Terza Generazione - anno I - n. 2 - novembre 1953

• Il Piave della nostra generazione Il problema maggiore per i giovani non è quello di diventare vecchi, ma quello di diventare uomini. L'errore pratico sta nel credere che la maturità sia un fatto automatico, dovuto all'anno di nascita e all'accu– mularsi delle esperienze, dimodochè a ognuno è dato pro– clamarsi uomo fatto ogni qual1- 1 olta possa suffragare ciò con la carta d'identità, la caduta dei capelli e altre vi- cende. Invece l'uomo deve parlare per comunicare, non per proclamare; per questo deve cercare un linguaggio uni– versale, che gli altri possano capit·e, non legato quindi agli attributi particolari della sua maniera di essere (l'im– piegato del catasto che parla in termini catastali e così via) o alle sue esperienze irripetibili (ognuno ha la « sua guerra»), ma legato alla sostanza comune di tutti.· quella di essere uomo.· uomo conte1nporaneo, uomo civile, uomo italiano. Ma non si comunica solo con il parlare, ma anche con il saper tacere, con il saper fare. Ci sono dei gesti, delle cose che sono comprensibili a tutti, anche sen7,a parole, e chi li fa riesce a dare a questi gesti, a queste cose fatte, la comunicabilità dei niomenti più veri dell'uomo, come il dolore e la gioia. Essere uomini è questo: saper co– municare un'idea, un pensiero, un giudizio, una con– quista attraverso un collegamento profondo simile a quello con cui si comunica la gioia e il dolore. Nel nostro paese larghe zone di individui non sem– brano essere arrivati a diventare uomini. In certe occa– sioni sembra quasi che, dopo il Piave, non siano piu cresciuti uomini e che sia ancora e sola l'umanità dei gesti compiuti in quel « fatto storico » quella capace di ritrovarsi al di fuori dei discorsi particolari. Al di fuori di quella maturità vecchia di quarant'anni, conquistata in una guerra «nazionale» non ci sono altri linguaggi, 1- 1 alidi per tutti in questo nostro paese. Ogni cultura ha creato il suo gergo che non consente più di avere altro che degli «assertori». E ciascuno «asserisce», gridando il suo verbo, senza domandarsi quale sarà la risposta, profonda e personale, degli altri che ascoltano_, senza chiedersi come gli altri potranno . riconoscersi nelle sue parole. E anche le cose che si « asse– riscono» 1·iguardano le domande e i broblemi di coloro che diventarono uomini quarant'anni ·fa, e anche prima. Ma per i problemi di coloro che sono giunti a matu– razione con il fascismo e nella guerra d'Africa e di Spa– g"!'a,_di quelli c~e vi giungevano nella guerra, nella pri– g~onia, nella 1~esistenza,e per le domande di questo dopo- guerra, dove è una voce universale, 11n gesto valido pe 1~ tutti? A quaranta, a cinquant'anni si può rinunciare a diventa1te «uomini», si può seguitare a credere di esserlo 2 1oliotecaGino Bianco cincischiando il proprio particolare. Ma a venticinque anni il diventare «uomini» è il passo successivo, il più urgente, quello a cui non si può rinttnciare, il dovere che ciascuno sente di dover compiere a qualunque costo, se ne abbiano o no i mezzi. Per noi diventare vecchi è un problema secondario, 1na diventare uomini è il problema essenziale. Un uomo è piantato con i piedi in terra e la testa in alto. Se io e te siamo uomini c'è fra noi un_aunità pe"r cui ci capiamo e possiamo agire. Se invece, nella situa– zione in cui viviamo, siamo rimasti abbozzi di uomo, pro getti non finiti, sogni non realizzati, abbiamo perduto la .facoltà di vedere le stesse cQse: i problemi si affollano attorno a noi, ma le possibilità di azione comune spa- . riscono. Ogni idea, ogni progetto ci appaiono come una libera– zione e li carichiamo di tutti i significati: vita, morte, amore e moralità. Più non riusciamo a capirci e più mol– tiplichianto i nostri discorsi che divengono sempre più profetici, sempre meno attuabili. Parliamo, sì, ma sono le parole che ci hanno insegnato a scuola, in famiglia! tu le capisci in un modoJ io in un altro. Attendiamo per– ciò un gesto di coraggio che sia chiaro, evidente, ine– quivoco. I nostri padri hanno avuto una guerra per capirsi.· noi dovremo forse desiderare una guerra? Nell'impotenza so– gniamo l'azione. Chi ci libererà dai nostri gerghi, chi ci riunificherà, chi darà un senso comune ai nostri problenii, che ci metterà in condizione di agi1,e? Ecco cosa pen– siamo io e te, così diversi finchè non saremo uomini. sotto l'urgenza di avere qualcosa in comune. Andrenio a finire che, quando non crederemo più a nulla e avre1no perso tutte le speranze di poterci capire, di poter essere un qualcuno comprensibile per tutti gli altri, il più co– raggioso di noi compirà come i pochi eroi del nostro tempo un atto spaventoso e negativo, 1na finalmente chiaro e se1'nplice. Ma non c'è altra strada, non un'altra via per chi non si accontenti più di attendere la matematica certezza de: propri miti pa1~ticolari ingialliti e paralizzanti, non c'è altro mezzo che quello di distr11ggere o distruggersi per diventare uornini e partecipare ad una umanità tutta intera? Il punto è nell'indicare ai giovani una via di autoedu– cazione per uscire dai falsi rapporti e per mettersi s1~ di un piano di verità. Bisogna riportare in primo piano gli interessi e gli ideali lasciati sepolti dal falso « perso– naggio » che l'educazione tradizionale crea in noi, fondata

RkJQdWJsaXNoZXIy NjIwNTM=