Una città - anno III - n. 21 - aprile 1993

I Il racconto di un ritorno da Saraievo con un l,iml,o di undici mesi. Una città stupenda in cui era un piacere vedere la convivenza di tante culture. Un assedio tremendo che è vergogna per un 'Europa inerte e anche segnale sinistro per tuffi noi. la necessità, anche se è tardi, di un massiccio contingente di pace. Intervista a foni Capuozzo. Toni Capuozzo, vive e lavora a Milano, è giornalista del Tg 4. Il! più occasioni è stato in Jugoslavia come inviato. Puoi raccontare questa storia che ti è successa in Jugoslavia? E' una storia un po' strana per me, perché sono abituato a raccontare io le cose e non a fare delle cose che vengano poi raccontate da altri. Sono anche in imbarazzo a parlai-ne, è una storia molto personale, che si è costruita anche con degli affetti: questo bambino vive con me, è in affido e c'è anche un bel rapporto. E' una storia personale ma che ha anche una sua utilità pubblica, fa riflettere, nel senso che il fatto di portare via questo bambino di nascosto ci ricorda che Sarajevo è una città assediata, da dove i cittadini non possono uscire, gli unici che passano sono le forze dell'ONU e i giornalisti. E' una storia con delle preoccupazioni, sta affrontando adesso il problema di camminare, si regge già in piedi su una prima protesi provvisoria e sto facendo le carte per farne una seconda; sono tutte provvisorie, dovrà cambiarne una ogni sei mesi, proprio perché sono gli anni di crescita impetuosa. Che età ha il bambino? Ha quattordici mesi. E' un bambino molto piccolo. La storia sua è presto detta. Il problema principale riguarda il padre, che è rimasto a Sarajevo, col quale i rapporti sono piuttosto difficili, se non impossibili; le ultime notizie che noi abbiamo di lui e che lui ha di noi risalgono a Natale. Lì non ci sono i telefoni naturalmente, non c'è un servizio di posta. Le poche notizie che si hanno di storie individuali sono in genere affidate alle poche persone che riescono a venirne fuori in un modo o nell'altro o a colleghi giornalisti che vanno giù e che quindi possono portare una lettera, una fotografia e riportare le notizie. Comunque noi da Natale non abbiamo più notizie del padre di questo bambino. E' un ragazzo di 24 anni, non è un combattente, è un ex-operaio saldatore. lavorava nella fabbrica più grossa che c'era a Sarajevo. Ho conosciuto questo bambino in giugno, lui allora aveva 5/6 mesi. A maggio una granata era scoppiata di fronte a casa sua, nella periferia est di Sarajevo, in una di quelle case non in campagna, ma dove la città non è ancora cominciata ed è vicina alla prima linea. A mezzogiorno sparavano verso casa sua, la madre spaventata ha attraversato la strada, cercando di correre dai vicini, la granata è caduta a pochi metri da loro, la madre è morta sul colpo e il bambino ha B perso la gamba. lo l'ho conosciuto in ospedale, stavo facendo un servizio sui bambini e la guerra. Allora non se ne parlava molto, cioè si parlava della guerra di Sarajevo, ma non che si stava distruggendo un mondo, bello o brutto che fosse, e si stava segnando per sempre una generazione che sta crescendo. • una generazione che sta crescendo segnata per sempre Si può ben immaginare cosa vuol dire che tutte le classi scolastiche di Sarajevo quest'anno hanno dovuto imparare come si sopravvive ad un assedio. In questa seconda metà del secolo una città con quasi 400.000 civili che sono ostaggi è una cosa senza precedenti. lo credo che un domani ci sarà del lavoro da fare per gli psicologi, per studiare una generazione di bambini che ha vissuto la scomparsa di amici coetanei morti. lo stavo facendo appunto un servizio su questo e mi sono recato in un reparto dell'ospedale principale di Sarajevo. Stavo finendo il servizio quando mi hanno tirato per la giacca e portato in una stanza dove c'era questo bambino. Sul primo momento non mi ero neppure reso conto che il bambino avesse perso la gamba perché era tutto infagottato. Mi aveva colpito molto iI fatto che fosse allegro, che sorridesse. Sono poi ritornato a Sarajevo una