Una città - anno V - n. 45 - novembre 1995

Quel primo giorno, in giro col cane. Poi quei tre spari, la città che comincia a morire, la fatica quotidiana degli anziani, gli amici scomparsi e quelli che sono cambiati, e un tunnel tristissimo. La gran festa la sera del rombo degli aerei Nato. Intervista a Senka Trolic. Senka Trolic,20anni,di Sarajevo, ora studia in Italia. Si sono ubriacati. Che sappia io è la prima volta. Anche la mamma me l'ha detto: "Per una volta, in una occasione come questa, si può fare, cosa ne dici?" E io ho detto che hanno fatto bene. Chi non ha provato la vita di Sarajevo in questi quattro anni non può capire cosa sia stato sentire il rumore degli aerei che finalmente vengono a liberarti. E i miei genitori e i loro amici hanno bevuto, hanno brindato, pur sapendo che l'incubo non è ancora finito. Me l'hanno raccontato, ma è come se ci fossi stata anch'io. lo invece ero in Italia, dove sto studiando alla facoltà di lingue per diventare interprete. Sto bene, ma per noi di Sarajevo ormai la felicità è sapere che i propri genitori, i propri fratelli sono ancora vivi. Per gli amici, purtroppo, siamo abituati al peggio: tutti abbiamo avuto degli amici uccisi. Spesso penso che quando tutto finirà li rivedrò scendere dal quartiere olimpico, dove abitavo da bambina, fino in centro, come succedeva pochi anni fa. Invece non ci sono più. La mia vita era ideale: i miei stavano bene, avevo tutto quello che volevo,· sognavo solo di avere 18 anni per fare l'esame di guida, la mia famiglia era unita, avevo tanti amici e anche con loro non avevo problemi. Ovviamente non sapevo e non mi interessava sapere se erano serbi o croati o mussulmani. Non sapevo nemmeno cos'ero io, l'ho dovuto chiedere a mia madre, ma a dire il vero non lo so neppure adesso cosa sono: lei è mussulmana ma non è mai andata in una moschea, mio padre è figlio di un croato e di una serba. Cosa sono? Sarajevo era bellissima: ci piaceva molto andare nella città vecchia, nelle stradine piccole si incontrava un sacco di gente. Poi si è cominciato a parlare della guerra, io non ci credevo, non ci sembrava possibile che potesse accadere anche in Bosnia. Mia madre era uscita dal partito comunista due anni prima della guerra: diceva sempre che l'idea era giusta, ma non le piaceva la gente che la metteva in pratica. Nel primo giorno di guerra -ma allora non lo sapevamo- siamo andati davanti all'Holiday lnn ad una manifestazione contro i partiti nazionalisti, però ci sembrava più che altro un'occasione per incontrarsi fra amici, c'erano anche tanti professori della scuola, io mi ero portata il cane. La professoressa di fisica mi ha detto: "Giovedì ti interrogherò, sei pronta?". Questo accadeva il lunedì. Poi hanno cominciato a spararci: mia madre è stata presa dal panico perché non sono rimasta ferita solo grazie ad un signore che mi ha tirato per una mano. Non sapevamo proprio chi poteva spararci, ci siamo nascosti e abbiamo visto i cecchini, tre sul palazzo dell'Holiday, due in un palazzo vicino. Siamo andati al ponte di Vrbanja -in quella che sarebbe diventata la linea del fronte- e dove è morta la prima vittima della guerra, una ragazza: lì abbiamo capito che cosa stava succedendo, fino ad allora ci sembrava un sogno. Mia madre ed io siamo scappate a casa: mi ha fatto impressione vedere che per strada non c'era più nessuno, tutti erano chiusi in casa, c'era solo una macchina della polizia. In giro si diceva che la polizia si era divisa e non si sapeva più quale era la polizia serba, che ci sparava, e quale la nostra. Quando abbiamo visto quella macchina ci è venuto istintivo cercare di nasconderci in un cortile, ma la porta era chiusa. Per