Una città - anno V - n. 43 - settembre 1995

docente -riguadagnato dopo anni di cause di giustizia; l'ha ripagato ora con l'esclusione oltraggiosa da una carica che sarebbe stata la più sua. Ebbene, la reazione a questo vergognoso episodio è stata infima, tanto più se confrontata col cordoglio ampio che ha accolto la morte di Alex. Cordoglio sincero fino al pianto per tanti, ipocrita e imbarazzato in altri: in realtà anche le lacrime di coccodrillo sono a loro modo sincere e rivelatrici, confessano che anche chi mostrava di ignorarlo e lo privava di voce sapeva bene che Alex era tanto migliore. Che delle persone come lui si può dire la verità, quando non fanno più ombra. Alex aveva sempre considerata sacra la vita, e, nutrendo il più attento e partecipe rispetto per la libertà delle donne, aveva tenacemente messo in guardia da quella che chiamava la "banalizzazione dell' aborto". La battaglia contro gli arbitri nelle manipolazioni genetiche e nelle biotecnologie, condotta nel Parlamento europeo, è stata come sapete bene fra le sue più appassionate ed efficaci. Anche in questo caso, i giornali italiani gli hanno riservato poco più che le lettere al direttore. Questa rimozione è stata soprattutto vera e grave per l'opera di Alexander sulla Jugoslavia. Era stato, Alex, preveggente come nessun altro: tutta la sua vita civile. lo preparava a capire e temere ciò che covava lì. Nel suo impegno nessuna risorsa è stata risparmiata, né intellettuale e morale, né materiale. Da ogni viaggio Alex tornava pieno di conoscenze di indirizzi nuovi, e di persone in carne e ossa a suo carico. In ogni impresa, viaggi, convegni, il Verona Forum e le sue iniziative, dominava la persuasione umile e rigorosa che si dovesse dare la parola alle persone di buona volontà dei paesi travolti dai nazionalismi e dai razzismi, che si dovesse tenere insieme, nonostante tutto, una trama minima di rapporti, di incontri diretti, di colloqui. Che non si dovesse accettare la guerra, e si dovesse lavorare per la pace. In questa enorme fatica, tenace quanto minuta, Alex ha speso la parte migliore di sé e dei suoi ultimi anni. La sua era una sfida temeraria, ·1(: ,J@ p @. ?f"?~f;/* ~t: 7.- ?1 -» ·~. i!}:. 1f.w affidata alla speranza che la brutalità si esaurisse come la furia di certi temporali, e che le autorità del mondo sapessero almeno arginarla. Ma la brutalità, senza perdere di furore, è diventata cronica: e mentre le autorità del mondo non volevano o non sapevano figurarsene la profondità, e tantomeno misurarsi con essa, le voci di buona volontà, di rispetto reciproco e di convivenza diventavano sempre più fievoli e disperate. Inoltre, quando si solidarizza con tutte le vittime, quando si lavora perché torni una pace degna, si possono accantonare provvisoriamente domande che diventano ineludibili quando ci si interroga viceversa su come fermare una violenza che, quanto a lei, è pronta a divampare fino alla distruzione totale. Quelle domande riguardano l'equivoco della nozione indistinta di "guerra" -regolare, o civile, o quant'altro-, la differenza secca fra aggressori e aggrediti, la necessità della legittima difesa e all'opposto la responsabilità dell'omissione di soccorso, la fonte e i mezzi di un esercizio del la forza a tutela dell'umanità e in adempimento della legalità internazionale. Alex non evitava di porsi queste domande, né di rispondere loro nettamente: benché fosse tormentato dallo scacco di una resistenza che si affidasse solo a parole e gesti non violenti, e benché tenesse, come sempre aveva fatto con scrupolo, a non forzare i senti- I menti, le opinioni, e gli stessi pregiudizi delle persone con le quali aveva scelto di collaborare e che sentiva di rappresentare. Questo, se posso parlare anche di me, divise praticamente le nostre strade, benché non idealmente, e tanto meno umanamente -al contrario. lo ho scelto di trascorrere gran parte del mio tempo a Sarajevo, e