Terza Generazione - anno II - n. 9 - giugno 1954

La legge dello Stato e la legge. della giungla 1. - Sovente non sianio coscienti di quanto la nian– canza di uno Stato unitario ed 01nogeneo, di una co,nune coscienza dei cittadini sulle leggi e le ragioni del convivere infiuisca sul coniporta1nento e sulla nioralità dell'uomo coniune. La ,nancanza stessa di un chiaro fine nazionale, di una vocazione particolare che dia allo Stato quel co~ipless~ d~ valori storici attorno al quale si raccolgono gli sforzi di tutti senibra ridurre la convivenza di uo1nini, cittadini J dello stesso paese, alla mera e f armale organizzazione delle attiv1.·tà cosidette " pubbliche ". Infatti siamo tutti abituati a esaminare lo Stato conie l'insienie delle istituzioni e delle forze politiche che si 1nuo– vono nella zona pubblica, continua1nente divisa dal mondo dei rapporti umani, delle attività comuni, della nioralità coniune degli uoniini, che pure formano lo Stato. Anche quando parliamo di crisi dello Stato, siamo por– tati a vederla o co1ne crisi del parlamentarismo, o come in– sufficienza della democrazia, o come carenza dei partiti ad inserire nello Stato tutti gli uomini di questo Paese, e in– fine tutte queste cose messe insieme. Difficilmente ci si ri– corda che la crisi dello Stato ha anche delle conseguenze e degli effetti più profondi, più significativi e in definitiva più radicali. Difatti lo Stato è per sua natura il centro di gravità della moralità civile di ogni uomo, il punto di unio– ne delle volontà e delle attività di ogni giorno ad un fine coniune, che dà un senso universale di contributo civile ai sacrifici delle ,nadri di famiglia, all'onesto esempio dei pa– dri, alle speranze e agli entusiasmi dei giovani. E' nello Stato, nel senso di un comune indivisibile destino che è dato agli uoniini di sopportare la povertà con fierezza, il r;acrifzcio con virilità, che è possibile alimentare i progetti del futuro e tendere le vocazioni e le speranze di una so– cietà a un fine migliore. Quando è in crisi lo Stato non si possono e non si rie– scono a chiedere sacrifici che non siano irridenti, non si riesce ad inipedire che la moralità civile, il lavoro onesto, l'esenipio venga tutti i giorni profondamente offeso dagli speculatori, dagli scialacquatori e dai profittatori. Non si riesce a contenere lo sfacciato e corruttore arri– vis1no di questi in difesa dell'umiliato sacrificio degli uo– nvini coniuni. Le ultin1.e vicende di un processo famoso sono istruttive: esse più che una sventurata storia, più che un caso da isolarsi, sono il campanello d'allarme sulla poca resistenza che lo Stato di tutti i cittadini italiani f à di fron– te alla legge della giungla che cerca di farsi strada nel– l'ordinata e pacifica società civile. li crollo del centro della comune 1noralità, del punto ove si fissino le speranze dei giovani, dello strumento del, l'ordinato vivere civile degli uomini comuni, è male più profcmdo della rnedesin1a crisi dei partùi politici, e delle istituzioni parlanientari. dell'amministrazi.one slala/e. In ibliotecaGino Bianco questa maniera non stru1nenti, non siste1ni particolari che si possono riformare e correggere, non forze che si pos– sono sostituire, 1na l'essenza stessa dello Stato, la ragione per cui ogni italiano si senta men1bro e cittadino, è radi– caln1ente messa in pericolo. 2. -- Il valore della de11iocraz1.'adovrebbe essere soprat– tutto questo: quello di dare visibilniente al cittadino, al– l'uomo coniune, il senso della propria partecipazione alla comunità statale. V orre1n1no dire che la deniocra– zia dovrebbe essere l'incarnazione dello Stato di diritto: è· il principio degli uonzini uguali di fronte alla legge, ,il prin– cipio stesso della suprenia dignità dell'uonio, raggiunta solo nella convivenza statale che trova nell'esercizio della de- 1nocrazia la sua applicazione storica, concreta, niobilitatrice di volontà, carica di decisioni. E' indubbio che in teoria è la democrazia quella che rneglio può esprùnere il senso effèttivo della nioralità convune che ha al suo centro lo Stato. Nella deniocrazia ciascuno sceglie il destino dello Stato in base alle esperienze di ogni giorno: e ciascun citta– dino decide sull'indirizzo della coniunità trovando la for– za e le occasioni per la decisione nel suo lavoro quotidiano: il padre di faniiglia darà un fine allo Stato che sarà niolto siniile all'idea che ogni giorno egli si fa della sua niis– sione e dei suoi conipiti, e la ,naclre di faniiglia darà un fine allo Stato in cui si ripetono i sacrifici e gli sforzi conz– piuti ogni giorno, e il giovane, infiJZe, darà ad esso un signi– ficato ùi cui trovano posto le sue stesse speranze e l'av– venire. La democrazia teoriLza così uno Stato che parli il lin– guaggio degli uo1nini con1uni e che sia i1nn1ensa1nen te forte per la moralità che ogni cittadino ha ad esso affidato: quella stessa che espletata tutti i giorni, in fondo permette ad esso di sopravvivere. In pratica però, la nostra denzocrazia parla ogg1· il lin– guaggio dei notabili, e il suffragio serve a chiedere la ra– tifica di situazioni predeternzinate: la cerinionia esclude dal voto e rial significato del voto la nzoralità che regge la v-ita degli uonzini tutti i giorni: si scelgono le ideologie, t' partiti conie strunienti di soluzione, in cui lo Stato si an– nulla: si vota per questo o per quel partito e non perclzè questo e quel partito governi e dia la linea politica allo Stato. Si creano così gli stati nello Stato, anirnati dallo spirito di sopraf!azione e di violenza; ed i notabili, sorretti dalla nioderna cultura che li ha sradicati e divisi dal sentire coniune e dalla con1une nzoralità degli uotnini, si contendono gli stnnnenti per dirigere la storia, lasciando al nieccanisnio della denzocrazia il solo conzpito di chiedere le ratifiche del loro operato. In questa situazione gli stessi fini generali vengono a niancare e ben presto ci si accorge che non si ha un fine

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