Pattuglia - anno II - n. 2 - dicembre 1942

SILVIO BEHCO LASTANCHEZZA ,r I sono uomi-oi che amano fare i sempre giovani e per i quali apparentemente non esiste stanchezza. Lavorano a ore straordjnarie, camminano, ballano, corteggiano le donne, fanno nottata: lo spettacolo che essi presentano al mondo è quello di una encr• gia che ha saputo conservarsi senza perdite, intatta. Vorrei vederci un po' dentro a quegli uo· mini. Certamente io non ho aspet• toto oggi a smentire la falsa visione che i giovani si formano dell'uomo vecchio, come d'un infiacchito, in cui si sono allentate tutte le molle, impigriti tutti gli organi, esauriti tutti gli slimoli. lo so che la vecchiezza, per lo meno fino alla sua età più tarda, non mortifica mai tutto J'uomo. Quasi sempre, per quanti siano i cedimenti, egli conserva il più di se stesso. ~l[a i cedimenti ci sono stati e ci sono; e se il resto si conserva cosi bene da far parere l'uomo quello di un tempo, lo si deve all'istinto che s'è rivelato in lui dc)la buona .amministrazione. scesa 1ni furono così pesanti e dolorosi da farmi quasi trascinare il passo, e solo speravo .non si accorgessero gli altri che io li seguivo a stento. Ma quando rientrammo nella casetta che ci ospitava, mja figlia, liberatasi dal sacco, mi alzò gli occhi in faccia, si rannuvolò in viso e: - Papà - 1ni disse con un accento che non dimenticherò più - tu sei esausto, hai Ja faccia grigja e stanca; va a coricarti, ti porteremo la cena a letto. - Questo non mi era stato detto ancora mai; mi si strinse il cuore, e obbedji! Mi avvicinavo allora ai ses• sant'anni. Camminai ancora e parecchio, ma di quelle sgobbate non ne reci più. Temevo la nuova nemica: la stanchezza. Andai an• cora sul Taiano a rivedere il fo. colare di pietre dove riscaldava• mo il cibo coi miei giovani amici, sotto il padiglione d'alberi tanto (itto che non ci penetrava goccia di pioggia; feci ancora qualche trottata a ritmo di marcia su le strade della montagna ar· roventate dal puro sole e dal ri• verbero delle rocce vicine. Ma e· · rano più ricordi di gioia che non la illimitata gioia di una volta. E d'anno in anno sentivo che, per quAnto mi tenessi ancora su Je gambe con deco1:o, all'uno o all'altro cl.i quei luoghi,, coi miei piedi non ci sarei tornato più. ·Così Ja vita che era stata tanto piena, incominciava a vuotarsi, ed io a fare abitudine cli questi distacchi. Dove più i giorni della forte e tesa energia vitale, quando tornavo la sera dal· lo strapazzo fisico ed ero pronto a finire un articolo, o a cominciarne uno inaspettato e urgente? Adesso tutto aveva la sua misura, ogni slancio la sua precauzione, ogni indizio di aver passato il segno il suo arresto. Volgendo• mi indietro, vedevo sempre più larga fila di cose abbandonate, di occupazioni del tempo e del• lo spirito scivolate via tacitamente dai giorni miei, al punto da non pensarci più come se non fossero sta te. C'erano stati anni, tanti anni, nei quali io non sapevo vivere senza pasSare la sera a teatro, senza saziare la mia fame e sete di musica. Poi il teatro mi ha veduto sempre più di rado, e infine n6n mi ha veduto più, e andan· dovi 1ni ci sentivo così straniero che, alla prima scena cli una com• media, quasi mi prendeva I' inquietudine di essere indiscreto ad :ascoltare i fatti e discorsi di per· sone sconosciute che si erano dimenticate di chiudere la porta della loro stanza. E la musica ... oh Ja musica ... Quando aprivo la radio era come se risorgessero intorno a me incantati fantasmi di passioni che furono, di gior• ni che non torneranno più. Non ero io che battevo febbre per an· dare a cercare Ja musica, ma essa che mi veniva incontro nella comodità della casa come si visita un vecchio signore che non certo è inrcrmo, ma pure non farà la strada per restituire la visita. L'uorno va ormai più adagio e il suo tempo è più breve. S/lV/0 BE1VCO Quando rni affaccio a rivedere tutta la mia \'ita, debbo conJcs• sare a me stesso che il piacere al Quale debbo le massime gioie fu cjucllo di camminare. Inconsapevolmente, io lo posi sopra ogni altro. Ammalato alle gambe fino dalla puerizia e stimato poco meno che un fanciullo invalido, mi presi quasi un risarcimento nel camminare coi più forti deJlu mia generazione. Ero leggero e rapido e di fibra resistente come pochi. Corse perfino fama che io a,·essi ammazzato un caro amico molto più vecchio di me che, avendomi \'oluto compagno delle sue escursioni, non ebbe poi il cuore che resistesse a tanta l'atica, e alla prima malattia andò al di lii. Lo ()iansi, e tirai innanzi. Uscire all'alba e ricevere in viso e nel petto il primo alito fresco e vigo• roso del giorno, superare con agile salita le alture ed essere ben Jontano prima d'entrare in qualche osteria ancora sonnolenta e prendervi il caffè e latte dopo tre ore di marcia, e proseguire poi tutto il giorno per ritornare c.ildo di fatica, cli sole, di vino, di ,·ento, con gli ultimi treni della sera, 1ni pareva il miglior uso ·che io potessi fare