Una città - anno V - n. 43 - settembre 1995

• storie L'organizzazione delle madri russe che si oppongono al durissimo servizio militare dei figli, spesso mandati allo sbaraglio, in Cecenia e altrove, all'insaputa loro e dei familiari. L'esperienza da non ripetere dei reduci "afghani". Intervista a Irina Dobrohotova. Irina L 'vovna Dobrohotova è membro del Consiglio di Coordinamento del Comitato Madri dei Soldati di Russia - Mosca. Il primo viaggio è stato a Groznyj, dalla fine di gennaio alla metà di febbraio. Portavamo con noi aiuti umanitari, medicinali ecc., ma non eravamo andate solo per portare materiale ma anche per vedere cosa stava succedendo. In quell'aeroporto arrivavano aerei militari da tutte le parti della Russia. Da Ekaterinburg erano partiti due reggimenti, e con noi c'era anche la Presidente del comitato di Ekaterinburg proprio perché di questi ragazzi non si era saputo più niente. Erano i reggimenti 81° e 129°. Nemmeno tra i feriti siamo riuscite a trovare qualche soldato di questi reparti, finché qualcuno ci disse che erano stati uccisi tutti da qualche parte. Il comandante del reparto 129° dichiarò in televisione che il reggimento era completo e che erano tutti vivi, che stavano tutti bene. Mentiva: erano morti tutti già il primo gennaio. Ma non esiste un elenco stabile dei membri dei reparti. I reparti ci sono sempre, sono i ragazzi che li compongono che cambiano. Ci avevano promesso di istituire una "linea calda" per i genitori, noi avevamo chiesto di avere l'elenco dei feriti, ma nemmeno noi riuscivamo a telefonare e l'elenco, chi lo ha mai visto! Mentre eravamo a Mozdok, -la guerra era iniziata da poco, da un mese circa-, visitammo l'ospedale militare: i ragazzi erano già spezzati, erano già a brandelli, feriti, demoralizzati, un ragazzo di Kolomna ci raccontò che davanti ai suoi occhi era stato ucciso tutto il suo battaglione, di tutto il battaglione era rimasto solo lui. Pregava che lo aiutassimo a restare. Non volle scrivere neanche una lettera a casa. A quel tempo il nostro comitato era già assalito da donne che cercavano i propri figli, ma i militari non dicevano niente a nessuno. Bene, questo ragazzo non volle scrivere niente: "Cosa posso scrivere, posso solo farli preoccupare". Quando tornai a Mosca chiamai la madre di questo ragazzo, non sapeva niente, non sapeva che era in Cecenia, ferito, si sentì male mentre parlava con me, allora qualcun altro prese il ricevitore, e io gridavo che la ferita era leggera, ma ormai non capivano più quel che sentivano. Noi distribuivamo ai soldati fogli e matite, li esortavamo a scrivere, per permettere alle madri di venire, ma loro non lo facevano, e i medici non ci aiutavano. Non c'era nessuna informazione riguardo a dove si combatteva, quanti erano stati uccisi, quanti prigionieri. Del resto i ragazzi parlavano soltanto quando potevamo entrare nelle corsie senza accompagnatori. Un'altra cosa non bisogna dimenticare: dicono che tutti sono volontari, che tutti hanno firmato volontariamente per andare in Cecenia, ma mentono. I ragazzi raccontano che la notte il sergente li sveglia per fare firmare loro una carta, perché si è dimenticato il cambio della biancheria, dice, e dopo due settimane si ritrovano volontari in guerra. Tutto era nato nel1'89, quando, per la prima volta, avevano cominciato ad arruolare gli studenti dei primi corsi, ragazzi del secondo anno, malgrado che, secondo il codice militare, gli studenti universitari avessero diritto all'esenzione dal servizio. Allora il servizio militare durava due anni ed era prevedibile che molti di loro, al ritorno, non avrebbero continuato gli studi. Marja Ivanovna Kirbasova il cui figlio diciottenne, Sergej, studente universitario, in buona salute, era morto nell'86 mentre svolgeva il servizio militare in tempo di pace, -per nonnismo, come mediamente succede ad altri 6.000 ragazzi di leva ogni anno-, riunì le donne attorno a sé, soprattutto le madri dei compagni di studio di suo figlio, e iniziarono a parlare di quanto era successo ai loro figli nelle mani dei militari. Poi, grazie al giornale del Komsomol, durante una festa, organizzarono a Mosca, nel dicembre del l' 89, la prima manifestazione non proibita dell'Unione Sovietica. Non gli fu permesso di spingersi lontano, ma comunque fu la prima manifestazione. In seguito, divennero evidenti tutta una serie di problemi collegati al servizio militare, atti