Una città - anno V - n. 43 - settembre 1995

un mese di un anno Quando ci siamo incontrati, a luglio, Grazia Cherchi era affranta per la morte di Alex Langer. Non solo per Alex, non solo perché, come ha scritto, lo considerava insostituibile, ma anche perché in quella morte vedeva un segnale terribile per il nostro futuro e per il destino di una generazione. Cosa, quest'ultima, su cui noi, assolutamente, non eravamo, non volevamo essere d'accordo. Poi, però, parlando del giornale fu lei a voler infondere ottimismo, consigliandoci di farlo meno cupo, di parlare anche delle cose positive, di chi riesce a fare qualcosa di buono. E rise quando le chiedemmo se ce lo avrebbe procurato lei un elenco. Ora sappiamo che da tempo stava combattendo, da par suo, la battaglia che non si vince e che a luglio i suoi giorni erano già contati. Malgrado tutto, ora accettiamo, vogliamo accettare, quel consiglio. Parco Cilento: 10.000.000(A ambiente agricoltura); Impianto traduzione: 16.320.000 (I strutture, impianti); B. Crisi automobile: 5.000.000 (B/Borsa, ambiente, sociale); B. Consumi equi: 10.000.000 (B/Borsa, ambiente sociale); Viaggio Vandana Shiva: 3.000.000 (NS Nord-sud); V. Semin. Agric. biol.: 820.000 (A, S ambiente, sociale); Fiera utopie: 10.000.000 (EO,MmovimentVprogetti); Conv. Sviluppo, no gr.!: 2.680.000 (C convegni, conferenze); viaggio J. Ferraz: 2.100.000 (NS, A Nord-Sud, ambiente); Attiv. Jugoslavia: 5.880.000 (YU exlugoslavia, pace); Attrezz. fotografica: 5.950.000 (I strutture, impianti); Osp. Verdi georgiani: 4.000.000 (A, S, EO); EcoArch: 15.000.000(Ns, A); Eco-lst. Veneto: 40.000.000 (/); viaggio P. B. Ucr., Georg.: 830.000 (EO Est-Ovest); libro animali TN: 3.000.000 (A); attrezz. verdi alban.: 900.000 (EO, /); A. Teutsch, /avi eco/: 1.500.000 (NS,. S); Giornata Albania: 3.000.000 (EO); Verona Forum I: 5.0Q0.000(YU); lniz. Xavantes: 10.000.000 (NS); Comit. Albania: 1.100.000 (EO); Computer VR-Forum: 1.000.000 (YU, · i); Vienna Conference: 10.000.000 (YU); Ricerca Agric. eco/. 1-r: 2.500.000 (A, S); Fiera utopie 1993: 10.000.000 (EO, M); Xavantes, z, rata: 10.000.000(NS); lnc. Jnternaz. Madri: 1.800.000(c convegni, conferenze); IVsess. Verona-F, Paris: 10.000.000(YU);Agric. biol. turchi: 6.000.000 (A, S); Xavantes, ult. vers.: 50.000.000 (NS). (Oltre a: direttamente a Gruppi e iniziative 108.660.000; Cassa Comune gruppo italiano 150.479.000; Federazione Verdi 133.500.000). Di fronte a un meticoloso, noioso rendiconto di spesa, ci si può commuovere e si può anche riflettere politicamente? Di fronte a quello di Alex, e alla sua straordinaria "definizione dei campi", sì. Alex si teneva per sé poco più di un decimo dello stipendio. Ma era il nostro deputato e dai deputati ci si aspetta l'esempio. Se noi decidessimo di destinare la decima dél nostro stipendio a Sarajevo che va verso il quarto inverno e, come ci avvisa l'amico Ozren, sta morendo? E' poco, pochissimo, soprattutto è tardi, a questo punto lo faremmo soprattutto per noi, eppure faremo fatica a farlo. Vien da chiederci come siamo diventati. Comunque ci proveremo, chi è interessato ci chiami. Edi, l'amico fraterno di Alex, ci scrive: "Cari amici, mi spiace molto che un'altra maestra se ne sia andata. Non la conoscevo di persona ma ho seguito e inseguito i suoi scritti. Penso che sarebbe stata bene in quel 'sinedrio dei saggi europei' che Alex sognava". Nell'intervista che pubblichiamo Edi sostiene che la Bosnia c'entra col suicidio di Alex, almeno perché rese impossibili altre vie di fuga "incruente". A dire: dalla Bosnia non ci si dimette. Chissà che non meditino tutti coloro che dalla Bosnia non si sono mai fatti assumere neanche a giornata. A tutt'oggi, di fronte alla prova provata di quanto un intervento militare della comunità internazionale sarebbe stato risolutivo, di quanto i nazisti della pulizia etnica si siano avvalsi dei discorsi sull'impossibilità, sulla pericolosità di un intervento, di fronte alla prova provata di quante vite si sarebbero