Terza Generazione - anno II - n. 6-7 - marzo-aprile 1954

tare dell'educazione necessaria a quei gio– vani '' che studiano per diventare dirigen– ti", cioè per diventare di " quelli ai quali la comunità, attraverso i suoi organi com– petenti, attribuisce la responsabilità di azio– ni o servizi che esigono la collaborazione di altri uomini o che concorrono a deter– minare le condizioni di vita di altri uo– mini ". "Questa categoria di responsabilità sociali forma, appunto, quella che chiamia– mo classe dirigente, la cui scelta ha luogo secondo metodi vari, condizionati dal tipo della funzione o dal carattere della società. I giudici, ad esempio, possono essere eletti dal popolo o nominati in base a concorso. Il medico-condotto sarà prevedibilmente no– minato sempre per concorso ... ". Ora " nel nostro tempo, dominato dai progressi della tecnica, cioè dell'applicazione della scienza alle operazioni e ai procedimenti della vita pratica, quasi tutti i dirigenti quale che sia il modo di sceglierli, hanno bisogno di una preparazione scolastica specifica ". La scuola in Italia, però, osserva il Va– litutti, è ancora quella di una società ari– stocratica (di una società "che non rico– nosceva a tutti il diritto di acquistare e dimostrare le capacità necessarie per pren– dere parte al suo governo "). La nostra scuo– la è ancora quella che presuppone una se– lezione ed un orientamento preventivi della scolaresca - e oggi accedono alla scuola tutti i giovani " che, non più limitati dal diritto nè fermati dalle possibilità, aspirano ad acquistarsi i meriti e i titoli necessari per entrare nella competizione da cui esce via via rinnovata la classe dirigente " - e d'altra parte, immutata nelle sue forme or– ganizzative e nei metodi delle sue attività, essa favorisce ideali ed abiti che sono in– compatibili con le esigenze e le caratteri– stiche dell'attuale società, che è una socie– tà democratica. " Questo contrasto opera anche, se non soprattutto, nella educazione dei giovani che studiano per diventare dirigenti. La scuola nel suo pratico funzionamento non comunica loro l'idea del dirigente nella so– cietà democratica, ma piuttosto l'idea del dirigente nella società aristocratica ". " Il dirigente aristocratico è il dirigente che... si sente superiore a colui o a coloro che dirige; che non ne sollecita la colla– borazione ma si lùnita a pretenderne l'ob– bedienza; che non ha fiducia in loro, che non crede alle loro capacità, e che perciò non riesce a rispettarli come uomini. Il dirigente democratico è, invece, il dirigente che sente più la sua responsabilità di uo– mo che la sua autorità di superiore, e che perciò è consapevole dell'effetto umanizzan– te o disumanizzante di ogni suo atto diri– gente. Egli non ha che collaboratori... Il rapporto suo con gli altri non è un rapporto BibliotecaGino Bianco signorile, come il rapporto degli altri con lui non è un rapporto servile ''. " In Italia... predomina tuttora il costu– me dei dirigenti aristocratici, ed è questo costume, operante nel seno delle famiglie, nella cerchia della scuola e in ogni altra sfera sociale, che diseduca i giovani, e più precisamente, li prepara a diventare dùigenti aristocratici anzichè dirigenti democratici, sebbene le nostre istituzioni siano istituzio– ni democratiche". " Quid agendunz? " si dornanda a questo punto il professor Vali tutti: prima ancora di riorganizzare la scuola con nuovi ordi– namenti occorre agire sul costume. A que– sto 5copo concorrono " tutte le iniziative che, come quelle promesse ed organizzate dal movimento di collaborazione civica in Italia, hanno il fine di offrire ai giovani la possibilità di attività autoeducative al di fuori della famiglia e della scuola ". e, in genere, al di fuori di ogni dipendenza dalla società degli adulti e di ogni servizio ai suoi bisogni ed alle sue istituzioni, che non sia '' un'iniziativa ed un'offerta dei giova– ni ", un semplice " mezzo di educazio– ne '' in funzione delle esigenze dello svi– luppo dei giovani. Senza dubbio è indispensabile il giusto costume umano del dirigente, la coscienza " di vivere e muoversi tra uomini desiderosi e capaci di diventare migliori con il proprio