Una città - anno II - n. 17 - novembre 1992

essere e sentirsi emigranti nella storia di Angel~ Nigri. Partita giovanissima per la Germania, nei primi anni seffanta, ancora oggi vive e lavora a Mannlteim. Sono venuta in Germania nel '73- '74, avevo appena finite le medie. Mio padre, se ben ricordo, era emigrato un anno dopo la mia nascita. Noi allora abitavamo in campagna. Ricordo che il papà arrivava una , due volte l'anno ... Mi ricordo valigie che profumavano di banane, di cioccolata, di caramelle. Arrivava, stranamente, quasi sempre di notte e la mattina c'erano queste valigie che non bisognava toccare assolutamente, perché era lui che voleva distribuire le cose. Sicuramente non venne in Germania da solo. Non gliel'ho mai chiesto, ma non è mai stato un tipo intraprendente e non credo che sia partito di sua iniziativa: "adesso vado via, a guadagnare il pane per la mia famiglia ...". Deve essere successo qualcosa, come ho sentito da altri emigrati di quel- !' epoca: in quegli anni c'erano degli accordi fra la Germania e l'Italia, la Germania chiedeva manod'operaeincambiodava non so che cosa ... Io so di molte persone alle quali arrivava un contratto di lavoro, sì, glielo ficcavano in tasca: "vieni pure, c'è lavoro ...". Immagino che possa essere successo così. Io di quegli anni ricordo soprattutto gli arrivi e le partenze, i pianti, situazioni molto tragiche, drammatiche, soprattutto quando mio padre portò su il più giovane dei nostri fratelli. Ecco, lì mi ricordo molto bene i pianti per ore, queste valigie che si preparavano, una tensione indescrivibile. Così per dieci anni fino al 1970. Poi ricordo la tensione che si è creata in famiglia per iI fatto che mio padre fece capire che non aveva più voglia di starsene in Germania. Fra l'altro non aveva nemmeno raggiunto l'età pensionabile e lui non era il tipo che, se tornava in Italia, poteva andare a guadagnarsi da vivere. Più o meno lo avremmo dovuto mantenere. Una tragedia! Tua madre era mai venuta in Germania? Deve essere venuta per un' occasione particolare, forse per un ricovero, ricordo delle foto ... , non per il semplice piacere di venire a trovare il marito. Avevate una situazione molto disagiata a casa? Sì, estremamente. Ma tutto è relativo. lo so che non potevamo permetterci certe cose ... C'era la tradizione di fare il corredo e se si spendeva qualcosa si spendeva per il corredo delle figlie. La nostra situazione era misera, considerando il fatto che mia sorella, che ha un anno più di me, ha fatto solo la quinta elementare e dopo è andata a fare le pulizie in casa di professori e un'altra mia sorella più grande e l'ultimo dei miei fratelli guadagnavano qualche lira girando a vendere bevande: l'aranciata, ecc ... Mio padre mandava il minimo indispensabile, non bastava neanche a lui quello che guadagnava. Non è stato il padre che ha fatto i sacrifici come tanti altri. Insomma, aveva posto delle condizioni del tipo: "o venite voi o me ne tomo io". Noi eravamo rimasti in cinque a casa (deve essere stato nel '72). Lui tornò, doveva aver usufruito del diritto di rientrare nel proprio paese, con la disoccupazione, per cercare lavoro. In quel periodo, durato mesi, è stato tutto il tempo a casa. Era chiaro che la nostra famigf ia doveva fare il sacrificio di andare via, non c'era altra soluzione. Alla pressione di mio padre era chiaro che bisognava andare. Non so se a mia madre sia mai passato per la mente di venire, ma mio padre non voleva stare solo. Come vivevi la lontananza da tuo padre quando era emigrato? Io mi sono resa conto di avere un padre quando sono venuta in Germania, perché prima era solo una persona da temere. Quando c'era qualcosa che non andava, anche banale, mia madre diceva: "quando viene tuo padre poi facciamo i conti!". Avevo il terrore, ecco il mio rapporto. Chi ha deciso che tu venissi qui? Io stavo facendo la seconda media quando mia madre e tre dei miei fratelli vennero in Germania. lo e la mia sorella più giovane rimanemmo da una sorella più grande. Noi eravamo troppo giovani ed evidentemente non eravamo considerate ancora mano d'opera ... , oppure ... non so, non l'ho mai chiesto. Comunque, in primavera ci fu il .matrimonio della sorella di mia cognata. Considerando che la mia famiglia era in Germania, la mia sorella grande faceva le veci dei genitori, e mi portò a questo matrimonio. Lì ho incontrato il mio primo amore. Quando si seppe di questa storia mia sorella non volle problemi e responsabilità e quindi fui presa e portata qui in Germania. lo avevo capito che si veniva su a passare le vacanze e non avevo assolutamente realizzato che tutto fosse calcolato. E così mi sono trovata qui, in una frazione di Ludwigshafen. Avevo 14 anni. Hai iniziato subito a lavorare? Non subito. Posso dire di essere stata privilegiata. Mio padre deve aver frequentato il cosiddetto Centro Italiano che è collegato alla Missione Cattolica, la Caritas, ecc. E' venuto a sapere di un corso organizzato dallo J ugendsozialwerk, che ha il compito di integrare i giovani stranieri nel mondo del lavoro. E così mi sono messa a frequentare questo corso che consisteva in lezioni di cultura generale: una settimana di lezioni teoriche, una settimana di pratica. Ma il corso ci preparava di più a livello linguistico che pratico. Alla scadenza dell'anno di corso ebbi un contratto di lavoro con la BASF. Ci sono rimasta otto anni. Lavoravo in un laboratorio come manovale, eseguivo degli ordini e basta. Non guadagnavo male; ricordo che negli ultimi anni sono arrivata a 1.700 marchi netti. Non mi consideravo sfortunata, lì si faceva veramente poco, una bella vita, il caffè al pomeriggio, non mi sentivo sfruttata. A 18 anni, appena sono riuscita a trovare una casa, sono andata via di casa, in pigiama, di notte. Prima di scappare quella notte avevo portato via la mia roba, nessuno se n'era accorto: mia madre non si occupava mai della nostra stanza, i letti ce li facevamo da soli, non avevo assolutamente rapporti in famiglia. Andare via di casa in quel momento non voleva dire che volevo rimanere in Germania, ma significava per me non sottostare a delle condizioni che non mi andavano, alla disparità dei diritti e dei doveri nei riguardi soprattutto del maschio che avevamo in casa, mio fratello. Ad esempio avevo cercato, senza successo, di convincere mia madre a mettere un po' dei miei soldi che guadagnavo sul libretto, per me. Ogni volta si arrivava alla metà del mese senza soldi, si aspettava con ansia questo 15, per mangiare. Insomma, non era possibile. Si lavorava in quattro e non c'erano mai soldi. C'era qualcosa che non andava. Quello che riuscivo a vedere era questa diversità nel concedere, fra quello che veniva concesso alle femmine e al maschio. Mio fratello a 18anni aveva la sua macchina, usciva, andava nelle discoteche, ogni volta erano 20-30 marchi ed io dovevo perfino discutere per il biglietto del tram. Cose assurde. Per la mia famiglia fu uno scandalo. Mia madre mi disse: "almeno te ne fossi andata via con un uomo!". Dopo un anno mio padre, mia madre e mia sorella più giovane sono tornati in Italia. Dal momento che te ne sei andata i rapporti con i tuoi si sono interrotti? Dire interrotti è relativo. Pensa che appena pochi giorni dopo essere andata via mi sono trovata davanti alla porta di casa i miei genitori. Ancora oggi non so come hanno potuto trovarmi, perché nessuno aveva il mio indirizzo. Non mi ero registrata, niente. Mia madre in lacrime, mio