Gaetano Salvemini - Scritti sul fascismo I

La dittatura fascista in Italia giurati, avvocati, giornalisti e tutto il pubblico possono essere controllati a dovere. Inoltre fu dato incarico di presiedere il processo al giudice Francesco Danza. Nel settembre 1913, Danza, che era allora giudice a Lucera, fu accu– sato da Roberto Marvasi, noto giornalista napoletano, di aver nominato come curatore in una causa di fallimento un sarto, certo Manna, noto alla polizia per la sua cattiva reputazione e agli abitanti di Lucera come l'eroe di varie imprese scandalose. La sola qualifica che Manna sembrava possedere per una nomina tanto insolita e remunerativa era quella di essere un frequentatore abituale della casa di Danza, e di avere con lui dei rapporti di affari. Marvasi pubblicò ripetutamente le sue accuse in un settimanale, Scintilla. Ma fu il · sarto e non Danza a sporgere querela; e quando il 18 gennaio 1915 si doveva discutere la causa a Napoli, il querelante non si fece vedere e l'imputato venne assolto dopo avere invano pregato che gli si permettesse di fornire le prove di quanto aveva affermato sia nei confronti del Manna che di Danza. Questo era il giudice a cui fu affidato il pubblico processo. Di fronte a questa farsa legale, la vedova dell'ucciso non ebbe altra scelta che quella di ritirarsi dal processo; ed è quanto fece con la seguente lettera: Eccellenza, l'assassinio di Giacomo Matteotti, tragedia mia e dei miei figli, tragedia dell'Italia libera e civile, mi lasciò credere che giustizia sarebbe stata non invano invocata; era l'unico conforto che mi rimaneva nell'angoscia suprema e perciò mi costituii parte civile. Ma nelle varie vicende giudiziarie e per la recente amnistia, il processo - il vero processo - a mano a mano svaniva. Ciò che oggi ne rimane non è che l'ombra vana. Non avevo rancore da esprimere né vendetta da invocare: volevo solo giustizia. Gli uomini me l'hanno negata: l'avrò dalla Storia e da Dio. Chiedo perciò mi sia concesso di straniarmi nell'andamento di un processo che ha cessato di riguardarmi. I miei avvocati, solidali con me anche in questa ora, provvederanno a dar forma legale alla mia decisione. Io prego lei, Eccellenza, di dispensarmi dalla pena atroce di comparire: mi parrebbe, accedendo all'invito, di offendere la memoria stessa di Giacomo Matteotti, per il quale la vita era cosi terribilmente seria. Quella memoria nella e per la quale, e solo per educare i figli all'esempio e alla fierezza paterna, vivo ancora appartata e straziata. Con ossequio, VELIAMATTEOTTI 114 Nel Inarzo 1926, il processo si svolse esattamente secondo la messa in scena prestabilita. Il presidente della Corte limitò rigidamente l'interrogatorio degli imputati e dei testimoni al fatto del rapimento e dell'omicidio senza premeditazione, concedendo soltanto, sia ai testimoni che agli avvocati della difesa, di gettar fango sulla memoria del morto. Il pubblico ministero lasciò gli imputati liberi di sostenere la loro tesi di omicidio senza premeditazione, avendo cura di non produrre prove che potessero far naufragare tale linea di difesa. Il processo si risolse in una specie di "riunione di famiglia" tra gli 114 Matteotti: fatti e documenti, cit., p. 97. BiblotecaGino Bianco

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