Una città - anno II - n. 15 - settembre 1992

Intervista a franca Morigi, donna in nero, di ritorno dalla ex-Iugoslavia Ci vuoi raccontare di questi tuoi viaggi "pacifisti" nella ex-Iugoslavia? Dopo 1'89 si è costituita l"'Assemblea dei ciuadini di Helsinki", che raggruppa esponenti dei movimenti pacifisti laici e cattolici di tulta Europa, dell'est e dell'ovest. Questa "Assemblea" è la materializzazione di una grande idea, amata da padre Balducci: proporre come alternativa all'Europa dei mercanti e dei venditori di armi, l'Europa delle ciltà. Un'idea che dissolve, almeno idealmente, le frontiere e gli Stati nazionali, così come li abbiamo ereditati dall'o1tocento e propone una Europa delle "città di pace"; un'Europa per molti versi simile a quella rinascimentale. Questa associazione, nel settembre del 91, ha organizzato una "Carovana per la pace" in Jugoslavia che è partita da Trieste ed ha attraversato tutte le repubbliche della ex Jugoslavia. Sono stati cinque giorni molto intensi, fitti di incontri con vari gruppi che operano per la pace. Siamo stati accolti da questi gruppi, ma anche dalle istituzioni, ed i governi locali ci hanno messo a disposizione le sale ed un minimo di accoglienza. Questa carovana si è conclusa nella piazza di Sarajevo il 30 settembre. Avete avuto un impatto diretto con la guerra? Non siamo stati nelle zone dove si combatteva e della guerra abbiamo colto soprattutto gli aspetti esteriori: i sacchetti di sabbia vicino ai ponti, lo scotch nelle finestre. Ma la cosa che ci ha colpito di più è stata che i pacifisti della Croazia ci chiedevano di adoperarci nei nostri paesi di origine perché venissero loro fomite le armi. Questa è stata una cosa che ci ha sconvolto. Io ho dormito una notte in casa di un medico, a Zagabria, e nelle conversazioni che ci sono state durante la serata il motivo ricorrente era questo; evidentemente per loro era chiaro che la guerra si sarebbe inasprita. le parole di citi non è bombardato pesano meno Un'altra cosa che abbiamo notato è stata la posizione molto particolare dei pacifisti serbi. Le schiaccianti responsabilità, soprattutto dal punto di vista militare, dell'armata federale e quindi della Serbia, tappavano la bocca ai pacifisti, perché erano le armi del loro esercito che distruggevano Yucovar e le altre città e villaggi. Questo creava loro una situazione molto problematica, quasi di autocensura, perché le parole che esprime chi non è bombardato, chi non è sottoposto a continue carneficine, sono parole che pesano di meno. In realtà poi questi pacifisti, in qualche modo, si esponevano ed io l'ho molto apprezzato. Tutte le attività svolte nel centro antiguerra di Belgrado, che è il principale centro pacifista serbo, sono importanti. E' significativo che, mentre in Croazia e in Slovenia le autorità che ci hanno accolto e che ci hanno messo a disposizione gli spazi per fare i nostri incontri non sono mai state criticate, in Serbia il ministro che ci ha portato il saluto della città è stato abbondantemente fischiato. In Serbia è poi molto importante il movimento delle madri che hanno "coperto" le fughe dei figli disertori o renitenti alla leva, che andavano a riprendersi i figli mobilitati e mandati al fronte. 8" I E' stato un grosso movimento, che è andato mollo al di là della presenza continua davanti al parlamento di Belgrado di cui ha parlalo anche la stampa occidentale. Nella giornata conclusiva a Sarajevo c'è stata una grande manifestazione in piazza con la popolazione e con la presenza di religiosi delle tre religioni più importanti: cattolica, con il Kossovo, è stato ungesto simbolico importante perché siamo andate con la consapevolezza di rompere l'embargo. una slealtà femminile verso la guerra musulmana ed ortodossa. Una E' stato un dato iniziale di siecatena umana ha collegato tut- allà femminile nei confronti ti i luoghi di culto, per • ,.. testimoniare la tradizione di convivenza pacifica e tollerante. Una volta lasciata Sarajevo la cosa che ci ha sconvolto è stato lo strano silenzio nella Bosnia Erzegovina. Quando passavamo con i pullman nelle strade della Slovenia, della Croazia, della Serbia c'era molta gente che ci salutava, alcuni con la "V" di "vittoria" altri con le tre dita. Dopo ci hanno spiegato che a salutare con la "V" erano i croati, mentre il saluto con le tre dita è quello dei serbi. Nelle strade della Bosnia Erzegovina che abbiamo attraversato, invece, c'era uno strano silenzio, particolare. In un piccolo paese ai