Una città - anno V - n. 45 - novembre 1995

Ledifficoltà di una decollettivizzazione dell'agricoltura attuata dall'alto, senza alcun riguardo per una realtà complessa, sedimentata in decenni. Il rigetto, spesso, di modelli trapiantati. Una cooperazione allo sviluppo che spesso si preoccupa solo dello sviluppo della cooperazione stessa. Il rischio di privilegiare solo le zone fertili. Intervista a Andrea Segré. Andrea Segré, ricercatore di Economia e Politica Agraria ali' Università di Bologna, dal 1990 è il rappresentante italiano presso il Gruppo ad hoc sulle Relazioni Economiche Est-Ovest in agricoltura del/'Ocse. Recentemente ha pubblicato i saggi: La rivoluzione bianca; processi di decollettivizzazione agricola in Russia, Cina, Paesi Baltici e Albania ( li Mulino, 1994) e Agricoltura e società in economie . dinamiche. Saggio sugli stimoli e adattamenti da recessione e da espansione. Il caso albanese. ( Franco Angeli, 1995). Nei paesi dell'est nella transizione verso l'economia di mercato com'è stata affrontata la privatizzazione dell'agricoltura? Innanzitutto direi che più che di privatizzazione vera e propria sia più appropriato parlare di de-collettivizzazione dell'agricoltura. Il processo attualmente in corso è in una fase intermedia: fine della collettivizzazione ed inizio della privatizzazione. Però, è meglio procedere con ordine. Nel passaggio al nuovo modello dt economia di mercato, i paesi a pianificazione centralizzata hanno perduto ciò che caratterizzava la loro specificità sistemica e sono diventati dei nuovi paesi in via di sviluppo.Così, infatti, li definisce il Fondo Monetario Internazionale. In questo senso possiamo dire che la transizione appartenga già alla storia, anche se è giusto rimarcare che sul presente continuerà a pesare l'eredità storica del socialismo reale. Quest'ultima considerazione, così ovvia, è importante perché, in realtà, il rischio più grave nell 'affrontare questo passaggio è che si affer• mi una tendenza a dimenticare il patrimonio di conoscenze accumulato dagli studiosi dei sistemi economici pianificati e a credere, nello stesso tempo, che il trapianto del modello occidentale possa avere automaticamente successo. Si trascurano due fatti importanti: il primo, è che nessun paese ha un modello perfetto, la maggior parte delle democrazie capitalistiche ha fatto degli errori in materia di politica economica ed agraria. In altre parole i paesi sviluppati non sembrano avere dei modelli meritevoli di essere clonati altrove. li secondo motivo è che le politiche e le istituzioni subiscono un' evoluzione che le adattano a un preciso ambiente economico e agricolo. Se trapiantate, può accadere che vengano rigettate dall'organismo che le accoglie, semplicemente perché incompatibili con il substrato costituito dalla società civile. Quindi, non sorprende che dopo una veloce partenza il processo di decollettivizzazione agricola, pur se in tempi e modi diversi a seconda del paese, abbia subìto un certo rallentamento. Le ragioni di questa generalizzata decelerazione risiedono oltre che nel progressivo esaurirsi della spinta propulsiva dei movimenti nazionalistici, nei numerosi ostacoli di diversa natura che la rifornia agraria ha via via incontrato. Ostacoli di natura istituzionale, giuridica, amministrativa, economica, politica e sociale, dovuti al fatto che, nella fase di transizione, istituzioni e comportamenti economici e sociali tipici dei sistemi agricoli B socialirti son, ancora vivi. Anche se è difficile stabilire un ordine di importanza, essendo i vari aspetti intimamente collegati fra loro, i problemi comuni a tutti i paesi dell'ex blocco sovietico sono riconducibili alla mancata definizione dei dirilli di proprietà, all'atteggiamento sostanzialmente negativo nei confronti dell'attività individuale o privata da parte di diverse categorie sociali della popolazione, alla generalizzata carenza ·quantitativa e qualitativa dei mezzi tecnici di produzione agricol-a,alla mancanza di infrastrutture e