potute salvare con tanto poco, ancora nessuno che dica: sì, mi sono sbagliato. Quanti disonesti intellettuali da scacciare dal sinedrio dei saggi! Chi è rimasto vicino a Grazia fino a/l'ultimo racconta che quando le è stato riferito che "uno dei nostri" -così lei soleva chiamare gli amici e i compagni- stava cercando di telefonarle dalla ex-Jugoslavia per un estremo saluto, si è rasserenata in un sorriso di vivo compiacimento. Era l'antivigilia della fine. " ...Ancora non so dove questa transizione ci/mi porterà: il bisogno di trovare una nuova sponda per un impegno sociale e politico che continuo a ritenere di grande (ma non esagerata) importanza, resta più che mai aperto e non conosce né scorciatoie progressiste né rassicuranti giaculatorie verdi. Probabilmente occorre un forte progetto etico, politico e culturale, senza integralismi ed egemonie, con la costruzione di un programma ed una leadership a partire dal territorio e dai cittadini impegnati, non dai salotti televisivi o dalle stanze dei partiti. Bisognerà far intravvedere l'alternativa di una società più equa e più sobria, compatibile con i limiti della biosfera e con la giustizia (anche tra i popoli). Da molte parti si trovano oggi riserve etiche da mobilitare che non devono restare confinate nelle 'chiese', e tantomeno nelle sagrestie di schieramenti ed ideologie. ". E' un brano della lettera che Alex mandò a amici e conoscenti in occasione del Natale scorso. In un'ultima lettera che Grazia ha tentato di dettare, si legge la frase: "Non è più tempo di oracoli, ma è tempo di tessere fili fra le persone". Il ricordo di Grazia Cherchi e di Alex Langer sarà, per noi, uno di quei flli. Ciò, purtroppo, non farà smettere il rimpianto. B tP Al morente la terapia del dolore prolunga il tempo di passaggio fra la vita e la morte. La necessità di una risposta non medicale che riguardi il senso di sé e di comunità, il rapporto con l'altro basato sul reciproco interesse che l'altro viva. li senso del danno nell'epoca di una tecnica che non va demonizzata né mitizzata. Intervista a Salvatore Natoli. Salvatore Natoli è professore di Filosofia Teoretica all'Università di Milano. Ha pubblicato: L'esperienza del dolore. Forme del patire nella cultura occidentale e La felicità. Saggio di teoria degli affetti, entrambi da Feltrinelli. A seguito dello sviluppo delle terapie che combattono il dolore come fosse una malattia, come sta cambiando, nella nostra cultura, il rapporto con il dolore? La medicina palliativa in generale e la terapia del dolore sono oggi una prassi diffusa, direi sempre più crescente, di una mutazione nella esperienza della sofferenza sullo sfondo della grande mutazione moderna costituita dalla tecnica. La terapia del dolore nasce soltanto all'interno di un'evoluzione del quadro tecnico, e sarebbe stato impensabile concepirla senza il grande sviluppo tecnologico. Fino a vent'anni fa ancora la terapia del dolore non esisteva; nella medicina il dolore era inteso come un sintomo, non come un male. Anzi, al dolore si attribuiva il vantaggio di mettere sull'avviso, di essere cioè il sintomo e il segnale che qualcosa non funzionava. Per cui la pratica medica in generale non si poneva il problema immediato di ridurre il dolore, ma solo quello di toglierne la causa: sanata la malattia, qualora fosse sanabile, finiva il dolore. Di converso, purtroppo, quando la malattia non era sanabile il dolore dilagava. Diciamo che lo sviluppo tecnico, sia farmacologico che chirurgico che clinico, ha mutato questo paesaggio: oggi si può aggredire il dolore, limitarlo, senza che ne vengano rimosse le cause. li dolore può essere trattato in termini medici, indipendentemente dalla sua causa, non è più un segnale, non è più un sintomo, ma diventa esso stesso una malattia, una patologia. Pur in una situazione in cui la malattia continua a svilupparsi, il progetto della terapia del dolore diventa quello di agire sul dolore limitandone la forza e l'intensità. In breve, grazie a queste