Gaetano Salvemini - Scritti sul fascismo I

La dittatura fascista zn Italia Il metodo funzionava ancora nel 1926. Ecco quanto racconta la vedova di Pilati circa il processo: Coll'avvicinarsi del processo, cominciarono le pressioni e le minacce da ogni parte perché mi ritirassi dalla parte civile e negassi di aver riconosciuto l'Ermini. Ebbi nume– rose offerte di denari e favori di ogni genere. Ai miei sdegnosi rifiuti, venne ancora piu stretto attorno a noi il cerchio dell'ostruzionismo, per renderci impossibile la vita. Un giorno che ero alla Banca d'Italia, per ritirare la pensione di guerra di mio marito, un im– piegato mi informò che erano in corso le pratiche per concedermi una grossa pensione. Gli dissi che la domanda non partiva da me e che rifiutavo l'elemosina del governo, per– ché non volevo vendere il sangue di mio marito. [Fallito il primo attacco, strinsero ancor piu l'assedio intorno a noi cercando di rovinarci l'impresa che mio marito aveva costruito in tanti anni di lavoro. Ci· impedivano di assumere impegni di lavoro; ci fermarono il cre– dito delle banche, e cercarono di introdurre tra i nostri dipendenti degli estranei di dub– bia onestà; ci ostacolarono nella vendita degli stabili già costruiti. Per una ipoteca su di un terreno fabbricativo ci fu chiesto un interesse maggiore dell'rr per cento. Cercavano la nostra rovina. Perduta la loro seconda battaglia per la mia ostinazione, passarono alle minacce.] Nel febbraio del 1927, venne a trovarmi il signor Gavazzi Ottavio, che prima era un socialista fervente, ed ora è fascista. Mi disse che era stato mandato dai parenti dell'Ermini e dai fascisti del rione, in modo speciale dal Nesi, capo squadra della milizia. Essi lo avevano incaricato · di convincermi a smentire il riconoscimento dell'Ermini. Risposi che mi sarei fatta fare a pezzi piuttosto che tradire la mia coscienza. Il Gavazzi se ne andò, allora, dicendo che credeva che fossi piu ragionevole e che avrebbe riferito tutto ai fasci– sti: ad ogni buon conto mi avvertiva che badassi a quello che facevo perché mio figlio avrebbe scontato le conseguenze. Un mese piu tardi si presentò a casa nostra l'avv. Pacchi col colonnello Lanari. Questi due signori cercarono di convincermi con un mondo di buone parole e di tirate sentimentali, ad andare al processo senza avvocato, ritirare la costituzione di parte civile e parlare di pace e di amore, chiedendo l'assoluzione degli imputati dell'assassinio di mio marito. Cosi sarei stata innalzata a simbolo di tutte le madri italiane e i miei interessi si sarebbero immediatamente accomodati. Naturalmente risposi loro come doveva rispondere una donna fedele alla memoria del marito assassinato. Se ne andarono dicendo che in questo modo tutte le porte sarebbero state chiuse per me e i miei affari sarebbero andati in malora. Giungemmo cosi a pochi giorni dal processo. [Gli avvo– cati che avevo supplicato di occuparsi della mia causa avevano rifiutato. Accettò invece il giovane avvocato Tarchiani, sebbene a conoscenza dei guai ai quali sarebbe andato in– contro.] Mi avverti che era stato chiamato al Fascio e alla questura. Gli era stato detto che se mi fossi presentata al processo a Chieti, ci avrebbero riti~ati i passaporti. Capii che non mi sarebbero inoltre state risparmiate gravi violenze. Restando a casa, invece, entro 24 ore, avremmo avuti i passaporti e nessuno ci avrebbe molestato. Compresi che mi era impossibile recarmi al processo con l'avvocato. [Mi resi conto che il processo altro non doveva essere che una bolla di sapone.] Mi lasciai prendere dallo scoraggiamento e deli– berai di restarmene a casa [accettare i passaporti e andarmene appena possibile da un paese che era diventato per me fonte di disgrazie e di pena]. Mi posi a letto febbricitante e il dott. Bargellini rilasciò una dichiarazione che per cinque giorni non potevo muovermi dal letto. Saputa la decisione, ci vennero consegnati subito i passaporti: anzi il Questore mandò al mio letto il cav. Angiolucci per le pratiche necessarie, dichiarando che era a mia dispo– sizione per tutto quello che mi occorreva. Risposi che non domandavo altro che il rico– noscimento dei miei diritti. A Chieti intanto era cominciato il processo. Il 30 dello stesso mese di aprile mi giunse un avviso delle Assise di Chieti col quale mi si intimava di presentarmi al processo [altri– menti vi sarei stata condotta dai carabinieri]. Seppi poi che questo avviso era stato stilato "pro forma " e che non doveva venire nelle mie mani; mi era stato recapitato da un BiblotecaGino Bianco

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