volta successiva per fare altri servizi e una seconda volta, a novembre, sono ritornato in ospedale per rivedere il bambino che aveva colpito me come gli operatori, che sono sloveni. li bambino era già stato dimesso ed io ingenuamente pensavo che avesse già una protesi. Ho chiesto l'indirizzo di casa per andarlo a trovare, volevo portargli della cioccolata. Mi avevano sconsigliato di andare perché il posto era molto pericoloso, la casa infatti era in prima linea. Mi ero insospettito perché immaginavo che non potesse recarsi in ospedale per fare fisio-terapia se iI posto dove abitava era tanto rischioso. Quando ho raggiunto la casa vi ho trovato suo padre che era disperato perché passavano i mesi e questo bambino era costretto a restare chiuso in casa, una casa che sembrava un bunker perché avevano murato le porte e le finestre che davano sul lato dove i cecchini potevano sparare. li bambino era impossibilitato a ricevere una protesi proprio nel momento in cui avrebbe avuto voglia e bisogno di camminare. allora infatti si avvicinava CO agli undici mesi. Se non avesse avuto la possibilità di camminare, almeno così io pensavo. si sarebbe rassegnato a gattonare. si sarebbe abituato con naturalezza a una condizione handicappata. C'era quindi anche un problema di urgenza. Bisognava tentare il tutto per tutto, bisognava provare a portarlo fuori di nascosto, con il consenso del padre naturalmente, anche col rischio che succedesse qualcosa. Purtroppo none·era altra via, non c'erano convogli di profughi. E' stata una cosa un po' avventurosa e fortunata perché nei dieci chilometri di terra di nessuno, la fascia d'assedio serba, non ci è successo niente, quando abbiamo passato i controlli non sono stati rigorosi forse perché era un giorno di pioggia. Eri da solo? No. ero con una collega giornalista italiana. Anna Cataldi, che mi ha aiutato a tenere il bambino che fortunatamente dormiva. La nonna l'aveva, apposta, tenuto sveglio tutta la notte per paura che piangesse durante il viaggio. li bambino era nascosto e naturalmente avevamo già deciso che se ci avessero fermato avremmo tentato di corrompere qualcuno. Avevo delle banconote pronte nel taschino e comunque non l'avremmo mai consegnato, piuttosto avremmo cercato di creare un incidente internazionale. eravamo felici per il faffo di aver faffo qualcosa A volte mi sono chiesto, al di là dell' intollerabilità di un bambino in quelle condizioni per cui era quasi un dovere aiutarlo nel momento in cui non c'erano altre possibilità, perché l'ho fatto e perché altri mi hanno aiutato a farlo, rischiando e andando fuori dal loro vero compito. Questa troupe slovena che lavora con me era pagata per rischiare, ma non per portare fuori dei bambini. non è compito loro. L'unica risposta che riuscissi a darmi era che c·era anche una sensazione di impotenza, rispetto alla situazione che uno vedeva perpetuarsi nei mesi: c ·era l'idea che in definitiva servisse poi a poco continuare a mostrare queste immagini che denunciavano quello che stava succedendo a Sarajevo. oltre che nel resto della Bosnia. Capire che serviva a poco trovare sempre della gente che ti guarda chiedendoti aiuto e a volte che Liguarda con quell'espressione di accusa perché a loro, ed è difficile elargii torto. sembra incredibile che a poche centinaia di chilometri tutto continui come prima. Molti dicono: in Somalia è stato fatto, nel Golfo è stato fatto e noi invece non contiamo niente. C'è un atto d'accusa e di richiesta di aiuto, che va oltre l'invio di coperte, di viveri, di medicinali. A volte ti spiegano il loro essere mussulmani e si chiedono se questo non comporti, nell'immagine che l'opinione pubblica in Europa si costruisce di loro, un senso di distanza che fa sì che non li si ritenga europei. Con questo sentimento di impotenza, il fatto di portare via il bambino è stato come una liberazione da questa stasi. Infatti dopo eravamo felici, non solo perché eravamo riusciti a fare questa cosa precisa, ma per il fatto di avere fatto qualcosa. Ci siamo ribellati anche alla deontologia del