fortuna la macchina era dei nostri e abbiamo tirato un sospiro di sollievo. A casa papà era preoccupatissimo, non era voluto venire con noi perché non gli piacciono le manifestazioni. Alla sera in televisione abbiamo sentito che la guerra stava cominciando, che diventava pericoloso girare per strada e che si doveva stare in casa. Io ancora non volevo crederci ed infatti il giorno dopo siamo andate ancora davanti all'Holiday. I cecchini sull 'Holiday erano stati presi subito, gli altri no. Non eravamo tanti come il giorno prima e quando di nuovo abbiamo sentito degli spari siamo corse a casa. li terzo giorno la mamma è tornata davanti all'Holiday, ma non mi ha voluto con sé. Io comunque la sera continuavo ad uscire per andare nella città vecchia: ancora non c'era il coprifuoco, lì non si sparava. Ma nel giro di pochi giorni Sarajevo ha cominciato a morire al tramonto. Uscivamo abbastanza tranquillamente di pomeriggio, ma alle cinque dovevamo essere in cantina, perché con la sera cominciavano i bombardamenti. Quel periodo me lo ricordo tutto sommato come abbastanza interessante: si poteva ancora incontrare un po' di gente in giro, i tram funzionavano. A scuola le lezioni erano state interrotte. Poi i bombardamenti non hanno più aspettato il tramonto, così non uscivamo più: maggio, giugno e luglio del '92 sono stati mesi brutti. Mi sembrava di impazzire, non potevo più uscire di casa: appartamento e cantina, cantina e appartamento, un quarto d'ora al massimo davanti al palazzo a prendere un po' di aria, di sole; per scaricarmi facevo degli esercizi di matematica, però ero preoccupata. I miei genitori continuavano ad andare al lavoro. Papà aveva perso un impiego poco prima della guerra, perché lavorava per un'industria farmaceutica slovena che aveva licenziato tutti i dipendenti bosniaci, ma lavorava anche per conto suo, aveva un negozio di prodotti B per parrJJCChieri. Laramma CO tinuava a lavorare i~ una fabbrica di medicinali. lo facevo la baby sitter anche per i figli degli amici dei miei genitori, che così andavano a lavorare più tranquilli. Cercavamo di passare il tempo allenandoci con l'inglese o giocando al computer, questo quando c'era ancora l'elettricità. Nel nostro condominio eravamo dieci famiglie: andavamo tutte molto d'accordo tranne una, che quando è iniziata la guerra ha cominciato a farsi gli affari suoi e non ha partecipato alle decisioni comuni né alle spese comuni, come fare la tubatura d'emergenza per il gas. Ognuno faceva quello che poteva per aiutare gli altri. Una parrucchiera che aveva il salone al primo piano lavorava gratis per noi, mio padre le dava gratis i prodotti, la mamma portava le medicine per tutto il palazzo. Eravamo tutti mescolati: serbi, croati, una famiglia ebrea, mussulmani. La metà, forse più, erano famiglie miste, come la mia. Ci si aiutava tutti. Anche adesso il nostro appartamento non è mai chiuso a chiave ed è il punto di ritrovo di tutti: entrano ed escono, non bussano neanche più, ci si trova lì a raccontarsi quello che succede e mia madre ha consigli per tutti. li primo amico che ho perso è stato ucciso da una granata che ha colpito la sua macchina mentre trasportava in ospedale dei bambini feriti in un asilo bombardato. Un altro mio amico, vicino a lui, si è salvato perché si stava allacciando una scarpa ed era chinato in avanti. E' rimasto comunque paralizzato. Dovevo partecipare anch'io, ma la mamma non mi aveva lasciato andare e io c'ero rimasta male ... Siamo poi andate al funerale ed anche lì ci hanno sparato. Il 2 maggio hanno bombardato la nostra casa: noi eravamo tutti in cantina. lo, stanca di stare lì, ero salita al piano terra, a casa di una