di crudeltà, nonnismo, si venne a sapere che c'era un altissimo tasso di suicidi tra i ragazzi di leva. Ovviamente, per i comandanti era più conveniente registrare le morti come suicidi che come incidenti o risultato di azioni criminali da parte dei commilitoni più anziani. E così parecchi ragazzi scappavano, disertavano. Per il Ministero della Difesa, per legge, un soldato, prima di essere mandato in uno dei punti caldi, deve avere fatto quattro, cinque mesi di addestramento. Ciò non vale invece per l'esercito del Ministero degli Interni anche se non c'è nessuna differenza tra i loro compiti. Quindi, dopo due settimane i ragazzi possono essere già mandati in battaglia. E così partono, e io ho la sensazione che tutto l'esercito russo ormai sia già là, perché ci telefonano da tutta la Russia: "mio figlio è in Cecenia!". sempre al telefono dalle I O alle 17, tutti i giorni. E poi c'è la gente che viene. Io sono nel comitato da due anni, e ogni giorno ci sono almeno 5-6 disertori. E' molto difficile trovare gli avvocati per loro, non solo perché hanno paura della procura militare, ma anche perché non conoscono le leggi. E poi, da noi c'è sempre stato questo atteggiamento da parte di tutti: agli ordini si obbedisce. La nostra è una società molto spaventata, non viene mai in mente che si possa dire di no a chi abbia un po' di potere. Anche la generazione più giovane pensa che quello che noi facciamo non serva a niente, che non sia importante, non solo perché non sanno, ma soprattutto perché pensano che non li riguardi, anche se c'è già stata la verifica della mobilitazione, il controllo sui riservisti che hanno già fatto il servizio militare e quindi, presto, potrebbe riguardarli direttamente. Quest'anno, in febbraio, abbiamo tenuto il nostro congresso, ci siamo costituite come ente legale e il governo ci ha registrate al Ministero degli Interni come Comitato delle madri dei soldati di Russia. Siamo un'organizzazione sociale su base volontaria, nessuno di noi riceve uno stipendio. Di quelle che hanno cominciato siamo i1imaste solo quattro. Ognuno deve pensare alle sue miserie, quasi tutti, risolto il loro problema, vanno via. Ora il nostro problema principale è rappresentato dai disertori. Abbiamo molti casi di violazione dei diritti dei ragazzi di leva, soprattutto per quanto riguarda i diritti sanitari. Quasi tutti sono ritenuti idonei, anche in presenza di grossi problemi fisici. E i ragazzi non sanno che esiste un prontuario dove sono riportate tutte le malattie che danno diritto all'esenzione dal servizio militare. E questi diritti sono violati sistematicamente. Ora, con la guerra, i disertori sono aumentati molto: dalle notizie che arrivano al nostro comitato, sono almeno 1.000. Non conosco molto bene i dati dei comitati di altre città, ma, ad esempio, solo a San Pietroburgo devono essere circa 500. La situazione per loro è molto pesante. Ogni cittadino russo ha diritto di rifiutare il servizio militare e di scegliere il servizio civile. E se a tutt'oggi non esiste una legge per il servizio civile, il diritto al servizio civile è sancito e noi continuiamo a presentare ricorsi in base a questo presupposto. Così sono passati gli anni e fino ad ora due soli dei nostri sono stati condannati, -perché, ci è stato risposto, nessuno voleva mandarli in Cecenia-, ma tutti gli altri sono a casa, non si nascondono, nessuno li cerca. Sono state proprio le madri cecene che ci hanno consegnato i primi elenchi di prigionieri e la lettera di Dudaev che diceva che i prigionieri sarebbero stati consegnati solo a noi perché quando furono consegnati ai deputati ognuno di loro usò i prigionieri per i propri giochi poi itici. Allora, quando ci consegnarono gli elenchi, noi trovammo le madri, le raccogliemmo, le organizzammo e per tutto gennaio e febbraio ci occupammo di questo. E' stato molto difficile perché non potevamo garantire che questi ragazzi fossero vivi. Ci hanno aiutato molto anche le donne del I' Unione donne del/' lnguscezija; lnguscezija e Cecenia erano una sola nazione. Nel Caucaso ora sono attivi molti gruppi di donne. Adesso, stanno cominciando gli arresti dei prigionieri, quei ragazzi che noi abbiamo riportato a casa dalla prigionia, la procura militare sta cominciando ad arrestarli in base all'art. del Codice Militare relativo al consegnarsi prigionieri. Da noi il codice militare non è cambiato dai tempi di Stalin, chi