cli ogni giornata libera della mia vita. Dimenticavo Ja mia povera letteratura, e i teatri, e i ritrovi con artisti, e tutto quanto faceva così pieni, così ricchi d'ore, i miei giorni giovanili in quegli anni. Se Jc mie gambe m'infliggevano una ricaduta nei loro mali, ero appena uscito dagli strazii chirurgici e già, bruciate le tappe ciel riallcnamento, riprende, o Ja gioiosa fa• tica del mio cammino. GUANI STUPARICM Su.li' altipiano ai Asiago E cosi fu per parecchi lustri, per parecchi decenni. [ giova11_i delle nuove generazioni si contentavano ad avermi compagno nelle loro escursioni e a tenere il mio passo. Potevo credermi indistruttibile. Invece una sera, do• po otto ore di marcia che furono un continuo salire e discendere per monti e valli dell'Agordino, i pochi chilometri dell'ultima diP Maggio 1916 ARTlMMO da Marostica di prima mattina, ogni plotone sopra un autocarro. Una lunga fila d'autocarri attraversa la ver.de campogna tra nuvoli di polvere; poi sale verso le montagne az· zurre nell'azzurro. Ho sulla bocca ancora l'impressione d'un bocciolo di garofano dalle foglie dure, come impressione d'uno schiaf-fo dato da una mano fresca e pro· fumata. Mentre passavamo, le ragazze di Marostica ci hanno ap· plaudito e gettato dei fiori. U nostro camjon ansima, re- • sta indietro sulle serpentine del• la strada di Cogollo. A un tratto si forma e butta fuori, con vomito caldo e vaporoso, tutta l'acqua ciel serbatoio. Gli altri ci sorpas• sano; restiamo gli, ultimi. Scen· do preoccupato per il collega· mento. Vedo in alto quelli che ci precedono, passare il valico: pie• cole scatole traballanti. Più su s'inarca H cielo, un grande cielo noncurante, staccato dalla terra. Che ·gl'importa di questa strada, di questo camion che s'è fermato, di questi miei uomini che dovrebbero stasera mangiare il loro rancio inquadrati nel battaglione? Che gl'importa se non arriveremo in tempo sul posto assegnatoci per arrestare l'avanzata del nemico? Ma anche la terra non sembra avere il fremito delle battaglie. Quanto siamo· lontani dal Carso sconvolto e truce. Qui le pendici del monte salgono serene; FondazioneRuffilli- Forlì un ,·ento leggero muove gli steli dell'erba e i fiori gialli e azzur• ri. L'aria è in pace e vi vibra soltanto il sordo respiro del no· stro autocarro che si rifiuta di camminare e vorrebbe anch'esso la quiete di quel pino piantato là nelle rocce. . . . . Abbiamo passato il valico an• che noi e per una valle stretta, ventosa siamo sbucati sul ,iasto altipiano, fresco di boschi, riden• te di pascoli e paesi. Ci affret· tiamo a raggiungere gli altri. Eccoli. Ma come? Ci vengono incon• tro, ritornano. Bisogna voltare anche noi. Gli oomini che stavano zitti si rianimano. Scambio di domande e di risposte, di saluti e di frasi salaci, tra camion e camion. Vedo passare mio fratello; ma è quasi irriconoscibile: una maschera cli polvere con gli occhiali; solo dietro le lenti, vi,- late e punteggiate di granelli, mi è parso di scorgerè il lampo d'un saluto. - Si va indietro? - No, solo da un'altra parte. Gli autocarri continuano la marcia, come prima, muso su schiena, in un assordio di motori e di molle. Passiamo sopra un ponte mi• nato: già in fondo brilla un filo d'acqua. Ma dunque gli austriaci vengono avanti sul serio? La strada ingorgata ci fa fermare di tanto in tanto. MARCELLO MASCHET/INI: Bagnante - Ohi, artigliere, do,·e an• date? - Artiglieri della m .... che se la battono. Signor tenente, guardi quella vecchia con una capra per mano e tre galline in braccio. - Dove sei"stato ferito? Dove sono gli austriaci? ' - Tutto pe1·duto, signor tenente; non c'è più nessuno dei nostri. Gli austriaci sono lassll. Lassù? Una cima arida di cui si possono contare i sassi e scorger la terra sotto le stria• ture dei licheni. E pazzo quell'uomo. LasslL si sta formando una nube. Ma non è più il deserto e la pace della strada cli Cogo1lo. Ca• valli aizzati tirano carri e cannoni, fanti di vari reggimenti cam• minano in disordine tra colonne di muli, carrette con sopra mobilio, materassi, vecchi, bambini vengono trascinate con fatica da povere donne, seguiti da vacche e maiali. Tutti vanno in direzione opposta alla nostra. Il rumore di ruote, di zoccoli, di' piedi resta terra, terra, soffocato dal polve• rio. Nell'aria un freddo silenzio. Il cielo s'è abbassato, coper• to da nuoi grige e distese; scm· bra percorso da brividi. Improv• visamcntc un urlo lo squarcia da parte a parte. Il tempo ha cessato di scorrere, s'è impietrito: per un attimo, per l'eternità? Il gros• so proiettile è passato sopra di noi, sopra il ponte minato, è piombato sopra il paese che fino a poco fa giaceva ridente nel verde. Una colonna di fumo nero si leva calma dal mezzo delle ca• se. E Asiago. La prima granata su Asiago. Cerco nel cuore se vi sia rimasto un lembo di quel cielo az• zurro, noncurante, di quando salivamo per le serpentine di Cogollo. CIANI STUPARICH 11

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