Gaetano Salvemini - Come siamo andati in Libia

"Come siamo andati in Libia" e a/,tri scritti dal 1900 al 1915 tosi, indolenti; e tutti, particolarmente noi meridionali abbiamo il dovere di preoccuparcene, di prevedere, di studiare, di provvedere in tempo. I mali prevenuti e curati in tempo sono sempre meno gravi e dolorosi e piu facilmente. sanabili. . · E poiché, evidentemente, studi di tal natura, cosi vasti e complessi, non possono rimanere unicamente affidati alla limitata iniziativa dei privati, è necessario che ad essi soccorra l'intervento dello Stato, il quale coi piu forti mezzi di cui dispone e mettendosi da un punto di vista superiore agl'interessi parziali di regioni e di classi, può affidare ad una bene scelta Commissione di competenti lo studio del problema che noi qui abbiamo prospettato: dell'armonico, equo contemperamento degl'interessi del Nord con quelli del Sud, degli industriali e degli agricoltori, di fronte al nuovo stato di cose derivante dall'annessione tripolina. Solo cosi potrà farsi opera veramente, altamente patriottica, e si potrà provvedere aJ progresso di una piu grande Patria. G. CARANo-DoNvITo Preoccupazioni analoghe a quelle, che sono manifestate qui dal nostro amico, hanno ispirato alcune parti dell'articolo pubblicato dall'onorevole Cappelli Intorno all'ordinamento economico della nostra colonia di Tripoli su la Nuova Antologia del 1° dicembre 1911. L'on. Cappelli, partendo dalla ipotesi che "fra non molti anni gli italiani stabiliti in Tripolitania e in Cirenaica ammonteranno ad alcuni milioni," e che subito "aperta che sia la colonia, diecine, forse centinaia di migliaia di contadini vi accorreranno per coltivare la terra per conto proprio o altrui," osserva che essi com'è naturale, incominceranno a fare le coltivazioni alle quali sono abituati: vigna, agrumeto, innesto dei tanti oliveti selvatici esistenti, ecc.; sicché dopo pochi anni una quantità ingente di vino, di agrumi, di olio si produrrebbe; e poiché il consumo di questi prodotti non è possibile che cresca nella colonia in proporzione della produzione, noi forzatamente, se non avessimo difesa daziaria reciproca, andremmo incontro ad una terribile· crisi agraria, la quale, col precipitare dei prezzi, rovinerebbe i nostri e i coltivatori della colonia. Cioè occorre stabilire in Italia dei dazi, i quali impediscano ai prodotti agricoli tripolini di invadere l'Italia e determinare una nuova crisi nell'agricoltura italiana; e occorre stabilire nella colonia altri dazi, che impediscano ai prodotti della madre patria di invadere la colonia, e di rendervi impossibili le trasformazioni agrarie. Barriere protezioniste, dunque, da tutte le parti: contro di noi, a favore di noi, contro la colonia, a favore della colonia, contro tutti, a favore di tutti. L'ipotesi, da cui nascono le preoccupazioni ed è suggerito questo genere di grotteschi rimedi, è quella che la Tripolitania sia un paese naturalmente fertilissimo, e che non appena andati via i turchi, sarà invasa da stuoli infiniti di coltivatori italiani, i quali in pochi anni allagheranno il mondo coi loro prodotti. Ora, dato che questa ipotesi non sia fantastica, noi non riesciamo a vedere in che cosa la meravigliosa espansione economica della colonia danneggerebbe l'Italia in genere e l'Italia meridionale in ispecie. 146 BibliotecaGino Bianco

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