Nuova Repubblica - anno II - n. 10 - 20 maggio 1954
4 I ITALIA, or4r4l RESPONSABILITÀ DIFANFANI L E posizioni precongressuali della Democrazia cristiana sembrano ormai delinearsi in modo, che al centro delle assise di Napoli, vi sarà senza dubbio ancora una volta, Fanfani. Non Pella, che non ha seguito di delegati alla base, malgrado una certa inflazione di tesseramento meri– dionale, di cui corre voce dietro le quinte della Segreteria organizzativa della DC. Non Andreotti, che conta ancora meno di Pella, anche se più in– sidioso nell'intrigo: Andreotti, quanto a successo entro il Partito, ne ha me– no di Pella; e fuori, manca del tutto di quella « bella presenza » che, gra– zie alla pochezta dei corrispondenti ro– mani della « grande stampa indipen– dente», andò confusa, presso il ceto medio italiano, con la virtù dello sta– tista, in Giuseppe Pella. Ma non sarà neppure De Gasperi. Non sveliamo un mistero se diciamo che la posizione di De Gasperi può essere ancora or– ganizzativamente considerevole, rispet– to al Congresso; ma è politicamente _ debole, e non potrà essere dominante. Anche per la DC, il Congresso di Napoli sarà o dovrà essere quello del– l'autocritica dopo il 7 giugno. De Ga– speri sarà dunque il vinto, non il trion– fatore. I democristiani di buona fede avranno bene da rimpro,·erargli di ave– re insabbiato tutta la vita costituzio– nale, tutte le riforme in profondità, dello Stato; di avere condotto il Par– tito alla disperata arma, e spuntata, · della legge maggioritaria. Di avere, infine, ottenuto questo risultato, che è sottoposto alle facili aggressioni di un comprensibile patriottismo di partito: la diarchia Scelba Saragat, al posto della egemonia integralista dei catto– lici.... In queste condizioni, avanza e ma– tura l'ora di Fanfani Avanza e ma– tura, perché Fanfani rinserra nel cuore e nel cervello il dilemma democristia– no dopo il 7 giugno: decisa democra– tizzazione della politica di governo della DC, e conseguente e fiduciosa battaglia per l'allargamento di credito nel Paese; oppure ripiegamento a de– stra? Pochi mesi addietro, l'on. Fanfani ha compiuto un tentativo di governo di estrema ambiguità, che le forze di centro laico non hanno saputo con– trollare. Stava a loro condizionare con un severo controllo la sua esperienza di governo, metterla di continuo di– nanzi alla sbarra di una alternativa d( maggioranza a destra, senza mai con– sentirglielo, o operando in modo che, se Fanfani lo avesse infine tentato, il suo partito si spaccasse. Saragat ha cre– duto allora che ci fosse un'altra poli– tica di « grandezza »: andare al Go, verno 1 rompendo una posizione diffici– lissima, ma decisiva per la democrazia italiana: quella di preparare una nuo– va sinistra, tramata su Nenni, Fanfani e i partiti minori. Saragat è spesso al– tero; raramente «grande». Il risultato fu che Fanfani invocò l'aiuto della destra per un suo dettagliato (e più serio di quelli di Vigorelli e Romita) programma di riforme; non lo ebbe, perché, infine, atla destra non offriva, in cambio, nulla. Ma Fanfani compre– se atlora che una politica di attivismo riformistico si compie dieci volte più agevolmente con un seguito forte, che isolati, oscillanti, e perplessi, come ac– cade, per intrinseca debolezza, al go– verno Scelba. E riflettiamo. Supponiamo che Pella o Andreotti insistano a tentare loro l'operazione << a destra » : verrebbero abbandonati dal Partito, perché tutti supporrebbero che la DC vada a le– garsi mani e piedi al carro monar– chico-fascista. Supponiamo che la stes– sa operazione la faccia Fanfani: molti supporrebbero che l'operazione non avrebbe rischi: sarebbe l'integralismo democristiano a trascinarsi dietro, ma– levolenti ma incapsulati, i deputati del– la destra : non questi a dominare il Fanfani, abbastanza << riformista » da potersi infine, in caso di pericolo riag– ganciare, confuso e pentito, a Saragat e Pacciardi. Chi ben guardi, vedrà che il tentativo di buscare una politica di sinistra coi , 1 oti della destra, sgrazia– tamente e sfortunatamente abbozzato una prima volta, può essere ancora se- a o ducente per una edizione