Una città - anno II - n. 11 - marzo 1992

In vari ambiti cu/111ralie sociali attenti ai problemi della nostra società e desiderosi di attuare in essa radicali cambiamenti, la nonviolenza. da qualche anno in qua, è diventata quasi unaparola d'ordine. E così come vent'anni fa era stata troppo sbrigativamente accantonata in nome dell'adesione a metodi di lotta violenti (spesso accettati più per l'alone mitico che ad essi derivava dalle rivoluzioni russa, cinese, cubana che per una meditata riflessione sui loro contenuti e sulle loro reali, e necessitanti, conseg11enze),oggi si corre il rischio di una superjic i al e esaltazione della nonviolenza, che viene spesso ritenwa capace di risolvere tutti i problemi che possono insorgere nella convivenza sociale. Indubbiamente laproposta nonviolenta esercita un forte attrattiva, che vaben oltre i meriti acquisiti come strumento di lottapolitica. Figure come Gandhi, Lonza del Vasto, Capitini, Don Mi/ani esercitano un fascino e una capacità di attrazione che, spesso, fanno mettere in secondo piano una attenta disamina delle loro proposte teoriche e pratiche. Certo l'esempio e la testimonianza sono "modi" com11nicativi estremamente pregnanti, tuttavia gli interrogativi che la nonviolenza pone non possono essere risolti rimandando a/l'esempio che Franco: Una provocazione: cosa si può rispondere al discorso di Cossiga che vede gli obiettori di coscienza come imboscati e i militari come unici e veri difensori della patria? Andando più a fondo nel discorso, chi fa obiezione in qualche modo si oppone al servire la patria in armi per un anno, ma lo fa in modo tranquillo, senza dover affrontare particolari sacrifici. E' giusto che chi si oppone sia sullo stesso piano di coloro cui si oppone? Inoltre la realtà è composta da una marea di meccanismi e quindi per essere modificata non può, se non in tempi lunghissimi, far perno sulla normalità. E' un dato che non si cambiano le cose senza una certa dose di sacrificio per cui la spinta ideale dell'obiettore dovrebbe essere così forte da avere, anche simbolicamente, tutte le caratteristiche dell'opposizione. Raffaele: Cioè devo soffrire di più per dimostrare la mia volontà di oppormi? Allora io dico che di eroi ne abbiamo già avuti abbastanza, eroi che andavano a combattere e ammazzavano di più per dimostrare attaccamento alla patria, all'onore. Io voglio persone coscienti e consapevoli che utilizzino il loro pezzettino di potere tutti i giorni, con consapevolezza, con fermezza, con dignità, senza essere eroi. A me non interessa chi fa il servizio civile 24 ore su 24, con i malati, con gli anziani. E non perché non fa una cosa buona, ma perché questa non è l'obiezione di coscienza, questo è servizio civile e questo viene dopo l'obiezione. L'obiezione di coscienza è un atteggiamento generale che dovrebbero q11estigrandi personaggi hanno dato. E. a mioparere, questi interrogativi sono riass11mibilinpoche q11estio11i. La prima è che come strumento della lotta politica la no11viole11znaon si differenzia, alla fin fine, da 1111/i gli altri strumenti di tale lotta: lo scopo che essa si pone è com11nque quello di costringe re l'avversario. la controparte, a scelte che "moll/ proprio" non compirebbe. Da questo punto di vista essa 11011 può q11indi sfuggire al calcolo "economico" di costi e ricavi che ogni lotta politica (cioè di ogni azione che prenda come suo spazio l'ambito dei rapporti p11bblici e normativi fra gli esseri umani) presuppone. Ed in questo ambito, proprio perché strumento, cioè un qualcosa che deve trovare al di fuori di sé la s11alegittimazione e giustificazione, lanonviolenza non può che dichiarare la s11a intercambiabilità, quindi la s11a 11011superiorità, con gli altri strumenti, compresi quelli violenti, di lottapolitica. Ma lanonviolenza non è solo uno strumento di lotta politica più o meno efficace, essa è soprattutto una proposta complessiva basata su una profonda visione del mondo. dell'uomo e dei rapporti fra uomo e uomo efra uomo e natura, In questa globalità la proposta 11011vio/entaesprime senza dubbio dei sentimenti, degli ideali, delle aspirazioni profonde, nobili ed eticamente validissime; avere tutte le persone e che è quello di dire: di fronte alla vita, di fronte alle cose che