nostro mestiere. Potremmo dire a noi stessi che siamo andati oltre le righe. Di tutta questa vicenda si è parlato anche per raccogliere solidarietà per questo bambino, una sottoscrizione in una Banca che servirà a crescerlo con maggiore serenità, a pagare queste protesi. Ognuno ne ha parlato, c'è chi ha messo in televisione il dolore, c'è chi ha preso le distanze. Tutto questo era comunque per me molto secondario, da questo punto di vista è una faccenda chiusa. Piuttosto c'è una considerazione: da parte mia, ma posso dire anche nostra, considerando gli operatori. c'è più che altro un atto di bontà. Mi hanno fatto commendatore per questa cosa, mi sono anche divertito perché ho diversi precedenti penali, cose banali, del passato, non particolarmente violenti. ma hanno a che vedere con le • leggi dello Stato. Da un lato mi fa piacere condurre una vita un po' ai margini della società e poi avere un riconoscimento così ufficiale, è buffo, non per mancanza di rispetto, ma mai e poi mai avrei pensato che l'ufficialità arrivasse a riconoscere delle esistenze che non hanno le carte in regola per essere riconosciute in quel contesto. Dall'altro una cosa che mi fa sorridere è che contemporaneamente è stato un gesto di bontà e un po· anche un atto di accusa. lo vedo le persone che incontrano questo bambino, c'è la persona anziana che si commuove, però per altri è come se toccassero con mano eri manessero in qualche modo feriti dall'esistenza di una guerra civile, spietata, alle porte di casa. Chi ha modo di vedere questo bambino che ancora non cammina, tolto lo schermo protettivo, neutralizzante, della televisione o della carta dei giornali, si trova di fronte ad un atto di accusa: che si possa sparare contro un obiettivo mirato, perché non è stato un fatto casuale, cioè su una donna che fugge con un bambino in braccio. Non voglio con questo lanciare un'altra accusa su chi ha compiuto ciò. Eche questo stia avvenendo a poche centinaia di chilometri da casa nostra, fa sentire un po· male la gente, quando ha modo di capire con un'esperienza un po· più diretta cieli' informazione che sembra sempre uguale. Conoscevi la Jugoslavia? Mi sono interessato di posti anche molto più lontani, ma quello che succede inJugoslavia mi interessa anche perché era un paese che conoscevo, al quale ero in parte affezionato, perché a lungo, pur non condividendo alcune caratteristiche cieli' esperienza jugoslava, mi era sembrato un socialismo comunque con delle caratteristiche più umane. diverso dalle esperienze monolitiche che venivano condotte in quegli anni in altri paesi. A lungo era stato capofìla dei nonallineati e quindi per chi si è occupato di politica estera è stato un paese che ha rappresentato. in qualche modo. la speranza. nel periodo in cui il mondo viveva nell'equilibrio del terrore fra le super-potenze. Si potevano affacciare nelle scena internazionale elcipopoli che erano mossi non da brama di potere, ma dall'affermazione delle autonomie e delle indipendenze. Erano tutte idee che negli anni sessanta sono state care ad una generazione. Però e· è una ragione che secondo me è più generale ed è molto più attuale ed è che spesso, parlando con la gente comune ed anche facendo dei servizi per la televisione, che deve parlare un linguaggio comprensibile per un largo numero di persone, questa guerra sembra molto distante. Per la persona comune. per chi non fa politica e non è tenuto a conoscerli, "cetnici" e "ustascia" sono nomi difficilmente decifrabili. La ferocia di questa guerra, a volte, la fa sentire come un rigurgito di un passato lontano, medievale: come quando si parla di guerre sante, una cosa che a noi non può accadere, qualcosa che fuoriesce dai tombini del presente, una cosa che appartiene alle viscere del passato e chissà perché lì si è tramandata. Invece quello che sta succedendo è purtroppo di una pericolosa modernità, perché Sarajevo quattordici mesi fa, cioè prima della guerra, era una città dove essere serbo o mussulmano o croato era una qualità molto accessoria dei rapporti interpersonali, c'erano