meglio predi– sposta e aggiornata. E che l'uomo è Fanfani, non Pella, non Togni, non De Martino, tutte « mezze tacche » in confronto al leader della corrente di << Iniziativa democratica». Per questo, bisogna che i democri– stiani e i non democristiani parlino sin'ora molto chiaro all'on. Fanfani. La sua virata a destra, sia pure pei termini illusorii di una egemonia de– mocristiana, spaccherebbe egualmente il suo partito. In Italia si formerebbe un « Zentrum », con una destra (dei vec– chi « popolari » antifascisti) e una si– nistra (degli antifascisti della seconda e della terza generazione, e dei sinda– calisti). Questo « Zentrum » sarebbe tuttavia debole, in balìa di un fronte popolare, che non tarderebbe a formar- si; oppure inesistente e puramente in– tenzionale. Ma la lega clericofascista a sua volta sarebbe debole: sempre meno forte, comunque, della formazione che andasse da Togliatti a Saragat, sino a Giulio Pastore. Di più: ove la lotta si facesse (anche senza giungere a que– sti termini estremi) più serrata, non è vero che la DC dominerebbe l'alleato di destra, ma dovrebbe concedere alla sua « forza », nel senso elementare di violenza e corruzione, sempre di più: sino a farsene mancipia. M111a1iJ //lii· ta11diI 1 si ripeterebbe la rovina dei par– titi, che nel '22 fiancheggiarono il fa. scismo: con la differenza, tuttavia, che oggi il più forte (non intervenendo gli americani) sarebbe ancora il comu– nismo. O qualcuno si illude di poter davvero risolvere le cose italiane con l'« internazionalizzazione» della nostra lotta politica? Forse non abbiamo eccessivamente drammatizzato la situazione. Ci pensi l'on. Fanfani. La democrazia la vivo– no e la salvano gli uomini. Dipende anche da lui, e dai suoi amici. Non glielo diciamo per lusinga, ci può cre– dere. Anzi, perché non si illuda; le operazioni di abilità sublime, come quella di una politica di sinistra coi voti della destra, non sono per la sua statura: richiedono dei Cavour. Fan– fani ha invece le qualità native per promuoversi alla stima degli italiani con la politica già difficile, di una si– nistra sociale coi voti e l'appoggio di una sinistra politica. Non giochi diffi– cile e grosso: giochi semplice e onesto. ILCASO BENEDE'ITI R ESTA qualche cosa da dire, se– condo noi, sul caso Benedetti: qualche cosa che, ci sembra, non è stato detto, perché è difficile da for– mulare: una di quelle « verità perico– lose » ( di cui parlava una volta il Croce) ché, nella casa dei malintenzio– nati, viene presa per una connivenza o per la resa a discrezione di quel pa– rente, che sino allora appariva il mo– ralista della famiglia. Noi ci provere– mo tuttavia, dacché rispondiamo delle nostre idee dinanzi ai galantuomini, e agli amici, prima che agli uomini di malafede, e ai finti liberali. In breve, dinanzi al caso Benedetti si sono presi due atteggiamenti, nel– l'opinione italiana. Il primo è chiaro, nel pensiero di Malagodi e di Saragat, e diciamo subito che lo condividiamo: il licenziamento, o le dimissioni forzo– se, di Arrigo Benedetti, sono un fatto politico. non un semplice episodio di relazioni contrattuali tra editore e di– rettore. La difesa di Benedetti è quin– di la difesa della libertà politica del giornalista e dell'intellettuale italiano. Il secondo atteggiamento è quello di chi, pur provando simpatia e soli– darietà per l'<< uomo)> Benedetti, di– chiara di non voler mettere il naso ne– gli affari ai Rizzali; e che un editore, infine, sceglie il direttore che più sii piace (così il direttore del Popolo di Milano); o di chi, con maggiore con– sapevolezza logica e politica (Vittorio Zincone sul « Resto del Carlino ») ri– corda come, in regime di libertà eco– nomica e politica. in regime Iiberale, ogni giornalista deve conoscere i rischi della sua posizione; se sarà allontana– to, per dissenso poiitico, dJ una im– presa di destra, troverà, se è un V"– lente professionista, ospitalità presso un'altra famiglia spirituale, e posiz1q– ne direttiva presso un altro giornale. Ecco il nostro avviso. Noi non sap– piamo se il direttore del Popolo, come n NUOVA REPUBBLICA quello del « Resto del