succedono, di fronte alle situazioni, io non mi pongo in modo acritico. Mi pongo di fronte a tutto questo secondo la mia coscienza, i miei valori. In base a questo valuto e rifiuto pubblicamente ciò che non mi sta bene e cerco di proporre delle alternative credibili e serie. Da questo atteggiamento nasce poi l'obiezione di coscienza al servizio militare, che è il rifiuto della logica del militare, della logica della guerra, della logica della sopraffazione di una persona su un'altra perché hai il potere delle armi o il potere economico. L'obiezione di coscienza, come la Difesa Popolare Nonviolenta, che è un insieme di metodi per tentare di risolvere i conflitti senza l'uso di armi e violenza, è la voglia di mettersi a confronto con gli altri, la voglia di risolvere i conflitti in modo nonviolento. Non "annulla" il conflitto; non è che dicendo obiezione di coscienza, DPN, nonviolenza, io annullo il conflitto; questo rimane e sono convinto che rimarrà anche in futuro, perché in una società che ha risorse Iimitate, diversità di impostazioni, è ovvio che nascano dei conflitti. Poi sarebbe riduttivo e sciocco voler eliminare il conflitto. Il discorso è porsi di fronte al conflitto con un'ottica diversa.L'ottica diversa è dire che non c'è solo lo strumento delle armi, della violenza, ma che ci sono altre vie percorribili. Oggi come oggi chi non tenta altre strade commette un "peccato di omissione", perché oggi una strada è percorribile, c'è un'indicazione. tuttavia, proprio ciò facendo, rischia di trasformarsi in ciò che combatte o comunque vuole evitare, cioè in 11n "dover essere" esclusivo e rigido. In genere ogni individuo civile e razionale inorridisce, nella calma del suo salotto, alla vista delle manifestazioni di violen::.adi cui frequentemente gli uomini si dimostrano capaci, 11/ttaviaè anche vero che proprio onesti. civili e pacifici cittadini possono rivelarsi i più spietati, e tranquilli, carnefici, come dimostrano i troppi "signor 11ess11no" che hanno diretto gulag, lager, razzie, stermini, compiuti i quali tornavano a c11rare amorevolmente i loro giardini. E non solo molti di noi sono disposti a mettere a repentaglio la propria vita in nome di una causa politica o di una passione sportiva, ma anche il più pacifico degli esseri umani ha desiderato, almeno una volta, di annientare totalmente l'avversario di turno, e non è sempre detto che si trovi 1111 motivo per nonfarlo in nome della "ragionevolezza". Tutto questo per dire che il desiderio di eliminare chi ci ostacola o quello di confrontarsi con l'estremo limite rappresentato dal mettere in gioco la propria vitacercando di decidere su q11el/a di un altro, se non sono elementi costitutivi del/' "essere 11mano"in q11antotale sono certo elementi molto frequemi nella storia dell'umanità e nel nostro essere uoIl fatto di pretendere gente in qualche modo "anomala", che si distingua, spessoviene addotto come scusante per lanon volontà di fare. E cioè, lui lo fa perché è bravo, è una persona eccezionale, ha qualcosa in più. Io sono "normale", non lo posso fare. A li ora attenzione. E' vero che il testimone ci vuole; è grazie ai primi anarchici, a gente che è andata in galera, che si è creato il movimento dell'obiezione di coscienza. Però il testimone non deve diventare la prassi, perché perderebbe anche la sua stessa valenza. Ci devono essere anche tante persone normali che di fronte alle responsabilità se ne assumono il loro pezzettino e, con la consapevolezza di non cambiare il mondo, fanno la loro piccola parte. E un grande esempio di questo l'ho trovato nel libro di Enrico Deaglio "La banalità del bene". E' la vicenda di Giorgio Perlasca, una persona assolutamente normale che salva la vita a 5.200 ebrei. Si trova in una certa situazione e fa quanto gli è possibile continuando a sentirsi una persona normale. Questo per dire che c'è bisogno di gente normale che abbia la possibilità di trovarsi in situazioni che la facciano crescere e maturare. Anche per me è andata così: sono partito da un disagio verso il militarismo e la violenza, stavo facendo del volontariato e ho deciso di continuare in quel settore, di non "perdere" un anno nei militari. Poi tutto è maturato, dagli incontri, dalla casualità, dall'amico che ti dice "leggiti