padre calmo. Io gli avevo lasciato una lettera in cui dicevo che me ne andavo perché quella non era una casa, ma un tetto sotto il quale convivevo con altre persone e basta. Non so cosa ho provocato, non so se sono stata capita, non ne abbiamo mai parlato. E sul lavoro come andavano le cose? Non so quanti anni ci ho messo prima di riuscire a portare avanti dei dialoghi con gli altri, nel lavoro. Prevaleva sempre la sensazione di una che è "sotto". Una che deve tenere la testa bassa, soprattutto. Mi sentivo comunque in un mondo che non era semplicemente mio, a mia misura; ero tra adulti ... in fondo ero una bambina, avevo 14 anni. Avevo un rapporto di forte dipendenza soprattutto con la capo-reparto. Negli ultimi anni, anche se non in maniera cosciente, per me era chiaro che lì dentro stavo soffocando, istupidendo. Mi passavano per la mente varie cose, di andare a lavorare con mia sorella che faceva giardinaggio ... , pensavo di fare altre cose. L'ultimoannoallaBASF, quando tornavo a casa, non facevo che piangere, la mia vita era così vuota, ero molto depressa. Andavo al lavoro, tornavo a casa, non avevo punti di riferimento, ero molto sola, non sapevo che farmene delle mie serate, dei miei fine settimana. Cercavo degli agganci, mi compravo dei giornali alternativi per cercare degli appigli, non sapevo nemmeno come avviare qualcosa con qualcuno. Come è venuta la decisione di studiare? Non è stata una decisione. La BASF organizza questi corsi di informazione, di lingua, ecc. e mi venne in mente di fare un corso di francese. Qui ho incontrato il mio maestro. Lui mi diceva: "Ma lei cosa fa qui? Dovrebbe fare I' Abitur. .." (Maturità. n.d.r.) lo non sapevo nemmeno cosa fosse. Mi sono innamorata di lui. Lui mi ha stimolata molto a riprendere gli studi e così è stato. Ho ripreso a studiare quindi, frequentando normalmente tutte CO le mattine, usufruendo un po' dei miei risparmi-e del sussidio che danno a chi vuole riprendere a studiare. In quegli anni non avevo problemi economici, quindi ho continuato fino alla maturità, nel 1986. Com'era il rapporto con i professori e i tuoi compagni di classe? In quel periodo, per quanto riguarda la scuola, stavo molto bene. Con due professori, soprattutto, ho avuto un rapporto veramente profondo. Mi rendevo conto che stavo imparando tanto da loro, ero assetata di sapere, per me era un piacere pazzesco andare a scuola. Era meno facile con i miei compagni, ma ciò che mi interessava di più era quello che stavo facendo e tutto il resto passava in secondo piano. Dopo la maturità? Sono stata in Francia per un anno poi sono ritornata, ho ripreso il lavoro con le lezioni e i corsi. E poi l'iscrizione all'Università di Heidelberg alla Facoltà di Romanistica con il tedesco come lingua straniera, perché non mi sentivo completa. Avevo l'impressione di dover imparare ancora molto, ero molto cosciente delle mie lacune. Avevo un sussidio di 800 marchi al mese, a titolo di credito (ho 30.000 marchi di debito). Comunque ho studiato per tre anni e per avere il sussidio bisogna dare gli esami entro un certo tempo. Mi sono lasciata andare e non ce l'ho fatta. In quel periodo sono venuta a sapere che cercavano un'italiana, col mio grado di istruzione, per un progetto per la scuola materna nel quartiere Jungbusch a Mannheim, che riguardava i bambini stranieri presenti nella scuola materna, la loro integrazione, e poi anche l'indagine sulle famiglie. L'intento è di creare negli asili una situazione di multiculturalità e di operare affinché il bambino straniero non venga considerato come portatore di deficit. Il mio compito è quello di servire da modello bilingue per i bambini: con i bambini italiani parlo italiano, con i tedeschi parlo