Una città - anno II - n. 11 - marzo 1992

sr RII Dl11 'ANIMA intervista a Fausto Taiten Guareschi La mia storia è ancora, anche per me, una questione irrisolta perché posso vederla da diversi possibili approcci, ma il fatto fondamentale è che, ad un certo punto della mia vita, mi sono imbattuto in una tradizione, lo Zen, che ai miei occhi di allora risultava scevra da rituali e impianti liturgici e mirava dritta al cuore dell'uomo. Mi sto ancora chiedendo che cosa fa sì che ad un certo punto ci imbattiamo in un elemento che diventa significante pertutta la nostra esistenza. Facendo riferimento alle sacre scritture che narrano della vita del Buddha, vediamo che lo esaltano come colui che era arrivato ad un certo punto cruciale, dopo un'ascesi strenua, dopo infinite rinascite fino all'ultima nascita ed all'illuminazione. Di fatto la nostra vita non è piovuta dal cielo, ha una sua lunga storia che affonda le radici nel passato e che già, in potenza, sembra portarci verso il senso stesso della vita, quindi al risveglio, all'emancipazione finale. La storia di Buddha è un po' la storia di questo. un angelo nero sbarcò dove •• nessuno p1u credeva Scendendo invece alla mia biografia, non so per quale motivo in particolare, verso i quindici anni entrai in contatto col mondo del judo e delle arti marziali e attorno ai diciott'anni, dopo anni di pratica e di studio, diventai per due volte campione nazionale juniores. Il successo agonistico mi aveva però soddisfatto per metà, anzi mi aveva lasciato la bocca amara. Fu allora che entrai in contatto con Cesare Barioli, un allenatore di Milano che è stato una delle figure più significative della mia vita. Barioli, grazie ad una sensibilità molto speciale, aprì in me la possibilità di avvicinarmi allo Zen, che è la dottrina più vicina all'ambiente culturale delle arti marziali. lo ricercavo qualcosa in più del successo agonistico e Bari oli ebbe l'idea di invitare a Milano un mae1 stro giapponese, Taisen Deshimaru, ordinato monaco a cinquantatre anni, dopo aver avuto moglie e figli. Era il 1967 e di lì a poco sarebbe diventato il mio maestro. Oggi penso che questo angelo nero seppe ben interpretare la realtà di quegli anni, del '68, e sbarcò là dove nessuno più credeva. Io venivo da una famiglia socialista, ero rimasto affascinato dai contenuti dottrinali del marxismo, in un momento in cui il comunismo non era ancora molto popolare fra i giovani, ed in seguito mi ero interessato all'anarchismo e alla musica jazz. Tutto questo si muoveva verso una libertà, una spontaneità della mente e del cuore, e verso una sensibilità particolare che ha favorito il contatto concreto e felice con questo maestro che poi, nel 1975, mi ordinò monaco novizio. Così dizione. Comunque non so formalizzare sino in fondo cosa mi muovesse, il disagio che sentivo. • una via contemplati- • va, eminentemente pratica Fin da piccolo so che l'uomo deve morire, che io devo morire e, appassionato lettore di Blaise Pascal, mi sono reso conto che il pensiero è il grande tesoro dell'uomo, il mio grande tesoro. Da tutto questo è nata la mia decisione di intraprendere la via contemplativa, quindi eminentemente pratica. Diceva che nel '68 un "angelo nero" è arrivato dove nessuno più credeva, ma non è anche vero che , %?,1'•:r~!~!J ~; :1tt~~i ~;:t!t~: decisi che questa sarebbe stata la mia vita. Seguii il mio maestro varie volte in Francia, dove aveva impiantato una grossa missione che aveva diramazioni un po' dovunque in Europa, in Africa e nelle Americhe. Nel 1982 lui morì e questo mi diede lo spunto per riconsiderare la mia maturità in campo spirituale. Pensando che non fosse ancora sufficiente, trovai fra alcuni suoi condiscepoli il mio secondo maestro, Narita Shuyu Roshi, dal quale, nel 1983, ricevetti la legittimazione. La "legittimazione", cioè la successione dharmica, è una peculiarità del Buddhismo