di dire, dovunque riesca a farmi sentire, quello che sento giusto e terribilmente necessario. Ma io sono e voglio essere solo, e non devo regolare le mie parole su alcuna responsabilità comune e condivisa. Tre anni fa, al contrario, speravo di contribuire con altri ad aiutare concretamente le vittime della violenza in ex Jugoslavia, e di far crescere nella comune solidarietà la consapevolezza delle responsabilità diverse e delle cose giuste da fare e da rivendicare, senza alcun pregiudizio ideologico. Allora promossi un digiuno dedicato a "tutte le vittime", cui aderirono alcune centinaia di persone, con una qualche modesta risonanza, e, insieme a loro, "regalai" quel digiuno ad Alexander e al suo Verona Forum, perché lo spendesse a vantaggio del suo lavoro. Ricordo ancora la gratitudine contenta e quasi fanciullesca con cui accolse questo dono, che era insieme un investimento e una testimonianza assoluta di fiducia. Voglio aggiungere il nome della persona che con me organizzò e propagò quella iniziativa, con la dedizione efficace che la distingueva, Mariateresa Di Lascia, una militante radicale. E' morta l'anno scorso di un tumore, a 40 anni. Risentirete il suo nome: l'altra sera, la sera del giorno in cui avevamo dato l'ultimo saluto ad Alex nella Badia di Fiesole, Mariateresa ha ottenuto il più importante premio letterario italiano per un suo bellissimo romanzo, Passaggio in ombra, pubblicato postumo. Ricordo oltre tutto quell'episodio perchè su ogni problema, e tanto più sul mattatoio bosniaco, niente fa altrettanto danno che i partiti presi una volta per tutte (la litania pacifista, come avrebbe detto Alex , o il machiavellismo interventista a priori; e, peggio, il pacifismo o l'interventismo sposati per ragioni di convenienza e di schieramento). La solidarietà pratica ed esposta avrebbe dovuto essere, e per tanti è stata, l'occasione per conoscere, e decidere, su come sforzarsi di contribuire a metter fine al massacro. Sarajevo è assediata da 39 mesi: e vi si prepara un orrore finora neanche immaginato. Oggi è stata abbandonata Srebrenica. Pochi giorni fa, nella nostra ultima conversazione, Alexander mi ha parlato con scandalo e sconforto di quelli che, in nome dell'amore per la pace, mettono sullo stesso piano Karadzic e lzetbegovic; di quelli che, nella sinistra cui tutti appartenemmo, si rifiutavano ora di pubblicare le posizioni sue e dei suoi collaboratori; e mi ha parlato anche di un esaurimento drammatico del suo stesso sforzo, di fronte alla violenza incontrasta'ta della barbarie. Si era innamorato, in questi anni, Alex, di Tuzia -ognuno di noi si è innamorato di una città martoriata e resistente, di Vukovar, di Sarajevo, della Mostar spaccata atrocemente in due. Tuzia, con la sua dimensione ravvicinata -non molto più grande di Bolzano- con la sua municipalità fiera della sua indipendenza dalle anagrafi etniche, ha offerto ad Alex l'occasione di una nuova e commovente cittadinanza. Mi aveva raccontato che il sindaco di Tuzia, Sei in Beslagic, dopo l'ultima visita al Parlamento europeo, organizzata dal Forum, era appena rientrato a Tuzia, quando la più orrenda delle stragi aveva massacrato i ragazzi che se ne stavano davanti al bar nella sera d'estate. Allora Beslagic aveva spedito ad Alex in copia le lettere aperte da lui indirizzate per fax al Consiglio di Sicurezza dell'Onu: "Se restate in silenzio, se anche dopo questo non agite con la forza come unico mezzo legale rimasto per proteggere un popolo innocente dai crimini dei serbi di Karadzic, allora senza dubbio alcuno voi eravate e restate dalla parte del male, del buio e del fascismo. Voi avete dichiarato Tuzia e altre città assediate nella Bosnia Erzegovina aree protette. Voi avete esaurito tutti i mezzi diplomatici. Bambini e persone innocenti vengono uccisi senza sosta. In nome di Dio e dell'umanità usate finalmente la forza". E poi, il 26 maggio: "C'è una sola cosa che