confi- · · ni della Bosnia ci siamo persi e siamo passati davanti ad una caserma, notando che c'erano tantissime persone in borghese che accompagnavano dei giovani. Nonostante tutto sembrasse tranquillo, quindi, la mobilitazione incominciava anche in Bosnia Erzegovina, ed infatti abbiamo poi incontrato molte colonne di camion con le cucine da campo e camion militari coperti. A Dubrovnik in fretta e furia ci siamo imbarcati ed il giorno dopo la nostra partenza i serbi hanno cominciato a bombardare. E la "carovana" ci è sembrata ridotta ad una cosa un po' da operetta: noi pacifisti abbiamo attraversato con una corsia preferenziale le varie repubbliche, ci hanno lasciato passare, ma certo non ha contato un gran che. E dopo l'esperienza con la "carovana"? Le relazioni, i rapporti, la rete di solidarietà tra le realtà pacifiste europee e queste della ex Jugoslavia sono continuate. Sono stati organizzati anche dei convegni per assicurare continuità a questo rapporto ed in particolare molto attive sono state le donne e i gruppi che vivono dove sono stati portati i profughi. Ci sono stati due incontri importanti, organizzati dalle "Donne in nero", per cercare di scavare a fondo su questa questione dell 'appartenenza e dei nazionalismi. Il primo incontro è stato a Venezia, nel gennaio del 1992, dove erano presenti anche donne croate e bosniache. Durante l'incontro sono nati conflitti terribili, comprensibili per le situazioni differenti, ma che hanno portato ad una impossibilità di comunicazione che le italiane non sono riuscite minimamente a ricomporre. Questa difficoltà di comunicazione ha però portato ad un ulteriore sforzo di approfondimento, sia per le italiane che per le altre, sul tema del le appartenenze. Da questo sforzo ha preso vita l'incontro di Novi Sad. Perché è proprio a Novi Sad? Andare a Novi Sad, in Yojvodina, che era una regione autonoma che la Serbia si è annessa a forza, come ha fatto anche degli Stati occidentali e delle loro scelte. Avevamo portato cibo e medicinali, che abbiamo consegnato a queste donne, ma non siamo andate appositamente in un orfanotrofio, dove era possibile essere ospitati, perché durante questo incontro volevamo cercare di salvare, per quanto possibile in un periodo di guerra, delle forme di dignità della vita. Così ci siamo incontrate in una specie di villaggio di bungalows sul Danubio. La nota più dolorosa dell'incontro di Novi Sad è stata che le donne bosniache non sono potute venire; della Bosnia Erzegovina erano presenti solo due giornaliste esuli a Belgrado. Le frontiere, i confini, sono diventati di ferro, è ormai impossibile spostarsi. Andare da Zagabria a Belgrado è diventata un'impresa, anche se esiste una autostrada che le collega direttamente. Quale è stato il "segno" profondo di questo incontro "al femminile"? I temi che si volevano trattare erano tre. Il primo riguardava il concetto di "appartenenza" sia rispetto alle categorie di Stato, nazione, etnia, territorio, sia rispetto alla categoria del genere, al l'appartenenza di sesso, un tema questo introdotto dalle femministe. Il secondo tema era quello della epurazione etnica, mentre il terzo tema riguardava quello che pensavamo di fare noi sia per tentare di fermare la guerra, sia rispetto alle sanzioni ed all'embargo. Nelle discussioni è emerso in modo ricorrente e significativo il concetto che la patria o la nazione per le donne, almeno per quelle presenti, che erano lì in quanto pacifiste e che in qualche modo avevano anche una coscienza femminista, non sono valori politici. Sono valori, o esperienze, che abbiamo ereditalo in varie forme da una storia che non abbiamo contribuito a CO fare. Può sembrare un po' ideologico cd il problema dcli' identità è nalllralmente più complicato, ma una base di partenza comune è stata che la prima appartenenza che riconosciamo a noi stesse è l'appartenenza di genere, il fatto di essere donne. E l'appartenenza etnica, lanazionalità o lo Stato di cui si fa parte non modificano niente del mio essere un essere umano, delle mie qualità. Una cosa risultata comune a molte è che "patria" per noi è qualsiasi luogo nel quale ognuna può intrecciare delle relazioni significative, dove ci sono persone che ci riconoscono, dove si sta bene, dove si può mettere al mondo un figlio, dove si può lavorare, dove si può vivere con piacevolezza. patria è una cucina, dove fai colazione al maffino E "patria" è anche il luogo delle memorie: chi era in esilio diceva che spesso gli veniva di pensare