Gaetano Salvemini - Scritti sul fascismo II

Capitale e. lavoro nell'Italia fascista Il tribunale di Pisa ha emesso un'importante decisione. Ha stabilito che l'abbandono del lavoro costituisce invariabilmente un reato. Quando sorge un conflitto fra le due parti, la sola via aperta a loro è il ricorso agli organi competenti istituiti dalla legge per risolvere le controversie del lavoro. Il reato di sciopero - conclude la sentenza - è pu– nibile tanto se perpetrato per ragioni politiche quanto se per ottenere un miglior trat– tamento, ed anche se è perpetrato a sostegno di un innegabile diritto. Le serrate sono proibite come gli scioperi. Questo è messo in luce dalla "propaganda" come una prova dell'eguaglianza che regna, nel sindacali– smo fascista, tra capitale e lavoro. Ma, dove gli operai non possono sciope– rare, i padroni non hanno alcun bisogno di ricorrere alla minaccia o alla rappresaglia della serrata. Quando un datore di lavoro dichiara che egli non può piu mantenere le paghe ad un certo livello o le maestranze al completo, la sospensione del lavoro non si chiama "serrata," ma chiusura dovuta a "giustificato motivo. 1125 Gli ammiratori del "sindacalismo" fascista asseriscono che esso ha potuto introdurre in Italia il sistema di regolare il mercato del lavoro col mezzo dei contratti collettivi. La verità è che anche prima della conquista fascista le federazioni socialiste avevano largamente messo in uso i contratti collettivi in tutti i campi della produzione. Basti ricordare il contratto col– lettivo concluso nel settembre 1920 dalla Federazione degli operai metal– lurgici che fissava le condizioni di lavoro di circa 500.000 lavoratori. Esso lasciava alle organizzazioni di ogni provincia il compito di precisare le paghe locali, ma stabiliva il minimo applicabile, superiore del 20% al minimo al– lora vigente; assicurava agli operai il diritto ad una indennità - di due gior,– ni di salario per ogni anno di servizio - in caso di licenziamento; una va– canza di sei giorni, pagati, nel corso dell'anno; la revisione bimensile dei salari in rapporto alle fluttuazioni del costo della vita; finalmente gli operai acquistavano il diritto di eleggere comitati di fabbrica che, in ogni stabili– mento, rappresentavano i loro interessi nelle questioni di disciplina interna. Contratti simili furono stipulati per l'industria tessile, per i tipografi, per i giornalisti e gli amministratori di giornali, ecc. Anche nell'agricoltura esi– stevano contratti collettivi nell'Italia del nord, perfino prima della guerra. Dopo la guerra si estesero nelle altre parti del paese. Non era perciò necessa– rio di imporre alle masse lavoratrici la disciplina militare di un'organizzazio– ne burocratica e centralizzata, per convincerle del vantaggio proveniente dal– l'adozione di contratti collettivi di lavoro. Questo solo è vero; che tutti i me– stieri e le professioni sono stati costretti dalla legge dell'aprile '26 ad organiz– zarsi e a compilare contratti collettivi. Un mestiere solo è rimasto abbando– nato al dominio del laùsez faire, laissez passer, senza sindacati e senza contratti collettivi: quello delle sacerdotesse di Venere. Per conseguenza il numero di questi contratti è cresciuto a dismisura dopo il 1926. 25 "Lavoro d'Italia," 3 settembre 1929: "È ben noto che i padroni possono ridurre il numero delle squadre di operai o la loro forza, senza chiudere gli stabilimenti e perciò senza produrre la 'serrata.'" 511 BiblotecaGino Bianco

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