quel libro che è interessante", dalle domande provocatorie, perché anche chi dubita di te ti fa riflettere. Tutto questo ti fa 81 liotecaGino Bianco mini oggi. Certo per chi ha fatto propria, e vive con ogni cellula del suo corpo, /'ahimsa gandhiana questo discorso 11011è valido: il desiderio di ''non nuocerelimervenire" (tale la traduzione del termine "ahimsa") è parte costillltiva del suo essere. Ma proprio qui la proposta 11011violentamette in luce le sue aporie: la particolarità della concezione dell'11omoe dei suoi i111errogativi che l'ahimsa esprime è così pregna di uno spirito mistico e religioso, così innervata in una c11/turaparticolare, quella indiana/induista, da risultare molto ostica o semplicistica o del tutto fallace ai nostri "laici" occhi occidentali. Occhi che non possono non vedere uno dei dati fondamentali della condizione umana in q11antotale: lllttidobbiamo morire e lanostra morte ci appare come la violenza più grande, l'oppressionepiù intollerabile e inconcepibile. Una violenza così immane, una oppressione così insopportabile, che qualsiasi altra cosa diventa secondaria al suo confronto. E' di fronte a tulio questo che la nonviolenza mi appare sfuggente anche se la desiderabilità dei suoi fini, la nobiltà della sua etica. il titanico esempio dei s11oirappresentcmti continuano a fare della nonviolenza 1111s0pecchio in c11i ogni essere pensame 1101p1uò non desiderare di guardarsi. F. M. ..----------------di Ivan %affini LECELATE PROfONDlfA' DELLANON VIOLENZA La cultura occidentale -colonialista per essenza- tende ad assimilare alle proprie categorie ogni concetto ··estraneo", altro, che potenzialmente può intaccarne le fondamenta. Non c'è bisogno di richiamare le teorie dell'antropologia culturale per convincersene, né di sciorinare esempi arcinoti, già abbastanza diffusi dalla cultura del cannibalismo giornalistico à la ·'Mixer": le varie tipologie delle "diversità" sociali (dagli extracomunitari ai •·movimenti") che in realtà sono oggetto di attenzione da parte dei "media" solo per attestare la presunta vocazione "ecumenica" dei sistemi democratici. Pensiamo invece a ciò che è accaduto, all'alba dell"'episréme greca", come l'ha chiamata Michel Foucault, alla "mania" orfica del poeta: la sua hybris, almeno da Aristotele in poi, si chiama "letteratura", e questa parola rappresenta il "comparto" in cui è stato relegato il divertimento spirituale della ragione, del logos. La diversità tende a divenire una funzione sistemica (Luhmann) e in tal modo viene vanificato il suo potere di trasfonnazione. Accade così che una pratica di vita come la non-violenza, l'ahimsa, suoni oggi particolarmente bene in bocca ai politici di varia estrazione, indipendentemente dal suo originario valore ali' interno della cultura dell' induismo. Dopo le "convergenze parallele", il "compromesso storico", i I "polo laico", ecco la non-violenza: esagero appositamente il paragone, ma non è esagerato chiamare follia la riduzione della non-violenza a "strumento" della dialettica politica nelle cosiddette democrazie. Per chi si illude di poterla citare in dibattiti vari, va chiarita una cosa: nel suo senso autentico, originario, I' Ahimsa non è altro che una tecnica mistica, del più puro misticismo. Attraverso un certo "gandhismo" radical-pannelliano assistiamo purtroppo alla sua riduzione a nuovo "grido" d'opposizione. Opposizione -va detto senza mezzi termini- più illusa che mai, poiché non si accorge che, estrapolando la non-violenza dal suo ambito autentico, ne effettua in realtà la trasformazione in un nuovo sgorbio del pietismo occidentale, un altro mix fra cattolicesimo e illuminismo, fra la tolleranza del1' individualismo proprietario e il "siamo tutti più buoni" del sentimentalismo di massa. Si sente dire (a volte tra le righe): lasciamo stare l'induismo, il karman, lo spirito, l'Armane tutto il resto, e prendiamo solo l'idea della non-violenza, indipendentemente dalla sua metafisica, come guida per la prassi. E questa è invece un'altra violenza, e delle più sottili. Come può guidare la prassi un ideale monco, privo della forza della totalità? Una tale non-violenza è tutta interna alla logica della modernità: singole prassi, svincolate dalla prigione teologica, che si trascinano