Nord e Sud - anno V - n. 38 - gennaio 1958

<{ past1cc1accio » lo scrittore realizza veramente - servendosi di valori linguistici e lessicali - la rappresentazione acuta e sarcastica a un tempo di una umanità e di un ambiente, non sempre riuscitagli nei suoi precedenti libri << surreali >>. Muove, insomma dietro le parole e gli sberleffi del dialetto romanesco, tutta una massa puntuale e dolente di osservazioni di costume, di scorci illuminanti di una Roma del primo fascismo (scelta, come vuole il borghese antiborghese Gadda, nei palazzi di via Merulana, dove si annidava la nuova borghesia romana di quel tempo) di caricature feroci, di senti1nenti drammatici avvertiti latenti in un popolo tutt'altro che rappresentato convenzionalmente. Viene subito, infatti, di parlare del singolare orientamento seguito da Gadda nel rappresentare Roma ed il suo popolo. Lo scrittore non ha parole per la Roma dei monumenti o per i romani, sereni, allegri, buontemponi, avvolti in una << sacra >> ed atavica sonnolenza morale, cui troppa superficiale letteratura ci ha abituato. Le vie di Roma che i personaggi del libro percorrono non sono quelle che menano al Colosseo o a S. Pietro e manca completamente il tentativo di dare la solita rappresentazione plastica della città: si ha invece una fittissima citazione di luoghi, di vie, di piazzette, di cantoni della Roma barocca - poi scomparsa grazie agli sventramenti del piano regolatore mussoliniano - tale da fornire un'immagine mo!ecolare della città, o meglio l'immagine della vita pullulante nella città. E i romani? Ecco un esempio di << romano», un campione della· psicologia che Gadda sente propria dei « romani »: << Pe quello che era donne, poi, e sfruttatori de donne, amore, amanti, matrimoni veri, matrimoni finti, corni e controcorni, nun c'era che lui, se po dì ... La necessaria frequenza della malavita, l'approfondimento abbreviato, ottenuto così per intuito de quelli ' stati de famija ', lo avevano ridotto che 1 ui, là pe llà, te spifferava tutte le ' coabbitazione ', ponghiamo de via Capo d'Africa o de via f'rangipani, e fin su a li Zingari, a via de li Capocci, ar vicolo Ciancaleoni: e giù poi, passata piazza Montanara nun ne pariamo nemmeno, a via de Monte Caprino, ar vicolo de la Bucimazza, a via dei Fienili: quanti nun ne conosceva o intorno a quell' antra tigna de Palazzo Pio, pe tutti queli budelli de dietro a S. Andrea de la Valle, a Grotta Pinta, a via di Ferro, ar vicolo de le Grotte der Teatro ... ». È una pagina illuminante: si noti la scelta accurata dei luoghi, la fittissima serie di vie nominate, tali da costituire il tessuto di tutto il periodo. È forse il tentativo 1neglio riuscito di << rapprendere >> nella parola la realtà essenziale della città, il suo aspetto più negletto ma più vero: quello di una misera e cruda vita popolare, quello della plebe che parla rude, che adopera il coltello, che spartisce la propria esistenza fra l'esercizio del << mestiere » ( abbacchiari, cascherini, porchettari, ecc) e il riposo nel << rione ». È facile per questa plebe incontrare sulla sua strada il furto, la violenza, l'omicidio: facile conoscere Regina Coeli: è insomma la plebe in cui rivive lo spirito << latino » più che romano della città, lo spirito << demoniaco » ( come sostiene Vigolo a proposito di Belli) piuttosto che quello << classico » della sua tradizione. [123] Bibloteca Gino Bianco

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