si consegna prigioniero è passibile di arresto una volta tornato a casa. Comunque, ora, dopo che i nostri hanno cominciato ad organizzare i campi di "filtramento" (selezione) dove si fanno controlli sulla popolazione, -durante la marcia in Cecenia avevamo un autista ceceno che è stato arrestalo ed è finito in un campo di filtramento e poi hanno cercato di scambiarlo con un prigioniero russo- i ceceni hanno smesso di riconsegnare i prigionieri. Dudaev ha detto che questo è solo l'inizio, che i prigionieri che verranno callurati per la seconda volta saranno fucilati. Ecco perché noi cerchiamo di non consegnarli più ai militari: l'esercito li rimanda nei battaglioni di combattimento! Questi casi ci sono già stati. Non abbiamo documentazione a questo riguardo, solo le testimonianze dei ragazzi che parlano di prigionieri fucilati davanti a loro. Non voglio dire che tutti i militari da noi sono così, ma quello che stanno facendo ora, è talmente uno schifo ... E, purtroppo, ho la sensazione che il partito più forte in Russia sia il partito dei militari. C'è un ragazzo, in ospedale, senza braccia, abbandonato dal suo reparto. Racconta che i ceceni sparavano contro i soldati che scappavano, ma a lui non hanno sparato, e questo perché avevano già visto che non avrebbe più potuto far niente contro di loro. E l'hanno lasciato vivo, per quale vita non si sa ... I suoi genitori vivono in Baskirija, la madre è venuta a trovarlo solo una volta. E lui è qui, a Mosca, da febbraio! Loro ci telefonano per sapere come sta, e basta. C'è chi cerca biamo una persona. di capirli: venire qui costa, non ci sono soldi, io non ci "'.\ riesco, in ogni caso si può sempre vendere qualcosa, è un figlio che sta in ospedale, senza braccia, non può nemmeno mangiare da solo ... E Tatjana, Presidente del Comitato delle Madri dei Soldati di Mosca, lo nutre, ogni fine settimana se lo porta a casa, ha già due figli suoi e non lavora. Qui a Mosca, riguardo a questo conflitto, c'è dissenso tra le organizzazioni governative e quelle sociali. Per esempio, qui in Russia, con il Comitato per la difesa della patria c'è un dissenso di principio, perché quelli vanno dalle madri dei soldati uccisi e dicono loro che i figli sono morti nella difesa della patria e così via. In generale, non è possibile avere rapporti con loro. La stessa cosa succede nel Caucaso. Noi, al comitato non mettiamo in discussione l'indipendenza della Cecenia, la lotta di indipendenza è una loro questione e non vogliamo giudicare. Ognuno di noi ha la sua opinione in proposito naturalmente, però per lo più riteniamo di non avere diritto di giudicare questa posizione. Mio figlio e gli amici di scuola si sono riuniti tutti da me ed erano tutti su posizioni diverse, da quella più intransigente, dove non c'è spazio per nessuna trattativa perché tutti questi separatisti vanno bombardati e basta, fino alla mia posizione; ce n'era persino uno che mi sosteneva, che pensava, come me, che la Cecenia non è affare nostro. E questa è una cosa importante, perché si stanno già costituendo dei comitati che sostengono che bisogna picchiarci, fucilarci, che siamo un danno per la nostra società perché noi aiutiamo i disertori. Il nostro problema è che i nostri ragazzi non muoiano là e, anche, che non uccidano nessuno perché iInostro paese ha già avuto i reduci dell'Afghanistan. I reduci sono diventati spaventosi, non c'è altra parola ... Le organizzazioni di "afghani" sono molte, e tra loro vi sono anche organizzazioni criminali. E questa è una cosa che semplicemente non è possibile evitare, perché loro, moralmente, psicologicamente, sono malati. Adesso noi stiamo cercando di organizzare qualcosa a questo proposito, ma è gente spaventosa, non tutti naturalmente, la maggior parte. Io li ho visti ed è terribile stare con loro. Basta ascoltare i loro racconti, le paure, le torture, i massacri per capire perché sono così. Un ragazzo "afghano" è ora in Cecenia e ha parlato liberamente con una del nostro comitato alla presenza di un giornalista della BBC, così abbiamo anche saputo che nel nostro esercito si usano narcotici, sono i comandanti dei reparti che distribuiscono i narcotici. Posso dire che sono spezzati, moralmente spezzati. Quello che sta succedendo ora nel Caucaso è una ripetizione di quanto è accaduto negli ultimi anni in Jugoslavia. Se l'Inguscezija regge e non si lascia travolgere è solo grazie a