nella loro precarietà, e ancora incapaci di libertà. Gandhi diede l'ordine di uccidere le scimmie che stavano devastando il raccolto del suo Ashram, unico sostentamento per la popolazione del villaggio. Lo racconta nell'Autobiografia proprio per chiarire il valore della non-violenza. Il Buddha -si narra- uccise un uomo che, intuì, stava per divenire un assassino, ma non aveva ancora agito, impedendogli così di compiere un misfatto e liberandolo dalle conseguenze delle proprie azioni. Egli -si narra ancora- uccise per puro amore. Cos'è dunque quest'Ahimsa? La sua bellezza è indicibile, se non la si mescola con le ipocrisie della "dialettica democratica", se la si contempla nella sua forma primordiale, senza ancora pretendere di metterla in pratica. Gandhi l'ha definita così: "come nell'addestramento alla violenza occorre imparare l'cirre di uccidere, così ne/l'addesrramento alla non-violenza occorre imparare /'arre di morire". Se non ci si addestra nell'arte di morire -arte eminentemente propria del pensiero- è inutile parlare di nonviolenza. La non-violenza significa liberazione completa dal timore (quando sappiamo che la quasi totalità delle nostre azioni è dettata dal timore - timore degli altri, di noi stessi, del mondo). Gandhi voleva mostrare ciò: l'astensione da qualsiasi ostilità nei confronti di noi stessi, degli altri, del mondo, è più potente dell'inimicizia: vince, poiché chi è ostile non prepara altro che la propria sconfitta per sua stessa mano. Chi è ostile - politicamente, personalmente, per ragioni razziali, sociali e quant'altro- va amato, poiché non sa che con la sua stessa ostilità sta preparando la propria rovina, e se lo odiamo avremo odio, all'infinito. Egli, in realtà, non può farci niente, può abbruttire solo se stesso. Si può allora praticare questa Ahimsa senza aver imparato l'arte di morire? Perché chi ci odia ci uccide. Ma Gandhi è ancora molto chiaro: "se amiamo coloro che ci amano, questa non è nonviolenza. Non-violenza significa amare coloro che ci odiano. So quanto sia difficile seguire questa sublime legge dell'amore. La nostra non-violenza sarebbe una cosa vuota e priva di valore, se facesse dipendere il suo successo dal buon volere delle autorità". Egli perciò allontanava gli Inglesi dal)' India cercando, come spiega, di dominare in sé i più piccoli accenni d'ira, anche provocati da delle sciocchezze. La non-violenza, come si vede, è il contrario della passività, ma anzi è pienezza delle forza. Essa, nel suo senso pienamente filosofico, scatena sempre la guerra, quella che Renée Daumal chiamava "la guerra santa" contro le meschinerie e le piccolezze umane, guerra che, sempre secondo Daumal, va combattuta senza nessuna pietà per se stessi, guerra vera che termina con la vittoria sulla paura della morte o con la sconfitta, con la consegna al timore per il nostro esser-nulla. Ancora Gandhi, dopo aver mostrato alcune potenzialità dell' Ahimsa, dopo aver vinto, peruna volta, il "politico" con )"'impolitico", ebbe a dichiarare: "Non sono che un umile investigatore della scienza della non-violenza. Talvolta le sue celate profondità mi sconcertano ...". OBIEZIONE DI COSCIENZA dialogo con Raffaele BarlJiero, militante pacifista maturare, ti fa cominciare a cercare. Gianni: Pongo una questione concreta, direi quasi politica, forse reminescenza del passato, non solo di quello che abbiamo conosciuto noi, ma anche del passato del movimento operaio, dei movimenti progressisti. E cioè il luogo privilegiato per fare del volontariato "antimilitarista" non è forse l'esercito? Questa cosa secondo me è molto concreta, perché se tutta la gente come te va dagli handicappati. nell'esercito viene meno qualcosa.C'è il rischio di una divisione. quelli che hanno degli ideali se ne stanno a casa a fare anche cose lodevolissime, del sacrificio, nonostante io veda anche molto imboscamento, e si perde l'occasione di tenere un po' sotto controllo l'ambiente militare che purtroppo è quello che è, un· istituzione abbastanza dura, forse riformabile, ma non per certe cose. Una situazione dura, che crea anche condizioni di inasprimento di rapporti, terreno di cultura di sopraffazione. Io ci sono stato e ti assicuro che gli ufficiali erano acqua fresca rispetto a quello che era il