C,rlino », sia stato, per ragioni di « leva » non me– no che di coscienza, un intellettuale fascista. Sappiamo comunque che am– bedue, in diversa sede, sono impegnati in una posizione di difesa contro H h– scismo. Dovrebbero quindi avere 10 mente un tentativo, almeno, di << giu– dizio storico» sulla questione di fa– scismo e democrazia. Orbene, se è così, dovrebbero pur sapere che, proprio perd1é c'è stato il fascismo, il proble– ma della libertà in generale, e quindi anche della libertà di stampa, non si pone più, politicamente, in Italia, co– me in epoca e clima di liberalismo pre– fascista. E qual è esattamente la diffe– renza tra allora ed oggi; tra l'indiffe– renza del libero mercato, e la difesa delle posizioni di opinione democra– tica? Il mutamento consiste in questo. Il f,,. scismo ha trasferito nello stato e al governo tali compiti di autorità, che hanno sopraffatto tutte le spontanee riserve del libero giuoco delle for,e del Paese. Ciò è potuto avvenire pro– prio perché quelle forze non erano più in grado di difendere quel « mercato » che Zincane ed altri, invocano. La democrazia postfascista non ha trovato, in quelle stesse forze, maggiore rohu• stezza che nel '22. Se si è difesa, lq. si deve all'interesse che il centris J'!O italiano ha avuto sinora, di esalta1e,. sempre ancora con qualche prudenza, : I fascismo, onde ritardare il trionfo dc-I– la parte avversa, del comunismo. Ma dopo il fascismo, il problema della libertà dei singoli, è divenuto prob'<· ma della libertà di tutti, cioè un prc– blema che riguarda lo Stato. Ecco per– ché hanno ragione Saragat e Malage,!i a sostenere che il licenziamento di Be– nedetti non è una questione di diritto privato, ma di sostanza polit!ca. Ed eccoci ora al punto difficile della questione. Appena ci pronunziamo :n questo senso, vediamo il facile ghign<>· « allorn, siete anche voi per la demo– crazia protetta? Per l'intervento del:o Stato a difesa di certe libertà contro altre: dunque per la difesa di un pri– vilegio? E che avreste preteso che f.,. cesse il governo, a vantaggio di Be– nedetti, contro gl'interessi della « ca– tena Rizzoli »? Non ci si fraintenda. Non avremmo preteso proprio nu·lla. Soppiamo che non vi è legge che autorizzi l'infram– mettenza degli organi esecutivi nei rap– porti tra proprietà e direzione· di u,1 giornale. Avremmo invece preteso che non da oggi si fosse preso, dai g~– verni dopo la liberazione, un così chia– ro atteggiamento di ripulsa verso =1 fascismo da scoraggiate ogni impren– ditore, nella fiducia che tutto, ormai, sarebbe andato come un tempo, e c:,e il fascismo dei suoi collaboratori era conducente, utile, «pagante». Avrcn:a– mo preteso, che la fede nelle istituzio– ni democratiche imponesse ai partiti di centro, in primo luogo, quella sol– lecitudine costituzionale, che doveva mettere in opera da gran tempo una Corte Costituzionale, e qui stesso, un esame della legittimità di formazioni politiche fasciste. Adenauer, tanto più accorto di De Gasperi, ha saputo far– lo; e la Corte Costituzionale, in Ger– mania, non ha tollerato nuovi partiti nazisti. Non diciamo che per questo il problema della « destra » tedesca sia risolto; ma è vero invece che in Italia essa muove da una apparente egua– glianza di partenze con le altre forze democratiche: in realtà la carica del passato, aggiunta a questa malintesa eguaglianza costituisce già di per sé un privilegio, di cui gli altri partiti non godono; e incoraggia gl'imprenditori a contare sul suo successo, suJJa sua perfetta accettabilità, legittimità, utili– tà. Se le cose non stessero in questo modo, l'editore Rizzoli non avrebbe potuto, in un primo tempo, presentarsi dissenziente da Guareschi nei riguardi della diffamazione contro De Gasperi, e in seguito, comprendendo che il caso Guareschi era « payant », parteggiare per lui, e per Rusconi, contro Bene– detti. In tesi di « economia di mercato », resta vero che il Governo non può met– tere il naso negli affari di Rizzali; ma non resta punto vero che l'antifascismo di Benedetti non possa essere tutelato. Non già con una legge che autorizzi il controllo del governo sui