto, che oggi in Italia, dal punto di vista di uno scrittore, non c'è più nulla di affascinante. Vuoi dire allora che è impossibile scrivere? Io non dico che, in assoluto, non ci sia niente di affascinante. Sottolineo soltanto le difficoltà strutturali che impediscono la riuscita del tanto sospirato romanzo realistico, quello che descrive la società, la realtà sociale e compagnia bella. Da questo punto di vista le dinamiche sociali tendono all'appiattimento. un popolo di impiegati clte adopera il computer E' come la vita nelle città: tende a diventare una vita impiegatizia, si smussano le differenze, come quelle, per dire, che c'erano tra artigiano ed artigiano. Per cui se alla fine esiste un popolo di impiegati che adopera il computer è poi difficile fare un romanzo dickensiano, che brulichi di vita. E questa è una tendenza che è proprio nella società italiana, che fa di tutto per espellere tutto ciò che è materiale, concreto. C'è una cosa, per me esemplare, che sta avvenendo a Roma. Appena fuori Piazza del Popolo c'è un posto che si chiama Borghetto Flaminio dove ancora ci sono degli orti, una bocciofila ed un carrozziere. E' un paradiso, sembra di stare in un paese. Tuttavia questo finirà perché è inconcepibile che in città, vicino a Piazza del Popolo, ci possano essere una bocciofila, degli orti, un carrozziere. Devono essere espulsi fuori dal Raccordo Anulare perché tutto ciò che è lavoro, vita, ozio, tutto ciò che è concretezza, deve andare fuori e là dovranno esserci dei negozi, degli uffici. Tutto il centro di Roma lentamente si è "purificato" in questo modo. La letteratura, essendo una pratica materiale, ma anche una difesa ed una descrizione della materialità dell'esistenza, si trova a mal partito quando questa materialità viene sublimata, purificata, annullata nell'ideale di un popolo di colletti bianchi, che è ciò cui tutti aspirano. Da questo punto di vista la letteratura diventa ancora più necessaria perché è rimasta una delle poche testimonianze della concretezza materiale della vita, laddove questa concretezza si tende sempre più a trascenderla, a sublimarla, a renderla invisibile. Non pensi che anche questo invisibile, questo immateriale figlio di questo tipo di mentalità e di prassi, possa in qualche modo essere cantato? Quando si parla di realismo in letteratura, non si potrebbe pensare ad un realismo in questo senso; ad un realismo che canta un qualcosa che ha la sua origine nel non abitare, nello sradicamento, nella perdita delle identità tradizionali? Mi pare che questo sia stato fatto, le avanguardie in fondo facevano questo. La lode ali' immateriale, ali' elettrico, al volante, al planetario è stata fatta "in abundantia". fino in Australia per dire ti voglio bene mamma li punto di arrivo di questo tipo di canto, di questa nuova epica, è il film di Wenders "Fino alla fine del mondo'·, che in questo senso è esemplare e che, a mio avviso, è un film di un'idiozia totale. planetaria. E' l'equivalente artistico del "nuovo ordine mondiale" di Bush, canta un mondo ormai unificato da un medesimo valore: la percorribilità, la simultaneità. Ora, benché come scrittore non sia un localista e non scriva in dialetto, io ho una posizione totalmente opposta. lo sono per lo speei fico. sono per la mela dipinta sul bordo della finestra e penso che quel la sia l'unica mela del mondo. A me non interessa la simultaneità: è il nostro pane quotidiano, è ormai l'archeologia del nostro secolo e continuare a cantarla è continuare a cullarsi nel l'idea che essa porti da qualche parte. A mio avviso porta, come ultima possibilità, al '·nuovo ordine mondiale'' e a quella specie di scemenza cosmica, a quell'idiozia planetaria. rappresentata da questo significativo film. Ed anche lì. a fare da collante, è la musica rock, vista come musica conciliatrice, come musica che tutti amano e tutti capiscono. Se tu ti puoi spostare all'infinito, se il mondo è tutto percorribile, se non ci sono più ostacoli, diventa tutto una specie di gioco sentimentale per cui, come nel film, uno per dire '•ti voglio bene mamma, ti voglio bene papà" deve andare fino in Australia. E a furia di rendere tutto il più possibile universale emergono dei sentimenti molto poveri. Gli stessi concetti universali tendono ad assottigliarsi pericolosamente fino a diventare del le sciocchezze. Credo proprio che questa ode all'immaterialità sia stata sufficientemente praticata. Non è dunque possibile una modernità mite, un'alternativa insomma al nostro paesaggio devastato da orribili villette costruite da geometri impazziti? L'Italia ha una situazione particolarmente cruenta, infettata. Infatti, essendo