Zen; è I"'esperienza del risveglio" legittimata grazie ad una successione ininterrotta fra maestri Zen che risale fino a Buddha. In questo percorso ero mosso da qualcosa, penso una profonda vocazione al problema esistenziale, già presente in me dai primi anni di vita; un tesoro da coltivare per un po' rimasto in ombra e poi riemerso. Il momento delle arti marziali forse è servito come primo passo; una sorta di iniziazione dal disagio adolescenziale al mondo adulto. Infatti l'amore per le arti marziali è andato scemando fino a quando, nell' 83-84, l'ho abbandonato perché non riuscivo più a dedicarmi ad esso per via degli egni della mia nuova con- • n vi di mutare le cose proprio perché si aveva fede in una possibilità ·diversa di vita? lo non so se posso dire di essere un figlio del '68. Allora avevo 18 anni e, quando i miei genitori mi posero davanti ali' alternativa fra carriera politica e carriera sportiva, io ero attirato ugualmente dalle due cose, consapevole della ricchezza di entrambe. Optai per quella sportiva perché, come dicevo, era già qualcosa in più del semplice agonismo. E' vero che allora più nessuno credeva, ma propri o per questo ognuno era nelle condizioni per poter credere. Questa situazione corrispondeva molto al mio tipo di domanda: ero consapevole che avrei potuto credere facilmente a qualcosa, ma tutto quello che era successo prima non mi aveva permesso di credere, anzi, mi sembrava puerile dover credere in un certo modo a Dio. Di fatto questa incredulità si stava trasformando nella ricerca di cosa potesse veramente significare "credere"; le risposte c'erano ed io le ho trovate nel Buddhismo. Adesso il problema si è spostato; se volessi riprendere una certa strada, non potrei più dire "voglio fare il monaco Zen" perché nel frattempo sono diventato buon amico di tanti religiosi cattolici che mi stanno insegnando un sacco di cose, con cui condivido tante cose. Per questo oggi non potrei più optare per una scelta specifica. Però il nocciolo di tutto rimane il "credere", cosa vuol dire per lei? "Credere" per me non implica un oggetto in cui credere; non implica uno sdoppiamento, un processo di oggettivizzazione interna o esterna. Non è che l'uomo sia posto al centro di questo processo; credere è una libera funzione della vita in sé. La sostanza ultima della vita è il credere, in questo senso possiamo parlare di fede. Nello Zen e nel buddhismo antico il concetto di fede esiste, ma non è mai esaltato, almeno fino ad una certa epoca. C'è un testo, composto nel VI secolo dopo Cristo dai primi patriarchi del Buddhismo cinese, che con tiene una raccolta di versi sul "credere nello spirito", ma "credere" e "spirito" sono due ideogrammi che si rafforzano CO a vicenda, manca l'oggetto del credere. Questa è l'esperienza dello Zen; il maestro Zen, e questa è la sua abilità, la sua compassione, ci costringe a cadere in un pozzo: nella dimensione, nello spazio, nel luogo in cui possiamo credere, in cui noi ritroviamo noi stessi e non abbiamo giustificazioni, non abbiamo scuse, per non credere. A me piace questa immagine: venite sganciati da un elicottero in mezzo al mare, subito cominciate a nuotare con la speranza di trovare qualcuno o di non essere lontano da un'isola fino a che vi rassegnate, a questo punto il vostro pensiero corrisponde esattamente con la vostra azione: non c'è azione che sia prima del pensiero, né pensiero che sia prima dell'azione, siete proprio voi, ma non autoidentificati. Quando "collassate" in questa situazione per la prima voi ta sapete cosa sia "credere". Per il buddhismo è lecito tanto dire "Dioc'è" come dire "Dio non c'è", ma allora questa "illuminazione gratuita" cosa dimostra? Dio esiste dentro di noi. Siamo altro da Dio, non è che ci prendiamo per Dio, ma esiste dentro di noi; questo è quello che ho cercato di dire, questa è la nostra fede. Per noi è un "koan", una verità inesprimibile, ma è la tensione stessa della nostra esistenza, per cui possiamo comprendere questa gratuità. Noi parliamo di "mushoto", che vuol dire "senza scopo", "senza fine", "senza proposito umano" ed è nella rinuncia di questo proposito umano che noi ci apriamo alla natura di Buddha, che è la nostra intima natura. Il Buddhismo non nega, né afferma, l'esistenza di Dio, sono problemi secondari; per il buddhista "Dio" è qualcosa di molto diverso da quel che si intende normalmente con questo termine. Il buddhista non cederebbe mai alla tentazione, al desiderio, di un Dio posto al di sopra di tutto; c'è questa dignità, quest'etica, che ci impedisce di dire "io ho un Dio che è più forte del tuo, per cui devi credere al mio". E' certo una dimostrazione di debolezza, ma può anche essere una cosa bellissima, può essere una dimostrazione della debolezza umana che va esaltata e valorizzata. Il Cristianesimo di oggi svalorizza questa debolezza, anche se non mi sembra che nei Vangeli ci sia questa svalorizzazione: la confessione ed il pentimento sono alla base del Cristianesimo. Confessione e pentimento, seppure in un'altra fom1a, sono presenti anche nel Buddhismo: prima di ogni "sacramento" buddhista è fondamentale che io mi "penta" per tutto il male che esiste e "confessi" la mia incontaminabile purezza, cioè la mia natura di Buddha. 'patire con' per 'pensare a' Parlando della fede la descriveva come un'esigenza di andare oltre sé stessi senza oggettivizzarci e senza uno scopo che ci spinga alla trascendenza, ma allora cosa significa per il buddhista la compassione, che, per sua natura, deve avere un scopo che lamotiva ed un"oggetto" su cui manifestarsi? La compassione, importantissima nel Buddhismo, si collega al discorso sulla fede. Nel Sermone di Benares c'è la rivelazione delle Quattro Nobili Verità dall'ultima delle quali deriva l'Ottuplice Sentiero, che inizia con I' affermazione di una norma, chiamata "Retta Visione". Dice che per intraprendere l'ascesi buddhista dobbiamo essere consapevoli che non c'è da migliorare l'uomo, perché quando l'uomo cerca di migliorare partendo da un presupposto umano, cioè dai suoi desideri, dal le sue passioni, dal suo ego, non fa altro che combinare guai. L'ego, questo "sé" separato, non esiste. Dobbiamo riconoscere la moltitudine di esistenze che da sempre vivono in pace e armonia. Non c'è bisogno di intervenire per portare pace ed armonia. Là dove le religioni occidentali annunciano teleologicamente il Regno dei Cieli al di là del tempo, come in un lontanissimo futuro, il Buddhismo fa l'opposto: lo mette ali' origine, una specie pezzo di carta è la mia esistenza, un fi urne è la mia esistenza, io vivo di relazioni, la mia esistenza è la ricchezza di relazioni. Questo cosmo, questi universi, nella loro interrelazione sono la mia esistenza. lo come individuo esprimo questo tipo di ricchezza nella mia vita, questo per il buddhista è !"'esistere". Fausto Taiten Guareschi, nato a Fidenza 42 anni fa, è il primo maestro Zen di origine europea ufficialmente riconosciuto da un ordine Zen giapponese. Ebbe la "legittimazione" direttamente dal maestro Narita Shuyu Roshi che, dopo averlo avuto per più di undecennio come allievo, lo 'legittimò" al momento della sua morte, come nella tradizione dell'ordine Zen Soto. Vive nel monastero di Fudenji, vicino Fidenza. Nora: Il lettore noterà che Taiten Guareschi usa il nome "Buddha" (cioè "illuminat0") riferendolo sia al Buddha storico, Gothama Siddhartha Sakyamuni, sia ad una sorta di "serie", sia ad una condizione cui l'adeptO può giungere. Questo "gioco" linguistico si spiega con la visione teologica di molte scuole buddhiste, fra cui lo Zen. Per esse esiste una specie di "dinastia" di Buddhache dalla nottedei tempi (peralcunescuoleè addirittura senza origine) giunge fino alla nostra epoca e di cui Buddha Sakyamuni