molle coppie miste, nel censimento c'erano moltissimi che si dichiaravano jugoslavi. Per essere più espliciti era una città molto vivace per la cultura, una cultura molto "moderna". Il regista Kusturica è di Sarajevo. A Sarajevo si faceva molto teatro d'avanguardia, ci sono molti gruppi che fanno musica. ci sono moltissimi locali dove si fa musica dal vivo, era una città con cui era facile interloquire, in più, rispetto a moltissime altre città. aveva il fascino a tutti i livelli di una città dove le culture si sono incontrate e incrociate e che hanno prodotto delle intelligenze più vivaci. Ciò è visibile nell'architettura quando ci si trova di fronte al palazzo delle poste, che sembra un'opera di pasticceria, o a un minareto o ai viali sterminati della Jugoslavia ·'socialista e progressiva". E anche per la cucina: si mangiavano dei dolci turchi, della carne speziata alla maniera serba, delle verdure messe insieme al modo croato. Era una città con un fascino particolare dove tutte queste cose e le esistenze delle persone erano molto intessute fra di loro. Quindi uno non si deve immaginare queste figurine da presepe che si vedono oggi fuggire da Srebreniza, quando camminano nella neve con i pantaloni alla zuava, immagini lontane d'altri tempi. Bisogna immaginare delle persone che vedevano i film che noi vediamo, che leggevano i libri che noi leggiamo, che scartavano dal loro futuro, con la nostra stessa sicurezza, la possibilità di una guerra, che progettavano la loro vita in un modo non molto diverso dal nostro. Questo tessuto umano, civile e culturale è precipitato in un assedio e in una guerra etnica che è quanto di più feroce ci possa essere e che è nello stesso tempo una minaccia tremenda. non è rigurgito del passato, ma una cosa molto moderna Ad esempio, quando dico che trovo quello che sta succedendo a Sarajevo, che è nel cuore cl' Europa e dove l'occidente e I'oriente si incontrano, inquietante e moderno penso che le immagini che la città mi richiama sono quelle dei naziskin in Germania e delle tensioni che percorrono l'ex Unione Sovietica. dei nazionalismi macedoni o degli azeri che insorgono. Quelli della mia generazione che sono abituati a leggere semplicemente il mondo nella contrapposizione tra una spinta al progresso, all'unità fra i popoli e una spinta del dominio di classi privilegiate, improvvisamente si trovano a misurare una realtà molto più feroce, di identità che si aggrappano a lingue, a religioni, a culture, riducendosi all'osso e sono fondate non sul riconoscere il diverso e ad apprezzarlo ed a valutarlo proprio in quanto diverso, ma sul riconoscere in modo sempre più ristretto solo chi è uguale a te, per capire che chi non è uguale a te è un tuo nemico. Questa è una cosa che può succedere anche in Italia. E' una minaccia che non è solo esterna, nel senso che appartiene solo alle cronache dei giornali, appartiene anche al nostro interno, appartiene ad una generazione che è cresciuta leggendo le storie dei campi di concentramento considerandole come un passato sepolto e che come tale non sarebbe mai più riapparso, neppure sotto forma di zombi. Invece l'Italia, che è un paese notoriamente non razzista, o che considerava se stesso non razzista e considerava razzista gli Stati Uniti ai tempi in cui gli atleti neri salutavano col pugno per contestare. nel momento in cui comincia ad avere un problema razziale al suo interno, scopre che le cose non sono semplici. anche all'interno di ciascuno di noi non sono così semplici. In questo senso io trovo che quello che sta succedendo a Sarajevo. città con la situazione più simile alla nostra, è un monito per il futuro de li'Europa. Credo che lì si giochi una partita. che è quella della possibilità di convivere in Europa pacificamente tra popoli diversi, tra religioni diverse. tra culture diverse che temo che lì, in quel punto. sia ormai defìnitivamentc persa. Quest'anno di guerra ha lasciato uno strascico di odi difficilmente sanabile. Ha lasciato ferite insanabili nei

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