servizi atti a supportare le neonate aziende individuali o private, alla stretta dipendenza, non solo di natura economica, delle aziende individuali rispetto alle ex aziende collettive e statali. Sembra che questi paesi debbano subire per forza un modello che viene dall'esterno. La democratizzazione potrà permettere a questi popoli di esprimere un proprio modello di sviluppo? Non lo credo. Avendo profonde radici nel periodo antecedente il 1917 la formalizzazione del modello sovietico in agricoltura riflette in effetti un lungo processo evolutivo caratterizzato dall'adozione di molteplici soluzioni. Il loro fallimento ha però una matrice comune: la volontà di trasporre, senza alcun riguardo per le condizioni del tutto peculiari del paese e per di più imponendoli dall'alto, modelli economici e sociali presi a prestito da ideologie o esperienze esogene, prevalentemente dal mondo occidentale. perché gli esperti stranieri falliscono? I modelli così trapiantati sono stati via via rigettati e l'effetto delle operazioni è stato quello di azzerare, in modo più o meno evidente, gli equilibri del settore agricolo, il quale ha subìto vari e talvolta traumatici adattamenti. ln realtà questa risulta essere un 'interessante chiave di lettura per comprendere le principali fasi storiche della Russia prima, dell'Urss poi, fino alla dissoluzione dell'Unione. Così l'emancipazione dei servi della gleba nel 1861 segna il cosiddetto modello malthusiano, cioè la necessità di un adattamento tra la popolazione contadina e la superficie che questa coltivava; la prima rivoluzione e la riforma agraria del 1905 corrispondono al modello incompiuto di Stolypin, ovvero la necessità di rinforzare, mediante l'accesso alla proprietà individuale, una classe di piccoli proprietari, fedeli poi, in definitiva, all'autocrazia zarista; poi la rivoluzione del '17 e la Nep, Nuova Politica Economica, corrispondono in parte al modello marxista per cui il progresso dell'agricoltura doveva prendere come riferimento quello dell'industria, cosa che implicava il passaggio della concentrazione del lavoro da piccole aziende familiari a grandi aziende di lavoro collettivo e meccanizzato e in parte corrispondeva al modello inespresso di Ciajanov, cioè la riorganizzazione dell'economia contadina su base familiare. La collettivizzazione alla fine degli anni '20 si identifica ancora con il letti va, il kolchoz, strumento e simbolo della rivoluzione agraria sovietica, svolge il ruolo di compromesso tra l'obbiettivo cui si mira, cioè il sovchoz, l'azienda statale, e la realtà contadina di partenza. Poi, ancora, abbiamo l'industrializzazione a tappe forzate nel dopoguerra che porta negli anni '70 a quello che si potrebbe definire il modello agro-industriale, cioè I'integrazione agricoltura-industria mediante l'adozione di un approccio sistemico che non vede più l'agricoltura separata dai suoi fornitori a monte e dai suoi utilizzatori a valle. E infine, da ultimo e sempre di origine non autoctona e imposta dal!' alto, la rivoluzione gorbacioviana della seconda metà degli anni '80con l'introduzione di alcuni elementi caratteristici nell'organizzazione agricola dell'economia di mercato. Non vedo come quest'ultima soluzione, la settima in ordine cronologico, che rappresenta il primo passo verso un modello mercantile, possa avere successo al la luce delle esperienze passate. I problemi economici e sociali in cui si dibatte attualmente la Russia di Eltsin ne sono la prova. Lei ha definito il fenomeno della transizione come "la rivoluzione bianca"? E' stato veramente un processo popolare, spontaneo? Si è trattato di qualcosa di diverso e soprattutto di differenziato a seconda del paese. l casi di decollettivizzazione agric,ola che ho vissuto attraverso l'esperienza diretta mi hanno permesso, da un lato di stilare una sorta di classificazione che identifica il modo e l'intensità con cui si è sviluppato il processo stesso e, dall'altro, di verificare le condizioni grazie alle quali questo è stato