per antonomasia il luogo della bellezza del passato e della sua conservazione, ha potuto produrre solo un orribile moderno. Perché non é affatto vero che il moderno sia brutto, il moderno é meraviglioso, ma l'Italia é l'unico paese che non possiede un moderno, e quindi abbiamo questa stranezza, e cioè che la bellezza è sempre alle spalle e davanti può esserci solo l'orrore. Per gli artisti e gli scrittori italiani è sempre stato un grosso gioco questo grande passato. Il nuovo ha infatti bisogno del distruttivo: se vuoi fare la Parigi napoleonica devi radere al suolo quella che c'era prima e soltanto in Italia c'è questa valenza negativa, nell'arte e nella letteratura, del nuovo, del moderno. Questo ha fatto sì che in Italia ci siano state le pulsioni più forti verso questo nuovo che non era mai venuto, cioè le avanguardie, e lì ci sono stati esempi di forte poesia civile. I futuristi sono stati gli unici poeti civili di questo secolo, ma oggi non si potrebbe chiedere a nessuno di essere entusiasta della tecnica. E' impossibile. La mela sul davanzale di cui parlavi prima, cosa sarebbe? E che relazione ha con la televisione che ti dà le immagini della Bosnia? Della mela sul davanzale parla Rilke in una sua prosa in cui afferma che a lui sarebbe sufficiente essere l'ombra proiettata da una mela sul davanzale in un quadro di Van Eyck (I coniugi Arnolfini). Per me il massimo di realtà, di realizzazione, lo vedo in quella umile cosa che è l'ombra di una mela. C'è una immensa carica di realtà nell'ombra della mela del quadro di Van Eyck: l'ombra non è concretamente la realtà, ma è la cosa più vicina ad essa. Ora noi abbiamo la realtà che vediamo con i nostri occhi e poi abbiamo la realtà prodotta dalla letteratura, che è prodotta dalla forma. Invece la televisione tende a dare una cosa che non è reale, perché non è la cosa stessa, e al tempo stesso non ha la realtà della forma, perché è il massimo dell'informale, pretende di dare la realtà senza formalizzazioni, senza minimamente "lavorarla". In questo modo si pone in una specie di limbo in cui noi vediamo delle cose reali, ma queste cose reali non ci toccano, finiscono per toccarci meno delle cose totalmente irreali che noi vediamo nel film, nel quadro o nel libro. E questo proprio perché con la televisione noi non abbiamo né la realtà-realtà. né la realtà creata. Da questo punto di vista la televisione è l'immateriale, la de-realizzazione. Per questo io dico che c'è più realtà nell'ombra della mela del quadro di Van Eyck, che sembrerebbe essere la cosa più astratta possibile, che non nella televisione. Là c'è la realtà della forma, che è il massimo di produzione di realtà cui può arrivare un artista o uno scrittore. Ho notato che oggi in Italia, a livello politico, giuridico. culturale, c'è un disprezzo totale della forma. Dare forma a qualcosa viene considerata una perdita di tempo, da qui il dominio della televisione. Il sostanzialismo giuridico, ad esempio, io lo trovo terribile, è il linciaggio. La giustizia sostanziale assoluta è il linciaggio. E qui emerge la matrice religiosa, quindi sempre sostanzialista, che in questo paese non si è persa: è sgocciolata via dalle chiese, ma non si è perso questo modo di ragionare e questo paese, malgrado tutto, è un paese fortemente religioso. Il disprezzo verso il formalismo tende poi a trovare il suo luogo ideale (ne sto parlando senza volerla demonizzare) nella televisione. il sostanzialismo giuridico non è clte il linciaggio lo insegno e mi accorgo che anche nell'educazione tutto ciò che è veramente tecnico. dalla scrittura alla ginnastica, al disegno. al suonare uno strumento, è totalmente svalutato perché viene considerato una perdita di tempo rispetto alla sostanza della cosa. L'importante, si dice, è esprimersi, non imparare la tecnica dell'espressione, comunicare, non imparare la tecnica della comunicazione. Lo stesso può dirsi dal punto di vista politico: c'è l'idea che per dire la verità si debba uscire dalle forme, perché le forme impediscono di dire la verità, il che, se fosse preso alla lettera, sarebbe la fine del diritto, della letteratura ecc. lo penso che esista una profonda affinità fra l'attività politica e l'attività letteraria perché ambedue si occupano di mettere in forma, della creazione di forme. L'ideale di tutti i creatori di stati, i legislatori, è quello di imitare, di gareggiare, con lo scrittore. Tu hai fatto )'"Eneide" io faccio l'impero: tu hai fatto "L'Orlando Furioso", io faccio "Il leviatano". Lo stato, cioè la "messa in fonna" politica, è comunque sem-

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