problema del nonnismo. Il nonnismo è veramente una cosa terribile nell'esercito e per debellarlo c'è stata la necessità di un certo impegno. Raffaele: Secondo me non è necessario stare dentro a tutte le cose per modificarle. In questo caso specifico il dibattito sulla possibilità di cambiare con l'impegno politico dentro la caserma si è smontato da solo, si è sgretolato e dissolto. E' un'esperienza che è stata tentata, ma che non ha dato frutti. La struttura militare, è rimasta la stessa, magari più "abbellita", ma nella stessa logica. In quella struttura, secondo me, non c'è possibilità di maturare una crescita. E' una struttura che ti mastica, ti schiaccia. La mia ottica, non dell'oggi o del domani immediato, è comunque quella dell'abolizione dell 'esercito. L'esercito non nasce per fare protezione civile. Il suo fine ultimo è la difesa armata. lo non ho un'ottica statalista, ma di comunità civile, di persone che vivono in un determinato territorio. Io non mi sento cittadino della Romagna, né dell'Emilia, o dell'Italia, sono cittadino del mondo. In questa ottica mettere a disposizione della comunità civile un anno della propria vita può servire a crescere, ad ampliare i propri orizzonti. Bisogna superare un certo tipo di mentalità per cui adesso si vive molto sul proprio personale. Quello che si fa, anche la cosa positiva, viene fatto perché fa bene a se stessi, perché gratifica. Questo va anche bene, ma può sfociare nell'individualismo assoluto. Per me ci sono vincoli di solidarietà e di giustizia che spezzano il tuo involucro e ci entrano dentro. Franco: Tu poni la comunità o la società come un qualcosa di estremamente mobile e mutevole e quindi è molto facile che anche ipotesi diverse da parte dei singoli si possano inserire in modo più o meno armonico ali' interno di questa comunità. Ma "rispetto agli obiettori totali? C.'è solo il valore della testimonianza? Raffaele: Certamente l'obiezione totale ha il valore della testimonianza, che io difendo, ma non condivido perché questa situazione così forte richiede momenti forti. Di fronte alla richiesta se andare o no nel Golfo io rischio la galera, ma di fronte ad un'altra situazione secondo me è più utile costruire le condizioni del cambiamento, non farsi un anno di galera dove non riesci a modificare niente se non il secondino che ti guarda e ti accomuna al testimone di Geova. Gli obiettori non riescono con la loro testimonianza ad incidere in questa situazione. Teniamo anche presente che tutto questo viene fuori da millenni di storia di guerre. Il discorso della guerra viene insegnato nelle scuole. Allora siamo già immersi in tutta questa cultura, in questo brodo. E in questo brodo poche cose saltano fuori, perché della non violenza si è cominciato a parlarne in maniera un po' più seria da dopo la morte di Ghandi, da dopo il '48. Quindi abbiamo secoli di storia di guerra e poche decine di anni di pensiero diverso, poche decine di anni di studi diversi, poche decine di anni di sperimentazione diversa. Allora o rifiuto tutto o ci vivo dentro e cerco di modificarlo. Metto le mie possibilità sui piatti della bilancia e decido se mi conviene stare un anno in carcere e fare testimonianza dura e forte oppure stare nella società, cercare a mio modo di fare del volantinaggio, scrivere sui giornali, organizzare la protesta, andare di fronte alle basi militari, attivarmi contro la guerra del golfo, ecc .. Ognuno fa le sue scelte. Pur rispettando la scelta dell'obiezione totale, io credo sia più opportuna la seconda strada. E' una delle risposte alla nostra riflessione. E poi chi fa educazione alla pace, alla non-violenza? Dove si può creare sensibilità ad un discorso legato alla non-violenza, legato a rapporti diversi fra l'individuo e le istituzioni, legato a metodi di risoluzione non violenta dei conflitti? Quando non hai una risposta devi improvvisare mille risposte: dalla persona singola al movimento, ali' aggregazione, ali' associazione culturale, alla Lega degli obiettori... Devi far crescere questo tipo di cultura, con calma, con pazienza, sapendo che giochi contro dei numeri molto forti con dei numeri molto piccoli. a cura di Franco Melandri e Gianni Saporetti. UNA CITTA' 5

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