terapie si può morire soffrendo sempre meno. Non è una modificazione da poco. Basti pensare a quello che diceva Epicuro: il dolore se è forte è breve, se è lungo è sopportabile, e quindi non è un male. Per Epicuro, cioè, i dolori veri fanno soffrire poco. Infatti nell'età classica l'eccesso di dolore o portava alla perdita dei sensi, allo svenimento, o comunque era talmente atroce e veloce che durava un periodo molto breve se calcolato rispetto ai tempi di vita. Oggi invece, nel momento in cui la medicina può controllare sia la forza del dolore che il tempo di progressione della malattia, si è creata una possibilità inedita, imprevedibile nella storia del mondo: poter convivere a lungo con la propria sofferenza, poter continuare a vivere sotto l'ipoteca del male, poter assistere lucidamente allo spettacolo della propria dissoluzione. Come si svolge la vita di un uomo al quale la chirurgia ha ridotto il dolore, ha anche temporaneamente sospeso la malattia, ma non è riuscita ad assicurare che non torni? li paziente sta meglio, ma vive nell'incubo che la malattia si ripresenti. Cosa può fare, come può vivere un uomo quando, dovendo affrontare periodi più o meno lunghi in cui il dolore è limitato epperò la malattia procede, sente di non avere più un futuro innanzi a sé da organizzare? In realtà, attutendo il dolore, diminuendo la sofferenza viva, la medicina fa morire meglio l'uomo, ma lo mette anche in una condizione di esperienza inusitata rispetto al passato, alla quale essa stessa non può dare risposte.L'esperienza dell' uomo, il suo esistere è progetto, è impresa, l'uomo esiste quando ha un futuro davanti a sé, nelle cose pratiche. L'uomo pensa anche alla morte, ma come a una cosa lontana, alla quale si reagisce organizzandosi la vita, tant'è che anche nelle persone più mature la preparazione alla morte avviene attraverso il rilancio della vita: si crescono i figli, ci sono i nipoti, in fondo si muore non morendo, si lascia qualcosa. E' qui, allora, che le terapie del dolore mettono in evidenza un effetto boomerang della medicina: la tecnica continua a procedere, ma perde efficacia rispetto alla sÌmità e viene meno il rapporto fiduciario, di tipo illuministico, nei confronti della medicina. Infatti, spesso, dinanzi a problematiche di questo genere, il medico fugge, perché non può più assolvere al suo compito di medico che è quello di curare: dovrebbe diventare altro e, soprattutto, dovrebbe incontrare l'altro, l'altro uomo, il sofferente. la medicina vede la malattia non il malato Tutto ciò perché la medicina, sia quella di corsia sia, ovviamente, quella sperimentale ha come oggetto la malattia, non il malato. Anzi: la medicina più è sofisticata e meno vede il malato. La medicina più sofisticata lavora con i ratti e meno male che lo fa, perché solo così può fare scoperte. Però questo dimostra chiaramente la divaricazione tra il progetto medico come lotta contro la malattia e l'incontro con il morente. A partire dalla propria impotenza o dalla propria relativa potenza la medicina incontra il morente e cosa gli dice? Sì, ti tengo in vita, però ti lascio convivere con il tuo dolore. Basta? Nel momento in cui ti lascio convivere con il tuo dolore poi ti abbandono come uomo? Allora forse non sarebbe stato meglio morire presto, come diceva Epicuro? Come riempire questo tempo? Il problema non è più solamente medico. · Infatti. Diventa il problema del rapporto con la sofferenza come tale: un problema psicologico, psicologico-filosofico, umano in generale. Che cosa dire a questi uomini in attesa di morte, che pure, però, vivono? Qual è il protagonismo che loro possono continuare ad avere nella vita? Che cosa in questo tempo che gli resta è significativo per la loro esistenza? Non è un caso che proprio oggi, a fronte dello sviluppo della medicina palliati va, della terapia del dolore, nell'ospedale venga incrementata sempre di più la figura dello psicologo che è, anch'essa, una soluzione tecnologica. Quando lamedicina farmacologica