famiglia serba, -ci trovavamo spesso anche lì, pensando che a pianterreno era comunque difficile essere colpiti. Stavo tornando in cantina a prendere una giacca, quando ho sentito l'esplosione. E' stato terribile, sembrava che tutta la casa dovesse crollarmi addosso; sono scesa giù di corsa, aspettandomi gli altri colpi, dato che le granate erano sempre tre e per le scale ho incontrato un amico che abitava al secondo piano e che correva a vedere se era stato colpito il suo appartamento: è arrivata la seconda granata, e lui che pesa circa 100 chili mi è caduto addosso. Al primo piano abbiamo visto che l'appartamento della famiglia ebrea era completamente distrutto. Era pieno di mobili antichi, di valore. Tra il 2 e il 5 maggio è stata distrutta la Biblioteca di Sarajevo. Immagina come era dura stare per una settimana in cantina, senza luce, con dei cartoni per terra e delle coperte, dovevamo mangiare e dormire lì. Certo è servito anche per conoscere meglio i vicini di casa! Un giorno che non sparavano sono anche uscita e ho visto la città, tutta distrutta! Mi sembrava di vivere in un incubo, speravo di svegliarmi, ma i giorni passavano e io non mi svegliavo. Avevo paura anche di telefonare ai miei amici, di avere brutte notizie e ho deciso di non telefonare più. Stavo con un ragazzo, all'inizio della guerra, ogni tanto a lui telefonavo, gli avevo detto che sarei partita, l'ho sentito ancora qualche volta; finché una volta mi ha risposto sua sorella e mi ha detto che era morto. Sono uscita da Sarajevo alla fine di luglio del '92 e ci sono ritornata alla fine di luglio del '94, non pensavo ancora che ci sarebbe stata la pace, ma neanche pensavo che sarebbe stato come prima. In Italia stavo bene, ma non ero a casa mia. Mia madre era venuta a trovare me e mio fratello, i rapporti fra me e lei erano diventati molto difficili, io non riuscivo più a parlare con lei come prima, mi aspettavo che fosse venuta a prendermi, mentre lei non voleva che tornassi a Sarajevo perché sapeva che era ancora presto. Io la trattavo male, lei non capiva e piangeva: ero cambiata molto in quei due anni, mi sentivo ormai in grado di gestirmi da sola e non accettavo imposizioni, mi ero organizzata la mia vita, con la scuola, gli amici, andavo anche in Svizzera da sola per poter telefonare a casa, perché da lì ci si riusciva. Nello stesso tempo, però, volevo assolutamente tornare a Sarajevo. Allora lei ha ceduto, ma voleva che mio fratello rimanesse in Italia, presso una famiglia di Gorizia. Io ho detto "non ci penso nemmeno, mio fratello deve venire con me" e così siamo tornati tutti a Sarajevo, dove sono cominciati i problemi. Mio fratello aveva 13 anni, i bambini della sua età che erano rimasti a Sarajevo durante la guerra erano cresciuti, sì, ma nello stesso tempo erano rimasti più bambini nel modo di pensare, non erano più andati a scuola, non avevano più contatti con il mondo, mio fratello non riusciva più a rapportarsi con loro. Ero preoccupata, perché si era chiuso, non parlava, vedevo che stava male. Io invece avevo ritrovato i miei amici, pensavo di fare tante cose con loro, abbiamo anche fatto un giornale, volevo organizzare dei corsi di lingue straniere, io avrei voluto insegnare loro l'italiano, ma ci voleva un permesso delle autorità. In autunno mi sono iscritta ali' Università, a Farmacia, e ho cominciato a studiare per prepararmi agli esami. Ad aprile cli quest'anno sono ricominciati i bombardamenti, io avevo paura, anche adesso ho paura dei tuoni, sto sveglia anche tutta la notte. Avevo due amiche, conosciute ali' Università, con le quali studiavo. Erano mussulmane, a loro piaceva molto lzetbegovic, il nostro