è solo uno dei rappresentanti più noti e venerati. Per il Buddhismo in genere, inoltre, la condizione di Buddha è raggiungibileseguendole"verità rivelate"dal BuddhaSakyamuni cioè: le Quattro Nobili Verità da cui derivano i "comandamenti" buddhisti, cioè l'Ottuplice Sentiero. Queste corpo teologico è contenuto nel Sermone di Benares, il primo importante discorso pronunciato, a 35 anni, dal Buddha Sakyamuni. di punto di partenza al di là del "prima" che ci consente di operare in quanto esseri individuati, uomini. Questa grande consapevolezza è la compassione del buddhista, che si traduce nell'operare con tutti, nel patire la passione della vita. Il buddhista deve "patire con" per "pensare a", non esiste il "pensare a" senza "patire con". Questo permette di operare nella vita con una prassi di fede, con mezzi appropriati. un pezzo di carta è la • mia esistenza, un fiume è la mia esistenza Ma se io non ho un'identità mia, inerente al mio essere qui ed ora nel mondo, come posso agire? La nostra percezione del mondo, la percezione umana, è che esso sia un posto in cui c'è il bene e c'è il male, il piacevole e lo spiacevole, ed io mi sposto da un terreno sfavorevole ad uno favorevole. Questo è umano, non possiamo avere una percezione di questa dimensione illuminata parlandone; non a caso la "legittimazione", avviene solo da Buddha a Buddha, in una successione ininterrotta. E' impossibile per l'uomo, proprio per la sua natura, capire che tutte le esistenze vivono in pace ed armonia. Come uomini siamo dominati da sentimenti bestiali o narcisisti, a volte viviamo in stati d'esistenza paradisiaci altre volte infernali; la nostra vita continuamente scorre e non è facile per uno che venga messo in una fornace ardente dire che tutti gli esseri vivono in pace ed armonia, questa è la consapevolezza dei Buddha, ma da questa consapevolezza possiamo partire come esseri umani ed operare, prodigandoci con ogni sforzo, instancabilmente, in questa vita breve, limitata, condizionata. Tutto questo non può essere oggetto di una istruzione intellettuale: del Buddhismo si pensa che sia una dottrina logica e razionale, priva di compassione, ma l'insegnamento del Buddha storico è anche l'espressione della compassione, di questa compassione che è come una "verità rivelata''. L'uomo non esiste come entità separata: un Avendo cura di questo esistere ho cura del mondo, di ogni minimo fenomeno. E' in questo senso che il buddhismo afferma non esserci l'ego, la stessa illuminazione del Buddha lo afferma esplicitamente: "Io, insieme alla terra e alle stelle, ai fiumi, alle piante, a tutti gli esseri, simultaneamente realizziamo la Via Suprema". Questo non vuol dire "assorbirsi", far svanire l'uomo, la sua personalità; questo vuol dire avere una "mente religiosa" e la nostra ricchezza è l'esistenza di questi universi che si condensa, cambia, si trasforma costantemente ad una supervelocità, istante per istante, in ognuno di noi ed in ogni cosa. Bisogna fare attenzione che l'individuo non riduca il senso dell'esistenza al "sé", perché così si perde di vista tutta la ricchezza delle cose. Di fronte a tre bastoncini di incenso di diversa lunghezza, uno brucia in due ore, uno in un'ora e mezza, l'altro in un'ora, il maestro chiede "qual è il più lungo?". Uno pensa che il più lungo sia quello che dura di più, invece condividono tutti e tre la stessa vita. Ma come si conciliano l'aspetto, profondamente individuale ed intrasmissibile razionalmente, dell'illuminazione, della "mente religiosa", con l'aspetto solidaristico e missionario implicito nella compassione? Diciamo pure che, per quanto sembri strano, il buddhismo è missionario e solidaristico come spirito. Lo stesso Buddha, nel sessantunesimo sermone, invita tutti a disperdersi e ad andare uno ad uno, non due a due come hanno fatto i Francescani più tardi, in differenti direzioni a