giornali; ma con un indirizzo e una politica generale dello Stato italiano, che sco– raggi il fascismo, che parta, e avanzi, dal concetto, che la libertà di Benedetti è quella dello Stato stesso. La stessa difesa che le istituzioni debbono avere dal sabotaggio o dai colpi di forza che volesse iniziare il comunismo, deve essere compiuta inflessibilmente nei ri– guardi del foscismo. Non creda il so- I COSE DI FRANCIA I Dal nostro corrispondente S E voi interrogate un francese per chiedergli che cosa sia esat• tamentc il Vietmin, vi rispon– derà con relativa esattezza che si trat• la del regime di Ho Sci Min. Se gli chiedete che cosa sia il Vietnam nove volte su dieci si mostrerà im• barazzato. O lo confonderà appunto col Viet-Minh, cioè col suo avversario diretto, o vi dirà che si tratta del– l'lndocinà, genericamente. Fino all'occupazione giapponese, l'Indocina si distingueva, ben più amministrativamente che politica• mente, in quattro protettorati: Ton• chino, Annam, Laos e Cambogia, e in una colonia diretta, la Cocincina. Partiti i giapponesi lasciando dietro di loro una profonda aspirazione degli indigeni all'indipendenza, il go• verno francese riprendeva possesso delle su.e amministrazioni coloniali in Estremo Oriente pensando di po– ter continuare come prima a offrire facili e sfrontati guadagni ai suoi funzionari e coloni. Per essere giusti, a Parigi, nei governi usciti dalla Re– sistenza e dalla Liberazione, v'erano elementi onesti e sinceri che avreb– bero voluto creare un clima e un ambiente nuovo nelle colonie. In pratica i vecchi funzionari e i vecchi coloni se ne risero delle pretese e del sentimentalismo di certi uomini di Parigi, e pretesero continuare, aggravandoli, i loro sistemi di sfrut• tomento e di prepotenza. Accetta· rono, con un sorriso d'ironico com– patimento, di dare il nome di Unione Francese all'Impero Coloniale Fran• cese. Quando Ho Sci-Min, alla con– ferenza di Fontainebleau, nel 1946, chiese qualche anticipazione d'indi• pendenza per il suo paese, si pretese accontentarlo con parole del genere dell'Unione sostituita all'Impero; ·e siccome Ho Sci-Min pretendeva qual- verno di esercitare un contrappeso al caso Benedetti, mettendo a rumore il mondo con il sequestro di armi fasci– ste. li chiasso che si è fatto intorno ad un baule di mitra è francamnete sproporzionato. L'indifferenza della De– mocrazia cristiana verso il caso Bene– detti è invece gravissima. Significa che, in fondo, in Italia siamo già al punto di sofisticare sulle opere, ma di essere indifferenti sulla fede. Siamo al perfet– to trionfo del gesuitismo. E per concludere. Ci sono due modi di difendere la libertà. Uno è appunto quello del liberalismo prefascista, in cui lo Stato è, e resta, indifferente ad un uso della libertà, che è violazione in profondo della libertà stessa. L'altro è quello postfascista, e che raccoglie sto– ricamente i risultati dell'esperienza fa. scista: dove il singolo è represso, tutti siamo repressi. Nella libertà dell'indi– viduo, muore la libertà dello Stato. E qui il rimedio è politico, consiste nel– l'indirizzo della classe dirigente, consi– ste in una legislazione e in istituti che limitino il potere politico della con– centrazione economica. Noi chiediamo da gran tempo, ad esempio, il controllo sui mezzi della stampa; chiediamo da gran tempo, che si determinino le for– me giuridiche che tutelino la libertà del Direttore di fronte alla « politica » del– la proprietà. Chiediamo da gran tem– po che si invecta quel deliberato pro– cesso, che dura ormai da anni, per il quale i giornalisti e pubblicisti anti– fascisti stanno divenendo sempre più clandestini, e quelli fascisti, o repubbli– chini, dominano direzioni e redazioni di giornali. E non venga poi I' Ava111i .' a rac– contarci che il caso Benedetti non lo riguarda, perché l'E11ropeo è stato spes– so ostile a·ll'operazione Nenni, o al patto d'unità d'azione. Il caso di Be– nedetti non si giudica al metro di un tornaconto personale, ma a quello del– la libertà nello Stato. O dobbiamo pro– prio ricordarea Nenni, che ama tuttavia ripeterle, le famose parole di Rosa Luxenburg, sul