presidente. Adesso una di loro esce con un ragazzo croato, ma alla sua mamma dice che esce con un mussulmano. Siccome io a volte ero contraria ad lzetbegovic hanno cominciato ad evitarmi, e questa cosa mi ha fatto stare male, ci ho anche pianto, perché ero abituata ai miei amici, così aperti, coi quali andavo d'accordo, ed ero stata contenta di conoscere queste due ragazze, di farle entrare nel mio giro di amicizie. A Sarajevo non c'è una situazione di pressione religiosa, anche se le moschee adesso sono piene. Però ogni tanto avvengono episodi che danno fastidio: papà s'è fatto buona parte della guerra nelle trincee attorno a Sarajevo come altre migliaia di serbi e di croati e quando alle truppe hanno proiettato un filmato che iniziava con il titolo Allah Ak'bar lui, che non è mussulmano,c'è rimasto male. C'è un detto da noi che suona così:" Fai attenzione ad un ago e ad un mussulmano neonato". Ad esempio, in certe occasioni le associazioni islamiche locali o arabe davano 50 DM a chi andava alla moschea; la mia mamma guadagna 5 DM al mese e non ha da mangiare, però non c'è andata. Noi avevamo una casa a Pale, bellissima, di tre piani, negli ultimi tempi non ci andavamo spesso, solo qualche fine settimana; mio padre aveva lì anche il suo laboratorio per la preparazione degli acidi per la permanente. C'era andato anche il sabato prima della guerra, e sembrava tutto così normale che aveva deciso di fermarsi lì a dormire. Poi, per fortuna, ha cambiato idea ed è tornato a Sarajevo, altrimenti ora sarebbe ancora là. Quando è cominciata la guerra noi non sapevamo che fine avrebbe fatto la nostra casa, ma c'era la possibilità, così speravamo, che nessuno la toccasse perché mio padre è per metà serbo. Abbiamo telefonato ad una nostra vicina di casa, a Pale, una brava persona, serba, per chiederle della nostra casa. Lei ci ha detto che era andata in municipio, aveva litigato con tutti, aveva riferito che mio padre era serbo, ma non c'era stato niente da fare: la nostra casa era stata assegnata a dei serbi provenienti da Sarajevo. li giorno dopo mia madre ha voluto telefonare a questa famiglia: nella nostra casa di Pale ci sono tanti ricordi, i nostri vestiti del cambio stagione, tante fotografie, nella mia stanza tutte le bambole che i miei genitori mi avevano portato dai loro viaggi e che io adoravo. Mia madre addirittura ha ràccomandato a questa signora di fare attenzione agli acidi che erano in cantina perché potevano essere pericolosi per il bambino. La signora è stata gentile, ha ringraziato, poi mia madre ha chiesto "E suo marito dov'è?". "Al fronte ...". Mia mamma non è riuscita più a parlare e s'è messa a piangere. Tu telefoni a una che abita in casa tua, ti preoccupi di dirle di stare attenta agli acidi e poi scopri che intanto il marito è in qualche collina a sparare sugli abitanti di Sarajevo, su di noi. E' molto dura da sopportare. La casa di Pale era molto importante per i miei, pensavano di trasferirsi lì, prima o poi; avevano fatto dei sacrifici, per quella casa, l'avevano costruita proprio con le loro mani, domenica dopo domenica. Adesso penso che non la vedremo mai più. A Sarajevo avevo conosciuto un giornalista della Gazzetta dello Sport, che seguiva il campionato di calcio della Bosnia Erzegovina. Quando lui era in Italia avevamo degli appuntamenti telefonici e gli davo tutti i risultati. Una volta, mentre andavo all'Holiday Inn per telefonargli, un cecchino mi ha sparato e I I i '. I i ;·, ..... ...... ,. .. , ... / ., mi ha perforato la tuta vicino alla caviglia senza ferirmi. In quella postazione c'era ogni tanto un cecchino che giocava con i passanti. Una volta un signore che portava quattro