potete fare. Dovete bombardare le postazioni di artiglieria sulle colline attorno a Tuzia. Voi dovete bombardare tutte le postazioni di armi pesanti dei fascisti serbobosniaci in Bosnia. Altrimenti, fra voi e gli assassini dei nostri bambini qui non ci sarà alcuna differenza. Perché anche nel diritto internazionale la collaborazione col crimine è essa stessa un crimine". Alex era rimasto molto turbato da queste parole. Le ha citate nel suo ultimo scritto. Sapeva che, anche quando si sia rinunziato a dire, come dicemmo un tempo: "Siamo tutti ebrei tedeschi" o "vietnamiti", e, ora: "Siamo tutti sarajevesi" -non abbiamo rinunciato tutti, del resto- e anche se non pensiamo più che le vittime dell'ingiustizia di oggi portino in sè la promessa del riscatto da ogni ingiustizia futura, tuttavia non si può accettare moralmente, dunque politicamente, nessuna opinione che non possa essere decorosamente sostenuta ed argomentata davanti alle vittime. Che, qualunque posizione si sostenga sulla Bosnia, bisogna immaginare di spiegarla in una riunione di Tuzia, o in uno scantinato di Sarajevo. Alexander pensava così. Gli sono stato vicino, per amicizia molto prima che per comunanza politica, in un arco di tempo lungo e vario, e in un modo che rende i dettagli altrettanto preziosi che le grandi questioni. Soprattutto, ho seguito il periodo non breve in cui ad Alexander, in Italia, si offriva quasi ineluttabilmente il ruolo di leader del movimento verde, quando l'orizzonte di quel movimento era aperto e promettente, quando esso avrebbe potuto raccogliere insieme l'eredità buona della politica tesa a trattare la contesa fra umani con la necessità nuova della politica disposta ad affrontare l'agonia del mondo per mano pacifica dell'umanità, la politica della guerra e quella del risarcimento del pianeta, del nemico e della solidarietà universale, delle identità di parte e della cura per il passato.e il futuro. Quasi ineluttabilmente, ho detto. A quell'esito si opponevano infatti due obiezioni: la prima, la meschinità e le gelosie che nello stesso movimento verde trovano una nicchia in cui radicarsi, e poi crescere rigogliose. La seconda, il richiamo di sempre di Alexander verso il gran rifiuto, la dimissione, l'uscita secondaria, verso l'andare altrove. Se si fosse battuto, avrebbe prevalso, credo. Non voglio dire che avrebbe dovuto battersi. Al contrario, forse avrebbe dovuto cedere altre volte, e forse più radicalmente, alla voce che lo chiamava altrove. Deve aver sentito sempre di più, come il Giona che citava, la predicazione come un'imposizione, un fardello non voluto e opprimente. Al punto che, per andare altrove, ha dovuto passare di là. Ma in tutto questo lungo viaggio Alexander non ha mai cessato di pensare pensieri più grandi che non quelli di un luogo e di un momento immediati, di sognare sogni più grandi che non i muriccioli di questioni organizzative e di divieti burocratici che pretendevano di recintarli. Da tanto tempo, per tante volte era stato vicino a non avere più la forza di continuare. Che sia caduto, in un punto troppo arduo, è degno di pietà e di rispetto. Appena ieri la Chiesa cattolica respingeva i suicidi: nella chiesa dei Francescani di Bolzano un vescovo ha benedetto Alexander citando le parole del suo ultimo commiato. Se avessi di fronte a me un uditorio di ragazze e ragazzi, non esiterei a mostrar loro com'è stata bella, com'è stata invidiabilmente ricca di viaggi e di incontri e di conoscenze e imprese, di lingue parlate e ascoltate, di amore, la vita di Alexander. Che stampino pure il suo viso serio e gentile sulle loro magliette. Che vadano incontro agli altri col suo passo leggero, e voglia il cielo che non perdano la speranza. Adriano Sofri Firenze 11 luglio 1995. (Questo testo è stato letto alla cerimonia di commemorazione al Parlamento Europeo, a Strasburgo). ,,. I UNA CITTA' 7

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