tedesco. E poi faccio da tramite per quanto riguarda i conflitti che vengono a crearsi semplicemente per le diversità culturali. La cosa interessante è che qui a Mannheim si è creato un team, un gruppo di consulenti pedagogici, che sta portando avanti un lavoro per garantire una certa continuità a quello che si sta facendo. Si organizzano corsi, seminari, aggiornamenti su varie tematiche, soprattutto sulla diversità. E' una pianta che crescerà. E' importante il fatto che ci sia una consulente pedagogica per i bambini stranieri, partendo dal concetto che il bambino straniero non è portatore di handicap, che non è da modellare. La percentuale di bambini italiani nelle "Sonderschule", le classi differenziali, è molto alta. Questo a cosa è dovuto? Io credo che quello che manca agli italiani, nonostante si dica che sono orgogliosi, sia l'autostima. Innanzitutto non hanno un buon rapporto con lo stato italiano, con il loro paese. I genitori non fanno lo sforzo di comunicare con i loro figli, i bambini italiani sono al centro "dell'attenzione" dei genitori, sono poco autonomi, viziati, coccolati, ma quello che si fa è a livello di soddisfare le loro richieste, soffocandoli di giocattoli per tenerli buoni. Naturalmente un bambino che vive "dentro la famiglia" questa atmosfera di non comunicazione, di passività, porta poi queste caratteristiche anche ali' interno dell'asilo. Se poi si aggiunge la carenza linguistica ... Inoltre gli italiani, a differenza di altri stranieri, molto più facilmente hanno assimilato il modello di dover parlare il tedesco con i loro figli. C'è proprio un rifiuto linguistico che vuol anche dire rifiutare la propria identità di essere italiani qui. Capiterà di incontrare famiglie con figli che fra di loro parlano tedesco, gruppi di ragazzi italiani che fra loro parlano tedesco, ma non si incontreranno mai turchi che parlano fra di loro in tedesco. Ci sono genitori che si vantano di parlare tedesco coi propri figli, anche se è "Gasterbeiterdeutsch" cioè il tedesco del lavoratore straniero, e non può essere un modello per i bambini: sarebbe molto meglio parlare il proprio dialetto che una lingua storpiata. E poi c'è un atteggiamento di menefreghismo molto forte. Questa gente viene in Germania per cause che ben conosciamo, spesso derivano da tragedie, da situazioni misere, ma non solo misere materialmente. Glielo leggi in faccia che si portano dei bagagli pesantissimi. Ma venire in Germania significa sostanzialmente guadagnare dei soldi, non vuol dire anche "coltivarsi", migliorarsi a tutti i livelli. Lo scopo è guadagnare 2.000, 3.000, 4.000 marchi al mese, mettere via i soldi per comprare la casa, la Mercedes, e non si portano dietro l'educazione della responsabilità rispetto ai loro figli. Questo significa anche che non sono assolutamente informati né si sforzano di esserlo. Si può chiaramente controbattere che sono lasciati soli ali' origine, che non esiste un servizio che garantisce a questi genitori una informazione tale da permettergli di orientarsi ...o se c'è, è ad un livello molto burocratico, tipo l'Agenzia Consolare, la Direzione Didattica. Non so se dovrebbe essere un obbligo consultare i servizi pedagogici e didattici per i propri figli quando ci si iscrive ali' anagrafe... Comunque sono impreparati per molte cause e tutto poi si riversa sui figli e il massimo che cercano di fare è mandarli al più presto all'asilo. C'è proprio il mito dell'asilo: se i bambini non vanno ali' asilo non imparano il tedesco e poi andranno male a scuola. Fatto sta che ci sono bambini che hanno frequentato per tre anni l'asilo e ugualmente sono arrivati alle scuole differenziali. Quindi il discorso dell'asilo è molto relativo. E poi c'è anche la