al bar sotto casa, alla sua stanza, alla cucina dove . faceva colazione al mattino. A molte donne delle ex-repubbliche è invece più estranea che a noi italiane una riflessione più "politica", cioè porsi il problema delle regole che stanno alla base della convivenza. Perché l'appartenenza ad un luogo nel quale si vive bene comporta necessariamente la costruzione di forme di convivenza fn1 le varie differenze che stanno in questo territorio. Questo è un dato molto importante perché può portare un essere umano a riconoscere come propria "patria" non tanto una bandiera o uno Stato, che in quanto tale può rivelarsi anche estraneo o nemico, quanto proprio la quotidianità e le forme di relazione che si sono costituite in quel territorio. L'essere romagnola è un elemento che fa parte della mia identità e questo al di là della forma politica dello Stato di cui sono cittadina. E' una questione che è emersa bene la sera del sabato quando, dopo i lavori di gruppo, le donne macedoni hanno cominciato a ballare e cantare. Nonostante tulle riconoscessimo come dato principale l'appartenenza di genere, quel canto testimoniava che anche la storia, la comunanza di lingua, una canzone, sono elementi che formano l'identità di una persona. La domenica ma1tina è stata dedicata alla questione delle epurazioni etniche e ci sono stati racconti molto amari sui modi usati sia in Serbia che in Croazia. Modi che vanno dai metodi indire1ti, in modo che "spontaneamente" una famiglia lasci il villaggio in cui è minoranza, fino ai veri e propri massacri e ai saccheggi. A questo gruppo hanno partecipalo anche degli uomini, membri della "Repubblica Spirituale di Tzizar". Questa "repubblica spirituale", al confine fra Yojvodina e Ungheria, ha anche una forte minoranza ungherese. Nel maggio di quest'anno i serbi vi hanno installato una caserma di mezzi corazzati ed hanno cercato di mobilitare forzatamente gli uomini. Subito tutti gli abitanti, serbi e ungheresi, si sono opposti con una manifestazione e con una dichiarazione di non accettazione. Si sono arroccati in una specie di club, che si chiama appunto Tzizar, e si sono dichiarati "Repubblica Spirituale Indipendente di Tzizar" con una loro costituzione. Sono esperienze forse ingenue o utopistiche, ma che prefigurano forme di aggregazione elettiva, scelte multietniche che partono dal basso che possono essere salutate come nuove forme di territorialità e di "statualità". Un'altra esperienza interessante è quella dell"'Ambasciata dei bambini". Questo è un progetto, nato in Bosnia Erzegovina nel 1991, che prevede la costituzione di una "repubblica di bambini" in un paese, che si chiama Medjaszi ed ai confini fra la Bosnia Erzegovina, la Croazia e la Serbia. Nel febbraio del 1992 questa "Ambasciata dei bambini" ha lanciato un appello al mondo affinché venissero evacuati tutti i bambini di Sarajevo e venissero trasferiti in tutte le parti del mondo. Nessun paese ha raccolto questo appello e soltanto in quest'ultimo mese, di fronte alle tonnellate di bombe che i serbi hanno buttato sulla Bosnia, alcuni bambini sono usciti. Come dicevo prima, sono tentativi forse utopistici, ma occorre tenerne conto perché sono tentati vi di reagire positivamente al crollo del vecchio mondo, delle vecchie strutture politiche. Contro la divisione fra etnie vi siete richiamate all'essere donne. Non ti sembra che, alla prova dei fatti, sia un'astrazione? E' decisivo capire perché, ed è una domanda che si pongono anche loro, quello che prima non costituiva un problema, cioè l'etnia, l'appartenenza rispelto ad un luogo, ad un certo punto lo diventa, cosa lo fa esplodere. Non credo che, comunque, la scelta di partire dalla propria appartenenza di genere sia artificiosa; è una posizione che non è nata in relazione alla guerra in Jugoslavia, ma è una pratica di vecchia data del movimento femminista, è l'elemento di riconoscimento del movimento femminista stesso. L'interrogarsi se l'appartenenza di genere sia una strada, una delle strade, non l'unica, per poter superare l'odio etnico e il conflitto distruttivo fra differenze, può essere un elemento di ulteriore mescolamento, di superamento, delle differenze. 