Ruslan Ausev (il Presidente dell'Inguscezija). L'Inguscezija ora è piena di profughi e questo crea sempre grosse tensioni interne, soprattutto in un paese così coinvolto, così vicino ... Ma negli altri territori del Caucaso se la guerra continua può solo allargarsi. Bisogna anche ricordare che tutti i popoli del Caucaso hanno subìto la repressione, sono stati deportati da Stalin nel dopoguerra. Questa è una cosa che conosco molto bene, anche la mia famiglia negli anni '50 è stata repressa, mio padre e mia madre sono stati mandati in Kazakhistan, mio padre era un giornalista ebreo della rivista Novj mir, e quello era il periodo del cosmopolitismo. Io sono cresciuta con i nonni e per molto tempo non ho saputo cosa era successo ai miei. Tutti questi popoli del nord del Caucaso sono stati spostati, si sono sposati tra loro, si sono confusi, uniti l'uno con l'altro, sorio un unico sangue, tranne gli ossetiche sono l'unica popolazione cristiana nel nord del Caucaso. Ma se passa la divisione dei territori in base all'appartenenza nazionale, il Caucaso esplode. La questione nazionale è veramente molto pericolosa. Il nostro compito principale è far ribellare le famiglie. La gente sovietica è abituata al fatto che non sono mai loro a fare, tutto viene pensato e predisposto da altri, dalle organizzazioni, e questo modo di rapportarsi viene applicato anche con noi. La gente da noi si aspetta che provvediamo a tutto. E invece no, il nostro obiettivo è di farli muovere da soli, con il nostro aiuto certo, ma devono essere loro a voler fare. I sovietici hanno ancora questo atteggiamento. Da noi arrivano madri a cui hanno portato via i figli, i militari gli sono entrati in casa e li hanno presi, così, semplicemente, legalmente o no, e li hanno portati via. Quando arrivano da noi vogliono soltanto piangere, essere compiante. Noi cerchiamo di farle calmare e le mettiamo a lavorare, cerchiamo insieme di trovare le vie legali per difendere i loro figli. E' importante che sia legale, ci fa molto piacere quando una situazione si risolve e i ragazzi tornano, liberi, senza aver dovuto pagare, senza bustarelle. Perché la legge dice che è possibile. Le famiglie non lo sanno, hanno paura, opporsi ali' autorità è qualcosa che non hanno mai considerato. Quindi, prima di tutto bisogna fargli passare la paura, e poi insegnare loro ad agire. E i ragazzi ritornano a casa. C'è una cosa che abbiamo notato, la gente più semplice, la più ignorante, è anche quella più attiva. Restano con noi come volontari e lavorano davvero, anche dopo che il loro problema si è risolto. Con gente così c'è speranza per la nostra società. La marcia è iniziata 1'8 marzo. Era stata decisa al congresso di febbraio e da tutta la Russia le madri sono arrivate in autobus, da Saratov, Volgograd, Astrahan ... e sono arrivate fino al Caucaso del nord. Lì i militari le hanno fermate, non le volevano lasciar passare. Io sono andata in aereo fino a Mozdok. Con noi c'erano anche molti ingusci, ceceni, che sono venuti ad incontrarci lì a Mozdok, e questo ci ha aiutate molto, eravamo tutti insieme. Qi russi, eravamo probabilmente un centinaio. Da Mozdok poi siamo partite in autobus, abbiamo attraversato l' Inguscezija sempre con la scorta dei militari russi. Dopo quattro giorni siamo arrivati a Chemovodsk, uno dei quartieri di Groznyj. I militari non volevano farci proseguire, ci misero in uno spiazzo aperto, con quattro batterie russe proprio dietro di noi, a venti metri, che sparavano sulle linee cecene. Ovviamente volevano che i ceceni ci colpissero. Ma loro non l'hanno fatto, e le donne cecene, ingusce, ci hanno protetto, fisicamente, con i loro corpi. Ci hanno garantito la completa sicurezza e protezione da parte cecena. Poi, i militari russi ci hanno circondate con i mitra, hanno portato le batterie e le hanno puntate contro di noi. Era una cosa da matti, quasi buffa. Nel frattempo, le donne cecene che ci avevano accolte hanno cominciato a nutrirci perché noi restavamo lì, non ci muovevamo. Le donne ci portavano il pane e io giravo per il campo, andavo dai soldati che ci circondavano e ci puntavano contro le armi, con questo pane in mano e dicevo: "Vedete, questo è pane ceceno, guardate! Prendetene un pezzo!". Alcuni si giravano e abbassavano gli occhi, per altri non c'era già più niente da fare, non erano già più esseri umani. -

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