portato a termine con un certo successo. Così, in Russia la decollettivizzazione agricola è stata un processo forzato, frenato, rispettando in questo quindi la tradizione di adozione di modelli esogeni imposti dall'alto. In Cina, invece, dove la spinta è partita essenzialmente dal basso e sono stati introdoui elementi non esterni alla cultura contadina locale si è trattato di un processo spontaneo e accelerato. In Albania il processo, ribaltando il concetto ciajanoviano della samo-kollektivizacija, è stato una sorta di auto-decollettivizzazione spontanea e accelerata. li caso dei paesi dell'area baltica, pur con qualche diversità da paese a paese, rappresenta infine un grado intermedio di decollettivizzazione, trattandosi di un processo accelerato-frenato, anche se essenzialmente regolato dall'alto. Ecco, le condizioni che si devono realizzare affinché la decollettivizzazione abbia successo sarebbero in definitiva tre, di cui due riferite al modo e al! 'intensità del processo, l'altra rappresentata da un fattore interno al sistema da modificare. La prima è che la spinta verso la decollettivizzazione agricola sia spontanea, parta dal basso: le leggi devono seguire immediatamente l'evoluzione di questo processo, ratificando o regolamentando dall 'alto una situazione già in atto. La seconda è che gli elementi introdolti dal! 'esterno, oltre a dover essere assimilati gradualmente, debbano essere soltanto quei pochi che la cultura contadina è in grado di recepire: si tratta in altre parole di ristabilire, pur se in chiave più moderna, tradizioni mercantili che solitamente già esistono. La terza condizione è che la tecnocrazia agraria abbia delle adeguate incentivazioni, offrendo a questi gruppi condizioni particolarmente favorevoli per intraprendere l'auività individuale, non solo perché le dirigenze delle ex aziende collettive e statali sono le più preparate nel senso che conoscono bene il processo di produzione e sono meglio collegate a monte e a valle della stessa, ma soprattutto perché, favorendole, si va a rimuovere un importante ostacolo al processo di riforma. Anche se non si può generalizzare, chi ha bloccato maggiormente la riforma agraria nei paesi del!' ex socia Iismo reale è stata proprio la nomenklatura, la tecnocrazia agraria. La politica degli aiuti internazionali ai paesi dell'ex blocco socialista sta perdendo credibilità. Gran parte delle risorse stanziate sembrano disperdersi tra i meandri della corruzione che imperversa negli apparati locali. La mia opinione è che qualsiasi intervento non deve risultare avulso dalla realtà in cui si sta operando. Mi spiego meglio dicendole innanzitutto che sulla necessità di adottare nuove forme di cooperazione allo sviluppo sembra esserci un accordo comune, in primis da parte delle Nazioni Unite. Tra queste nuove forme ci sarebbe ad esempio l'allargamento dei flussi del!' assistenza ufficiale allo sviluppo degli investimenti privati, lavoro, commercio, finanza e soprattutto la liberalizzazione del commercio dei prodotti agricoli. In realtà, però, quando gli economisti in visita operano sul campo, per consigliare gli \nterventi dicooperazione allo sviluppo, spesso falliscono nel loro compito. Mi sto riferendo, anche nella terminologia, al vecchio dibattito aperto all'inizio degli anni '60 dal noto articolo di Sears, un economista inglese, Why visiting economistsfai/, che fu pubblicato sul Journal of Politica/ Economy nel '62, che trattava dei paesi in via di sviluppo cercando di far capire per quale motivo gli economisti che li visitavano, e li consigliavano, fallivano. tutti gli interventi localizzati nella stessa zona Questo è un problema che si sta riproponendo negli stessi termini oggi nelle cosiddette economie in transizione. li fallimento di questi esperti è da imputare, oltre a meno nobili motivi che non voglio neppure elencare, alla non conoscenza della realtà locale in cui intervengono e in particolare alla proposizione di soluzioni che all'atto pratico risultano