7' citi accudisce la vita non distrugge il mon,lo In una certa ottica sono queste differenze che possono considerarsi artificiose. Se pensiamo alla vecchia federazione jugoslava, l'appartenere oggi allo Stato serbo o croato sì che è una cosa artificiosa. E lo è ancora di più se tu singolo cittadino non hai contribuito a creare questi Stati, non gli hai trasmesso valori, regole, forme politiche. Gli esseri umani, per vivere insieme, devono darsi delle forme politiche, delle regole, ma ognuno deve contribuire a queste regole; voglio ci sia anche la mia esperienza, come singolo e come genere, nello Stato del quale sono cittadina. Invece le relazioni che instaurano fra loro gli esseri umani non sono considerate nella visione di coloro, fino ad oggi di genere maschile, che reggono il mondo. Questi mandano gli aerei che in un minuto distruggono il mondo, distruggono le relazioni, mentre invece nel1'esperienza di chi accudisce la vita è assurdo distruggere un mondo in un minuto, non tenendo conto dei sentimenti. E la richiesta, fatta da donne, di intervento armato? , onne identità c'è anche il fatto che sono romagnola. nella mia identità • c, sono tante facce "Romagna", banalizzando, può voler dire il sangiovese o le tele stampate ed io posso apprezzare questo elemento perché nell'identità di ognuno, uomo o donna, c'è un elemento culturale, non c'è solo il suo corpo. Nella mia identità ci sono tante facce, ognuna delle quali risponde ad un livello di curiosità, di partecipazione. Io non sono soltanto nell"'Associazione per la pace", sono nel PDS, in una sua componente particolare, sono una delle "Donne in nero". Chi mi chiede di scegliere una sola identità alla fine è dentro ad una cultura oppositiva, a una cultura di guerra. Quanto più c'è acculturazione, quanto più c'è adesione ad un sogno o a un progetto, a delle idee, quanto più c'è politicizzazione, per dirla con una parola vecchia, tanto più si possono far giocare, far coesistere, le diverse identità. C'era una macedone che chiedeva che il meeting riconoscesse la Macedonia come Stato indipendente; lei si identificava soprattutto con il suo Stato e non capiva il nostro sforzo di prescindere da questi obiettivi politici. Non era in contraddizione con l'appartenenza di genere come fatto basilare? No, o almeno non lo era fino in fondo, perché lei crede in un progetto politico, fa una esperienza di tipo politico. In ogni genere, uomini o donne, esiste la legittimità di centomila progetti differenti, anche opposti. La scommessa di una cultura nuova è quella di un "accoppiamento" delle differenze e se questo accoppiamento non è possibile, allora è possibile il patchwork: tanti pezzi che mantengono ognuno la loro identità e insieme compongono una cosa nuova. E' possibile mettere assieme delle differenze e produrre una cosa positiva; certo ci sono delle differenze che non sono accorpabili, quella di chi vuol fare i lager o vuole torturare per esempio, ma rispetto a queste è necessario produrre delle forme nuove di comunicazione e di governo. Come è nato questo tuo coinvolgimento nella situazione della ex Jugoslavia ? Ho già detto che lavoro e mi "riconosco" molto nell'attività delle "Donne in nero", ma anche che mi concepisco con più identità. In ogni caso la cosa che innanzitutto previlegio sono le relazioni vere, autentiche. anche l'amore matemovain • • cr1s1con l'odio etnico Le donne non sono pure, non sono innocenti, anche le donne si arruolano, partecipano ai combattimenti, esprimono una aggressività violenta e distruttiva; sono differenze che esistono, che fanno parte della realtà, e questo non mi sconvolge. Quelle femministe fondamentaliste che dicono "il mio corpo è la mia nazionalità, la mia identità", anche fra le "Donne in nero" ce ne sono, semplificano perché nella identità di ognuno non c'è solo l'essere donna. Nella mia A Novi Sad sono andata proprio partendo dalla relazione concreta che ho avuto qui in Italia con delle persone della Bosnia. Senza questa relazione non mi sarei occupata della Jugoslavia in maniera così appassionata. Andando a Novi Sad volevo fare un gesto concreto rispetto al problema che vivono loro. Ho incontrato una ragazza con due bambini, una croata spostata con un serbo. Questi l'ha abbandonata perché è diventata una nemica, ma la cosa terribile è che anche sua madre l'ha abbandonata, perché lei è sposata con un serbo e quindi ha partorito dei serbi. Di fronte all'odio che viene dall'etnia anche l'amore materno scompare; è questo che non concepisco, è questo ciò contro cui sento di dover fare qualcosa di concreto. - Nella foto: donne contro la guerra. seminario internazionale delle donne 18-19luglioNOVI SADinVojvodina, organizzato da "Le donne in nero" di Belgrado, Venezia. Bologna.

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