teoria del deficit: il bambino straniero non è portatore di un'altra cultura, ma è portatore di handicap. Se si considerano tutte queste esperienze negative e prive di stimoli per-il bambino, sin da dentro la _famiglia, si trovano le cause di certe situazioni. Come vedi gli italiani che sono qui? lo nella mia prima fase in Germania ho rifiutato l'italiano. Un rifiuto totale, ho rifiutato i miei genitori, la mia identità. Non ho rifiutato consciamente la mia lingua, ma l'ho rifiutata non curandola, non leggendo in italiano. E' stato un periodo lunghissimo, una decina d'anni. Rifiutavo gli italiani che stavano intorno a me, ragazzi con cui non avevo niente in comune, giovani che erano venuti prima di me. I maschi erano maschiacci che allungavano le mani e basta. Adesso c'è una nuova emigrazione, quella qualificata ed è un clichè parlare di italiani, turchi ecc. Bisogna parlare di italiani della prima generazione, della seconda, della terza. Bisogna fare delle distinzioni. Esiste una prima fascia di italiani che è venuta qui soltanto per lavorare, che si è fatta proprio calpestare, si è fatta assistere e non ha mai sentito il bisogno di rivoltarsi. In tedesco si dice "demutig", remissivo, umile. Questa fascia si è sempre considerata "gastarbeiter", lavoratore ospite, punto e basta. Non ha mai cercato di considerarsi cittadino di questa comunità. La Germania era solo qualcosa di provvisorio: un provvisorio che è diventato venti-trenta anni. Poi ci sono quelli, più omeno come me, venuti a 12/13 anni. Pochissimi sono riusciti ad avere la Maturità, a meno che non fossero figli di papà. E pochissimi sono riusciti a conquistarsi una loro identità: "sono anche italiano, perché vergognarmene?". No, preferiscono il tedesco, arrivano a considerare il tedesco come lingua madre. Alcuni di questi li vedi nei corsi di italiano per tedeschi, li vedi arrossire quando gli dici "Ma tu sei italiano! Sei figlio di italiani e non conosci la tua lingua?" Da una parte si sono adeguati al massimo, dall'altra si vergognano quando incontrano stupore sul fatto che non conoscono la loro lingua. Quindi evitano le situazioni in cui possono confrontarsi con questa incapacità. E' capitato anche a me nel periodo del grande rifiuto. Le difficoltà sono oggettive. Qualche volta mi rendo conto che faccio più fatica a comunicare in italiano che in tedesco, e poi uso strutture non corrette in italiano. Quando parlo tedesco ho altre insicurezze, ho paura per esempio di fare errori di pronuncia. In italiano ho altre ansie, in tedesco riesco a produrre verbalmente il mio pensiero. Indubbiamente c'è un senso di inferiorità che non ho ancora digerito, che non ho ancora superato. Alcuni anni fa vivevo questo in modo diverso, adesso sono molto più cosciente della mia inferiorità, di questo mio "non poter essere". Se potessi sentirmi partecipe di questa comunità, di questo ambiente nel quale vivo, trovare il mio posto ... A volte vorrei tornare in Italia, poter essere cittadina almeno. Però con la Germania ho un buon rapporto. Per me Germania vuol dire aver potuto fare carriera "sociale", cosa che in Italia, al mio paese, non sarebbe avvenuta, vuol dire aver potuto studiare. E di questo sono grata alla Germania. Ma la Germania per questa mia gratitudine deve darmi uno spazio. I tedeschi invece mi ricordano continuamente che sono straniera. Non cerco un rapporto con loro e non mi manca, perché attraverso di loro io vivo una sensazione di "non essere". Forse non è neanche così, ma ogni volta con loro devo raccontare troppe cose di me. Ogni volta devo giustificare la mia presenza qui. Ecco, non sei mai alla pari, non sei "cittadino" di questo posto. -

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