predicare, ma di predicare qualora fosse stato loro richiesto. Fin dall'inizio quindi c'è stata una sorta di distaccata compassione o di compassionevole distacco. Noi diciamo che anche ogni minima azione in cui ci gettiamo anima e corpo ha il potere di invocare, di suscitare, la compassione del Buddha. Vorrei fare un esempio che può aiutare a capire. Nel XVIII secolo, in Giappone, c'era un asceta, Dahigolu Rhiokan, che diventò famoso per una persona Iità che, ai nostri occhi, lo rende molto simile a S.Francesco. Viveva nelle campagne ed era dedito ad un'ascesi molto severa e solitaria. Chiamato dal fratello per redarguire il nipote che s'era dato a cattive abitudini, questo monaco passò tutta la serata in piacevole conversazione col nipote, senza minimamente accennare alle sue malefatte. Alla sua partenza, il mattino dopo, il nipote si offrì di allacciargli i sandali e, chinato, sentì umido sulla testa e vide gli occhi di Rhiokan colmi di lacrime. Si dice che da quel momento il giovane abbia cambiato vita. La compassione del Buddha sono queste lacrime che arrivano a nutrire, ad annaffiare, le potenzialità del giovane. Come attivare questa potenzialità può variare. Nello Zen il maestro cerca di scardinare tutte le certezze, le supposizioni intellettuali, etiche o morali. E' comunque difficile parlare pubblicamente di queste cose, nel senso che è bene che i maestri Zen non vengano dipinti come coloro che invitano a fare il male per trascendere il bene, per quanto potrebbe anche darsi il caso che ciò avvenga. Tuttavia sono rari i casi in cui, per un'esigenza di tipo pedagogico, il maestro si permette di compiere un atto sacrilego, come prendere la statua del Buddha e bruciarla di fronte al monaco che si è eccessivamente attaccato a certi aspetti liturgici. Ma anche questo è un modo per educare e per indurre il risveglio nell'allievo, anche se, in realtà, negli ambienti monastici c'è da sempre un rigore morale esemplare. un silenzio che ha poco a che fare con la parola Questo mi fa ricordare i monaci vietnamiti che, durante la guerra del Vietnam, si bruciavano pubblicamente. Un'immagine forte, che in occidente colpì molto. Questa forma di "impegno sociale" è una conseguenza necessaria dell'agire compassionevole del monaco? Le scritture ci narrano che il Buddha si è sempre offerto come mediatore in molte dispute di tipo politico, a volte ebbe successo altre volte fallì, ma questo dimostra che c'era una sensibilità da parte sua. Per il buddhista non esiste il problema di scegliere da che parte stare. Anch'io rimasi mo! to toccato dal l'esempio dei monaci Zen vietnamiti, tanto che avevo appeso la fotografia di questo monaco bruciante, seduto nella meditazione. Sarà questo il motivo per cui mi ha affascinato lo Zen: non il fatto che si bruciavano, ma la postura della meditazione, che è stato l'approccio pragmatico ad un'esigenza che non potevo risolvere intellettualmente. Avevo bisogno di un contatto "sanguigno" e mi è stata proposta una risposta con la cosiddetta "postura da meditazione", I"'orazione" buddhista che è il punto cruciale dello Zen. Ebbene questi monaci allora si bruciavano perché erano uccisi dai comunisti, che li pensavano filoamericani, ed erano uccisi dagli americani, che li pensavano filocomunisti, mentre l'unico "difetto" che avevano era quello di non fare differenze e ricostruire i villaggi che entrambi distruggevano. Era un messaggio; questi giovani, con una decisione in piena libertà, senza manipolazioni di alcun genere, mettevano i loro sandali ben allineati da una parte, si cospargevano di benzina e si appiccavano fuoco, con le persone che tutt'intorno congiungevano le mani, senza intervenire. E questo è un sintomo di grande comprensione, di una sensibilità religiosa forse incomprensibile per molti. Non c'è il problema di mettersi da

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