lavoro". Ala quando si assume per diri– gente qualche cosa come un capo-ufficio, questo costume si riduce alla cordialità dei rapporti con i propri dipendenti. Dare ai giovani il costume democratico, è implicito nell'indirizzare i giovani a co– struire lo stato democratico e a far vivere lo stato democratico rinnovandolo continua– mente dal basso. In un'opera di edificazione dell'unità e del fine della nostra società nazionale si opererà naturalmente lo svi– luppo del costume adatto, l'educazione d6 mocratica e la selezione dei dirigenti. Facendo astrazione dµ attività espressa• mente volte a questo fine, non si acquista nessun costume dernocratico e tanto meno una proporzionata attitudine dirigente. Oppure, con apposite attività chiuse nei limiti di una società giovanile preservata da ogni contatto con la società degli adulti che non sia un libero rapporto di offerta da parte dei giovani, si svilupperà, sì, il senso di solidarietà e di responsabilità, ma, senza la concomitanza di altri fattori, non si con– tribuirà con quello a formare dei dirigenti. Questi altri fattori sono l'università, che og– gi non prepara adeguatamente all'esercizio immediato di attività diverse da quelle del– lo studio, e dello studio accademico, e le condizioni della società, che oggi non garan– tiscono la maturazione di forze dirigenti. La vera questione viene mistificata quan- do, come fa il Valitutti, per parlare di di– rigenti si parla di classe dirigente, passan– do " dalla considerazione della realtà... a quella del diritto " e si rinuncia ad accer– tare " nella realtà della vita umana " dove tutti dirigono e sono diretti, "chi dirige di più e chi dirige di meno ". La vera questione non è quella di por– tare ai posti direttivi socialmente consacrati, dei giovani che abbiano acquistato un certo orientamento spirituale e un C'erto abito ' morale. La vera questione - che ci riguar- da tutti, e i giovani studenti e l'università, a loro modo, tra gli altri giovani e le altre istituzioni e gli altri ambienti, dalla fab– brica al paese, alla chiesa - la vera que stione è quella di diventare capaci di di– rigere nel senso della conservazione e dello sviluppo le forze del nostro Paese. Davanti agli studenti non devono stare soltanto gli esami, come è ovvio, ma nean– che soltanto il problema che, superando gli esami, non si acquista il necessario costu– me democratico. Noi pensiamo che gli studi universitari non ci danno, prima di tutto, neppure una preparazione specifica cioè tecnica e scien tifica, sufficiente, per operare in qualche modo da dirigenti nel nostro Paese. Per questo pensiamo che le attività educative di cui abbiamo bisogno non sono quelle delle esercitazioni dialettiche secondo le re– gole parlamentari: dei corsi di studio do– minati dalla preoccupazione di seguire re– gole formali di una conversazione organiz– zata e i fini educativi del lavoro di gruppo: della vita in comune con relativo esercizio di autogoverno: del servizio volontario di soccorso e di assistenza, ecc. Le attività che ci spettano se siamo gio– vani seri e responsabili, non sono attività giovanili, attività da abbandonare, come gli sport, gli svaghi goliardici e lo studio delle dispense universitarie, via via che si viene inseriti in una società organica che affida compiti da adulti sistematicamente preco– stituiti. (Il Valitutti dice che gli adulti de– vono pensare " a rendere militante la de– mocrazia, cioè più coraggiosa e creatrice ", poi i giovani verranno a "darle in primo luogo il contributo della loro simpatia e poi lo sforzo della loro migliore e maggiore preparazione "). Davanti a noi stanno soltanto le nostre attitudini e le possibilità e i bisogni del no– stro paese: tutto un campo poco conosciuto, che non viene sfruttato appropriatarnente e si impoverisce ogni giorno di più. Per dis– sodarlo non abbiamo nè scuole nè maestri, m.a solo la storia passata, da guardare con occhi nuovi, e gli strumenti culturali e pratici della nostra civiltà, da usare con criteri nuovi. E' su questa linea, che vale la pena di do-mandarci che cosa fare e di arrischiare delle iniziative. RENZO CALIGARA

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