inapplicabili. Nei paesi in transizione dal piano al mercato, per usare questo tenni ne che scientificamente non è molto corretto, ma rende bene l'idea di questo passaggio, le politiche e le istituzioni ereditate dalla passata organizzazione economico-sociale non sono state ancora rigettate completamente dalla società civile, né sembra ragionevole pensare di trasformare totalmente un sistema, consolidatosi per un periodo piuttosto lungo, nell'arco di pochi mesi. Così non ha senso, tra gli innumerevoli esempi che le potrei citare, che gli esperti di un'importante agenzia internazionale suggeriscano in Albania una "riforma" della riforma agraria senza tenere conto che nelle aree rurali, in particolare nelle zone interne e montagnose, è ancora in vigore la legge della montagna, il Kanum, un diritto consuetudinario tramandato a memoria d'uomo e profondamente radicato nelle coscienze tanto da essere in molti casi ancora pienamente rispettato. Il che rende vana l'applicazione di qualsiasi misura legislativa imposta dall'alto, cosa puntualmente avvenuta. Oppure, mi viene in mente il caso di esperti inviati da un 'altra agenzia internazionale che suggerivano al governo albanese di ricostituire delle cooperative agricole. Ma considerando che la struttura fondiaria dopo la decolle1tivizzazione è risultata estremamente frazionata in piccoli appezzamenti dell 'ampiezza di circa un ettaro, ha senso riproporre delle cooperative quando il solo termine suscita un comprensibile senso di disagio nei neocoltivatori individuali appena affrancati dalla collettivizzazione? Allora, generalizzando, ogni intervento dovrebbe essere necessariamente fondato su un metodo di studio preliminare che tenga conto dell'influenza delle tradizioni e della storia su un dato modo di produrre, di allocare le risorse e di distribuire poi il reddito fra i fattori della produzione. Così diventano componenti di primaria importanza, oltre agli aspetti economici, anche l'ambiente geografico, le istituzioni politiche, la cultura come espressione di civiltà e la storia della società. Ecco, io cerco di lavorare in questo modo. Sto tentando di mettere a punto un metodo di studio che mi pennetta di applicare in modo scientifico questo approccio. E lo posso fare grazie ali 'esperienza di "consigliere" nei paesi in transizione. Quella albanese è una delle realtà che lei ha avuto occasione di osservare meglio. Cosa potrebbe fare in proposito la cooperazione internazionale e in particolare quella italiana, considerando la vicinanza e i tradizionali legami storici e culturali? Probabilmente si potrebbe fare molto. Tuttavia c'è un limite che è posto proprio dalla stessa cooperazione. Lo dico con un gioco di parole, ma sembra che in Italia, come anche in tutti gli altri paesi industrializzati, si intenda la cooperazione allo sviluppo più che altro come sviluppo della cooperazione. Il vero fine degli interventi sembra quello di favorire direttamente o indirettamente il paese che dona piuttosto che quello che riceve. Esistono infiniti esempi a questo proposito. E' una storia nota. Tornando al!' Albania e in particolare agli interventi in atto da parte dell 'Italiaedellacomunità internazionale vorrei fare alcune osservazioni che si basano sulla mia esperienza diretta. In effetti, la maggior parte degli interventi risulta localizzata nella stessa area geografica, quella di pianura irrigua, laddove, cioè, esiste il maggior potenziale economico-agricolo del paese. In queste aree l'auspicabile buon esito degli interventi programmati dovrebbe portare, almeno teoricamente, ad uno sviluppo agricolo piuttosto veloce. Se da un lato ciò è perfettamente coerente con gli obbiettivi del governo albanese e della cooperazione internazionale, dall'altro potrebbe fare insorgere una serie di problemi di carattere politico, economico e sociale legati soprattutto a fenomeni di esodo agricolo e rurale. L'introduzione di nuove tecnologie, la disponibilità di capitali aggiuntivi e maggior preparazione professionale