taniche d'acqua se le è viste perforare tutte una ad una, ma quando s'è fermato in mezzo alla strada e ha allargato le braccia come dire "ecco, sono qui, uccidimi pure", il cecchino non ha sparato. Credo che anche con me abbia voluto sbagliare. Ho un'amica che è un nostro cecchino, cioè è un tiratore scelto e ha il compito di scovare i cecchini. Non mi stupisco che sia un bravo soldato perché fin da bambina la consideravamo un maschiaccio ... Comunque, un giorno il mio amico giornalista mi ha chiesto di organizzare l'uscita da Sarajevo di una squadra femminile di basket per farla giocare in Italia e raccogliere fondi. Io ho organizzato tutto e tre giorni prima della partenza il giornalista mi telefona e mi dice: esci anche tu con la squadra, parla con i dirigenti e fai l'accompagnatrice. E così ho fatto e per la prima volta sono uscita dal tunnel. Non è stata una bella sensazione. Già all'ingresso un ufficiale di polizia ci ha fatto passare davanti a tutti fra le proteste di chi aspettava lì da cinque ore o anche più, poi questo fatto di infilarsi sotto terra in un budello alto un metro e mezzo o poco più per uscire da quel buco chiamato Sarajevo ... C'è puzzo, è umido, è stretto e poi noi abbiamo potuto usare i carrelli per le valigie, altrimenti non so come avremmo fatto a percorrere più di ottocento metri curvi in avanti e portando dei pesi. Eravamo quindici donne e due uomini e parlavamo a voce alta, scherzavamo e ridevamo per farci coraggio. Ci abbiamo messo quaranta minuti. A Rasnica siamo saliti sul pullman, in silenzio, senza fumare -sai quanti sono morti a causa di una sigarett&? Per i cecchini è un divertimento- e io mi sono addormentata dalla paura. Mi è andata bene perché non si deve dormire, se c'è bisogno di buttarsi giù o di scendere bisogna essere lucidi. A Spalato ho rivisto il mondo normale, la gente che si divertiva, che faceva la spesa, nei negozi c'era di tutto, i tram funzionavano e le persone si fermavano agli incroci a chiacchierare. In quel momento odiavo tutto il mondo. Perché noi non potevamo vivere così, cosa avevamo fatto di male e a chi? Al ritorno eravamo pieni di sporte e sportine. Io avevo tutti regali per i vicini, perché quando mia madre era stata ammalata e papà era al lavoro tutti s'erano presi cura di lei e le portavano ogni giorno un litro d'acqua. Sai cosa vuol dire portare un litro d'acqua tutti i giorni quando c'è la guerra? Fare la fila alla fontana, la fatica, il rischio dei cecchini ... E allora mia madre mi ha fatto comperare cose per tutti. Sull 'Igman abbiamo dovuto fare un bel po' di strada a piedi, al buio. In cima all'Igman ci sono persone che per un po' di marchi ti fanno da guida e ti portano le valigie.C'era anche una vecchina di ottant'anni! Ricordo che si mise a piangere perché nessuno le fece portare niente, ma io non avevo più soldi da darle. lo andai con un ragazzino che di giorno andava a scuola e quando faceva buio andava sull'Igman a fare da guida e passava tutta la notte così. Non so quando dormiva. Poi il tunnel, ed è stato terribile. Perché quando esci da Sarajevo sei riposato ed eccitato all'idea che esci, quando tomi arrivi al tunnel che sei già stremato e con la prospettiva di ricacciarti in trappola. Perciò abbiamo attraversato il tunnel come dei condannati che vanno al patibolo, non avevamo i carrelli, non ce la facevamo più. Quando sono arrivata a casa ho cominciato a urlare, a chiamare la mamma e il papà, perché non riuscivo più a fare nemmeno uno scalino. • ·»i;i,;(· -~.,.,,. •., .,,. ~ t'· ' . ,:. ,. , t .. _;.·,, . _,.. .r}":-. i . ~~~, ., >, ! Y_..:_'."· -f~,.- ,.:,,,~-: ·/:<t:~

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