Gaetano Salvemini - Stato e Chiesa in Italia

Stato e Chiesa in Italia da Pio IX a Pio Xl "prudenti quanto dignitose eccezioni," quando le intese con altri partiti fossero "mezzo unico e necessario ad impedire il trionfo di programmi con– trari sf ai prindpi religiosi come all'ordine sociale."' Alla Settimana sociale seguf l'Osservatore romano, 27-28 settembre 1920. Esso riprodusse le parole del confratello e le interpretò come un "consiglio ai cattolici di preoccuparsi tempestivamente e seriamente di situa– zioni che, per complessi problemi morali e religiosi, non potevano essere con– siderate e affrontate con esclusivi concetti politici e tattici." Il giornale conchiudeva invitando i dirigenti del partito popolare "ad uno spassionato quanto libero esame di alcune specialissime condizioni locali," e a tener presente che, "di fronte a interessi superiori religiosi e civili, quelli politici e particolari di un partito [dovevano], specie in momenti di eccezionale gravità e in casi di riconosciuta ed utile efficacia, non tanto sacrificarsi, ma cercare di coordinarvisi." È da escludere che la Settimana sociale e l'Osservatore romano sareb– bero intervenuti nella discussione in quel modo, se non avessero ricevuto un ordine dal cardinal Gasparri. La Settimana sociale era l'organo dell'Unione popolare, che a sua volta dipendeva ufficialmente dalla Santa Sede (vedi p. 214); e degli articoli a contenuto politico e dottrinario che escono sul– l'Osservatore romano, è noto che debbono essere sempre letti e autorizzati in precedenza dal segretario di stato. L'attitudine ·dei due giornali nella discussione dell'estate 1920 era il segno sicuro che una nuova aria cominciava a spirare dal Vaticano contro il partito popolare: la "ignoranza" ufficiale dei primi tempi cominciava a cedere il terreno ad una fosse pur cauta ed officiosa ostilità. Le ragioni del mutamento si debbono ricercare non solo nella inquietu– dine che la tattica elettorale del partito popolare provocava negli elementi piu conservatori del mondo cattolico. ma anche nelle gravi difficoltà finan– ziarie, in cui si dibatteva allora il Vaticano, e nelle piu gravi che gli si annunziavano. Al tempo di Leone XIII, le spese della Santa Sede ammontavano a circa 7 milioni all'anno, che erano largamente coperti dall'obolo di san Pietro, dagli interessi di capitali investiti in titoli pubblici e privati e da altre entrate (collazione dei titoli di nobiltà, dispense matrimoniali, ecc.). L'obolo di san Pietro, a cui i cattolici francesi contribuivano per due terzi, rese, nei primi tempi di Leone XIII, fino a 10 milioni annui; in occasione dei giubilei del 1886 e del 1893, il papa ricevé brevi manu circa quaranta milioni di offerte. Inoltre Pio IX aveva lasciato al suo successore 30 mi– lioni di economie. Leone XIII si procurò fama di avarissimo perché ridusse le spese con inflessibile volontà e tesaurizzò piu che poté. Ma investi nelle speculazioni edilizie della città di Roma quasi tutte le economie ereditate da Pio IX e quelle accumulate da lui stes;o. Mentre protestava che Roma 7 Dal n. 17 della "Settimana sociale," quale lo riporta "L'osservatore romano," 27-28 settembre 1920. [N.d.C.] 248 BibliotecaGino Bianco

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