dei lavoratori porteranno col tempo a dei miglioramenti in termini di produllività della terra, del lavoro e del capitale e alla necessità di ampliare la maglia aziendale riducendo conseguentemente la manodopera. Se per l'Albania questi non sembrano problemi da affrontare nel breve periodo -non esiste ancora un vero e proprio mercato fondiario, l'affitto della terra non è stato regolamentato, il credito agrario è più teorico che pratico- è probabile tuttavia che essi si pongano nel periodo medio-lungo e pertanto vanno tenuti in seria considerazione. Anche perché nelle economie in sviluppo l'esodo agricolo è in realtà un fenomeno fisiologico inevitabile, ma auspicabile, e comunque entro certi limiti, nella misura in cui esistono altri settori capaci di occupare la manodopera fuoriuscita dal! 'agricoltura, il che non è nelle possibilità attuali dell'Albania. D'altra parte nelle aree dove gli interventi di cooperazione sono modesti o addirittura nulli, in particolare nelle zone marginali, collinose e di montagna, si potrebbe assistere, e in parte ciò sta già accadendo, a fenomeni di esodo collinare e montano, o più precisamente di abbandono. Tali fenomeni, circoscritti non solo alle zone montane più alte, più povere, creano notevoli preoccupazioni di varia natura: si pensi alle bidonville sorte attorno alla capitale e vicino ai centri urbani più importanti, ai problemi di degrado urbano causati dal l'inurbamento, agli aspetti negativi per l'assetto idro-geologico e al degrado ambientale provocati dalla non conservazione di boschi e pascoli nelle aree abbandonate. E' troppo facile il parallelo che si potrebbe fare con quanto succede dopo ogni estate nel Nord Italia. l'importanza di microimprese rurali Inoltre, la non utilizzazione di certe aree marginali dove sono ancora presenti pascoli o prati naturali, in realtà si profila come sperpero di una risorsa e quindi come una perdita economica, il cui verificarsi appare oggi in Albania non solo fatto economicamente negativo, ma anche grave poiché coincidente con una bilancia commerciale agricola fortemente deficitaria soprattutto a causa delle notevoli entità di importazioni zootecniche, cioè di prodotti che potrebbero essere conseguiti utilizzando per l'appunto quella produzione spontanea. Tutto ciò non significa che sarebbe opportuno limitare le risorse destinate allo sviluppo agricolo delle aree fertili, anzi gli interventi vanno incoraggiati e soprattutto seguiti, però, dovrebbero soddisfare delle condizioni fondamentali di complementarietà e coordinazione fra le agenzie internazionali, le varie cooperazioni governative e le organizzazioni non governative. In realtà basta andare sul campo e verificare i progetti in corso per osservare che molte organizzazioni lavorano sullo stesso problema. Però, bisogna comunque tenere in conto l'opportunità, nei limiti delle risorse disponibili, di intervenire anche nelle aree marginali della collina e della montagna. In questo contesto, per esempio, si potrebbe inquadrare I'utilizzazione di ovini e caprini che costituiscono una parte importante del patrimonio zootecnico albanese, sia dal punto di vista tecnico-economico che socio-ambientale. Poi si potrebbero prevedere concessioni di crediti su piccola scala per gli abitanti dei villaggi, al fine di sviluppare micro-imprese rurali. Poi si potrebbe lavorare al riordino della gestione delle aziende forestali statali e delle aree si Ivo-pastorali e così via. Per concludere, dopo le tragedie del comunismo questi popoli riceveranno qualche vantaggio dal capitalismo? La parziale adozione del modello economico occidentale dominante per il momento ha portato solo a iniquità di ogni tipo. Queste, beninteso, c'erano anche prima, ma i nostri vicini orientali si erano illusi, a torto, che l'economia di mercato fosse una sorta di parola magica: bastava pronunciarla e tutto si sarebbe sistemato. Non è andata così e non andrà così neppure in futuro. -

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