Ombre Bianche - anno II - n. 4 - aprile 1980

60 Federico Bozzini In buona sostanza, secondo la storia ufficiale, nell'ottobre del 1866 i contadini veneti con occhio ebete guardarono partire i padron, austriaci e videro arrivare quelli piemontesi. Si tolsero deferenti il cappello e continuarono a lavorare e a di- giunare come sempre. Non successe nulla. Nelle pagine che seguono ho cercato di raccontare quello che, secondo gli ar- chivi e la stampa, risulta essere accaduto nel corso dei primo anno di occupazione piemontese. Come vedrete, se avrete la pazienza di Leggere,sembra che qualcosa sia successo. Per mia comodità ho lavorato solo su materiale della provincia ve- ronese, ma la stessa operazione con risultati forse più stupefacenti può essere compiuta per ogni città ed ogni paese della regione. Il problema a questo punto si sposta e diventerebbe quello di capire come mai degli storici avvertiti e di sicura professionalità giudicano "nulla" tutto questo. ' Ma, a ben vedere, si tratta di un problema tutto loro. A noi basta ribadire ulte- riormente nei lettore quella che è una delle tipiche virLù venete, quel grande stru- mento di autodifesa culturale che è la diffidenza. _ Mi limito ad una considerazione. Diversa è l'immagine che rimandano iJ;!!lle- rossqJJ.,seconda della storia che noi riusciamo a vedere alle loro spalle. Non ci puo essere stima e rispetto per loro se riusciamo a credere allafavola di un popo- lo nato in riserva. Diversi sono i sentimenti che ci suscita l'indiano ubriaco che balla all'arrivo dei turisti se alle spalle ha una storia d1servitù continua oppure se suo nonno libero e selvaggio ha lottato e perso. Per questo è importante raccon1are le Little Bjg l;jorn e. le Wounded Knee del po olo venet9. Dobbiamo rifare il percorso per capire come, quando e chi ci ha spezzato la schiena e le ginocchia. Se si perde la memo-ria delle battaglie nelle quali siamo stati battuti, la nostra condizione di sudditanza odierna non sta più nella forza militare dell'avversario, ma dentro di no,. E non c'è posto migliore per conservare la debolezza del vinto che piazzarla dentro la sua testa, il suo cuo- re, il f uo carattere. Si è parlato e scritto talmente a lungo di storia delle classi subalterne che ci sia- mo quasi convinti di possederla. È da pareéchi anni che questo fantasma senza corpo si agita in seno alla sinistra. Come se il semplice fatto di sentirne il bisogno logico ed ideale fosse di per se stesso una causa suJJiciente della sua esistenza. L'urgenza delle motivazioni ideologiche e politiche che ci facevano sentire la ne- cessità di un apparato storico in linea hanno comportato, da un canto, laprodu- zione di un certo numero di surrogati, di favolette stonchefotocopiate malamen- te sull'ipotesi politica che ci interessava ribadire: dal 'altro queste povere rimasti- cature con grosse pretese didattiche non hanno mai turbato i nostri sogni ideolo- gici. La storia che ci siamo costruiti o sulla quale abbiamo espresso il nostro gra- dimento non è mai stata fatta di racconti che ci creassero imbarazzi, che ponesse- ro problemi eccessivi al pacifico dispiegarsi della nostra linea. Non è mai stata, a ben guardare, neppure un 'occasione molto interessante di confronto o di messa alla prova delle nostre certezze. Ha sempre banalmente funzionato da conferma servile e preconfezionata, qualunque fosse la nostra linea o il nostro delirio poli- tico. Per ottenere uesto bel risultato abbiamo dovuto impastare giudizi storici di Bi '@! fl .ofàM!Mi) - '. i,f//asa.

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