individuata, la città weberiana acquistò valore di simbolo, a segnare le più profonde differenze tra Occidente e Oriente. E all'Occidente, prendendo le mosse dalla città medioevale, guarda anche L. Munford nel suo libro sulla cultura delle città, collocandosi su posizioni di tipo sociologico piuttosto che storico, e con un accento più marcato che in Weber, pertanto assai lontane dai modi di una tradizione storiografica cui noi italiani siamo da tempo amorosamente legati. All'apparenza si direbbe il M. un rappresentante di quella storiografia morfologico-culturale, vicina per certi aspetti alla Geisteswz·ssenschaft, ma più di questa incline al comparativismo normativo, alla tipologia sociologica, insomma al metodo classificatorio delle scienze naturali. Sarebbe però inesatto, o almeno sbrigativo, collegare La cultura delle città ai cicli biologici delle culture spengleriane, nonostante M. si richiami allo Spengler e da questo mutui, attraverso la mediazione di Patrick Geddes, lo schema in cui includere le fasi della città: da eopoli a necropoli, dalla nascita alla morte, attraverso la giovanile aurora della poli·s, la maturità vigorosa della metropoli, la decadenza di megalopoli, la paralisi di tirannopoli. Più colto e più scaltrito, M. sa che questi richiami naturalistici non hanno che un valore metaforico; e chiaramente manifesta la sua riluttanza a certe coincidenze tra gli stadi logici di una evoluzione e la realtà vivente. Uno sviluppo impensato, un rinnovamento improvviso, sono sempre possibili in qualunque stadio: di qui il largo posto che viene lasciato, pur nella fissità permanente delle strutture del processo storico ( ciò che consente, in sede sociologica, la previsione), al giuoco e alla possibilità di Bibloteca Gino Bianco nuove emergenti o, che è lo stesso, alla creatività storica. Anzi il M., continuamente sospeso tra sociologia e storiografia, nel delineare il modo del processo storico, ha un tratto veramente suggestivo. Potrà sembrare astratta e aprioristica, si potrà non convenire sul numero, ma la distinzione delle quattro categorie sociologiche, da lui posta allo scopo di salvare l'individualità e la continuità a un tempo dello sviluppo storico, mi sembra indiscutibilmente utile. Che cosa caratterizza un periodo? Anzitutto le vive forze del presente (le dominanti") e l'eredità più prossima del passato (le regressi·oni"), ma anche i germi nascosti del futuro, oggi appena percettibili, ma domani chiarissimi (quelle che il M. chiama le mutazi·oni); ed infine le sopravvivenze, cioè le stanche e meccaniche ripetizioni del più lontano passato. Non si può negare certa validità metodologica a un tale schema, che è un tentativo proficuo di fissaggio storico. Una visione della storia così articolata potrebbe, purchè adoperata giudiziosamente, evitarci di ricadere in certe teorie della continuità troppo unilaterali, con le quali si è voluto reagire ad altrettanto unilaterali teorie delle ca t astro f i. Il M. invece non ricava da questa riconosciuta esigenza di metodo tutte le conseguenze riposte; fissato lo schema, talvolta lo abbandona per stabilire periodizzazioni rigide in cui arbitrariamente vengono estesi certi caratteri distintivi di un'età, o elisi certi aspetti della multiforme vita cittadina, a favore di altri, che più comodamente consentono quelle generalizzazioni. È il caso, ad esempio, della città barocca, denominazione discutibilissima per classificare la città europea dalla fine del medioevo alla rivoluzione industriale,
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