e chirurgica non può fare più niente subentra un'altra branca tecnica, un altro tipo di metodo, che dovrebbe aiutare a morire: quello dello psicologo. La logica altrettanto medicale resta profondamente ambigua perché un conto è un rapporto psicologico con una persona che ha problemi psichici, dove esiste una clinica, tutt'altro conto è un rapporto psicologico con una persona che ha problemi di esistenza. Uno che sta morendo non è che diventa pazzo, uno che sta morendo sta morendo e ha bisogno di una risposta diversa. In realtà se lo psicologo diventa uno che si interessa a lui, allora non c'è bisogno neanche che sia psicologo, se invece non si interessa a lui è una sovrapposizione non pertinente. Sarebbe molto meglio che il medico fosse capace di stare al capezzale come medico, come ci stava un tempo il medico di famiglia. E' interessante il fatto che il medico di famiglia, potendo meno come medico, si interessasse di più al paziente. Quando invece il medico ha potuto di più, si è spersonalizzato, è diventato più funzionario, il suo mestiere è diventato quello di applicare al meglio gli esperimenti che si fanno con i topi e il suo obiettivo quello di potenziare lo strumento. E si badi bene che io non critico tutto ciò, anzi, dico: "meno male che è così", perché la medicina cresce per queste strade, perché se si indugiasse di volta in volta al capezzale di un paziente la medicina non ne avrebbe fatti di progressi. Però dico anche che ci deve essere un punto di non abbandono, ci deve essere un'attenzione all'altro perché altrimenti si entra in una forma di schizofrenia in cui là dove c'è la malattia non c'è il malato e là dove c'è il malato non c'è la guarigione, e questi sono degli unilateralismi che bisogna superare. Tutto questo come si risolve, come si può evitare? Non spezzando il soggetto che ci sta davanti: l'unità ultima è l'altro. Se tu sei interessato ali' altro i conti tornano, se tu non sei interessato alt' altro allora le schizofrenie si moltiplicano. In tal caso la risposta torna al sociale, alla comunità ... La terapia del dolore ha aperto uno spazio di diversa umanità che però non può essere risolto clinicamente. Anzi: se ci si limita al solo aspetto clinico-farmacologico diventa un inferno peggiore della morte breve. Invece un paziente può vivere anche a lungo in questa condizione se si trova in un rapporto di società e di legame con persone che gli mostrano quanto è importanteche lui viva, qualunque sia la sua condizione, perché ha ancora qualcosa da dare. la tua morte fa morire un po' anche noi Allora, la dinamica di relazione non può essere la dinamica correntedella compassione perché la compassione è offensiva. E' come dire: "poveretti i bosniaci che muoiono", dove quel "poveretti" sta a dire: "sì, mi dispiace, non sono poi un cinico, ma in fondo io sono fuori". Nella compassione, nel suo modo volgare di atteggiamento pietoso nei confronti del sofferente, c'è un'immaginazione proiettiva: si soffre per l'altro che soffre, immaginandosi, in fondo, di essere nella sua condizione, per poi concludere: "meno male che non ci sono io". C'è questo astuto flash back. Il problema, invece della compassione, è entrare nell'altro, nel senso di dire: "tu sei un individuo che sta uscendo dalla vita però la tua vita è importante per noi, talmente importante che più dura, meglio è. Se tu vieni meno, la tua morte fa morire anche noi e porta con sé una parte di noi". E questo non può essere detto a parole, deve essere vero, cioè il paziente deve percepire che chi gli sta accanto, se lui morisse, starebbe male al monAbbonamento ordinario a 1Onumeri di UNA CITTA ': 40000 lire. Abbonamento sostenitore: 100.000 lire. e.e. postale n.12405478 intestato a Coop. Una Città a r.l., via L Ariosto 27, 47100 Forlì. Una copia: 5000 lire. A richiesta: copie saggio. Redazione: p.za Dante 21, 47100 Forlì - Tel. 0543/21422 Fax 0543/30421. UNA CITTA' è nelle librerie Feltrinelli.

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