nostro dovere di di– fendere la libertà dei nostri avversa– ri? E dobbiamo tuttavia spiegargli che con questo non intendiamo confondere avversario e nemico; che Benedetti resta, per lui, un avversario; il fasci– smo, nemico; e che chi non difende Bene<letti, oggi, aiuta il fascismo? cosa di meno ridicolo, si arrivò al– l'atroce provocazione-repressiond di li aifong, qua11do la flotta francese al comando dell'ammiraglio D'Argen• lieu - un ammiraglio-frate che ogni tanto si ritira in un convento - aperse il fuoco sulla città per dare un esempio e una lezione uccidendo ottomila anna.miti. Da quel momdn· to Ho Sci-Min intraprese la sua guerra di liberazione, di cui la ca– duta di Dien Bien Fu è stato l'ulti• mo episodio. Il governo francese, quando co• minciò a capire che l'affare era serio, ebbe una trovala: andò a cercare l'ex imperatore nominale dell'Annam, Bao Dai - che s'era rassegriato ben facilmente alla perdita del suo tro• no, tanto da accettare un seggio di deputato repubblicano all'Assemblea Costituente del suo ex impero - e lo nominò imperatore del Vietnam, un nuovo stato che comprendeva i due vecchi protettorati del Tonchino e dell'Annam e la Cocincina: stato che nelle intenzioni di Parigi, e so• pratutto dei coloni francesi d'J ndo– cina, doveva essere una pura appa– renza, come se ancora fosse stato possibile menare gli indigeni _per il naso. Bao Dai accettò il suo ruolo d'imperatore d'operetta vivendo lau– tamente a spese della Quarta Repub• blica sulla Costa Azzurra, mentre Ho Sci-Min si metteva in campagna. A un certo momento, comprendendo di poter essere spalleggiato dall'Ameri• ca, lo stesso Bao Dai cominciò n prendersi · sul serio e a esigere dai francesi quell'indipendenza ch'essi avevano negato a Ho Sci-Min. Prima a parole, e a poco a poco, sotto la pressione americana, a fatti, i fran– cesi gliela accordarono. In pratica le cose sono un pochino pi,t com– plesse: gli americani tendono a sosti• tuirsi ai francesi, ma con l'abilità che è loro propria, cioè senza i so– liti orpelli delle bandiere e del Resi– dJnte che rappresenta la potenza dominante e i privilegi medie vali ai cittadini metropolitani, ben.sì con u.,1 dominio ben più efficace basato sugli affari. t vero che l'ammini.rtrazione Eisenhower pare stia acquistarido i difetti dei vecchi imperialisti. euro– pei, ma qu.est'è un'altra faccenda. In questa primavera del I 954, ot– tavo anno della guerra in Indocina, esausta, sfinita, la Francia non sa più che pesci pigliare. L'opinione pubblica, sciaguratamente, fino a po– chi mesi fa, non s'era quasi occupata di questa guerra, fatta da nordafri– cani, da senegalesi e da tedeschi e italiani della Legione Straniera in– quadrati da pochi francesi. Il gover– no, ancora fino a due settimane fa, continuava a baloccarsi col suo Bao Dai. Bidault voleva fare il Machia– velli. Poi, perduta la testa, avevo chiesto in ginocchio l'aiuto america– no - aiuto diretto, non più solo in dollari e in materiale - intervento che avrebbe provocato l'intervento diretto della Cina e, poi, a poco a poco, la terza conflagrazione mon• diale. A Ginevra si discute. Dopo Dien Bien Fu, Bidault vorrebbe porre lui le condizioni dell'armistizio. Inco– scienza o spavalderia? Il pericolo sta nell'ossessione ame• ricana contro il comuni.rmo. Che cosa sarà capace di fare - o di far fare - l'America per timore che il « com,mismo > arrivi al golfo del Siam? Ho Sci-Min non era, in origi– ne, un comunista: era una specie di Nehru indocinese che aspirava o fare del suo paese uno stato libero governato da principi vagamente so– cialisti. Le bestialità del governo di Parigi lo legò alla Cina di Mao. Ma questo forse non riguarda più la Francia, anche se la Francia è stata all'origine di tutto questo. E se l'America non ha che l'arma ato• mica per impedire al comunismo di estendersi in Asia, povera Asia e... poveri noi! Per il momento non posso che dar ragione a un amico francese che l'altro giorno, all'annuncio del disa– stro di Dien Bien Fu, venne a feli– citarmi senza ironia: - Beati italiani che non avete più colonie!
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