Fine secolo - 23-24 novembre 1985

FINE SECOLO* SABATO 23 / DOMENICA 24 NOVEMBRE 26 L'·UOMO OGAZiONI: ---------------------------a cura di Alberto FOLIN---------------------------.....11 m e/ volume· di conversazione con Marce/ Cohen, Dal deserto al libro, lei dice di se stesso: "Non mi sono mai considerato uno scrittore ebreo. Sono ebreo e scrittore, che non è affatto /ti stes– sa cosa". Vorrebbe spiegare questa affermazio-. ne? Quella di "scrittore ebreo" è una definizione che non accetto. Io mi considero, innanzitutto, uno scrittore; scrivo in lingua francese: dunque sono uno scrittore francese, e nient'altro. Cer– to, il fatto che abbia dovuto lasciare l'Egitto, la mia terra, a causa delle origini ebraiche, ha influito sulla mia condizione di scrittore, dan– do inizio ad una nuova avventura, che è quella del ciclo del Libro delle interrogazioni. In quanto esiliato, all'inizio, non ho fatto rife– rimento all'ebrais'mo, ma unicamente all'esilio e alla separatezza, che mi sembravano costitui– re la vera condizione dello scrittore. Ma più in– terrogavo questa situazione, più sentivo che essa coincideva con quella dell'ebreo, e cioè con quella di colui che per definizione vive esi– liato. Il fatto di essere stato costretto, dunque, a vivere fino in fondo la mia condizione di ebreo, mi ha portato a .scoprire i grandi testi della tradizione ebraica. che -all'inizio- cono– scevo molto male. Questa per me è stata Ùna scoperta straordinaria, perchè più interrogavo il libro, più riconoscevo in esso la mia situazio– ne di scrittore, al punto che -più tardi- mi sono convinto che coloro che hanno scritto la Bib– bia e i testi talmudici sono 'semplicemente' de– gli scrittori, e nient'altro, pur senza saperlo. Essi hanno interrogato il libro precisamente nello stesso modo in cui ogni scrittore interro– ga il proprio. Non è un paradosso: l'ebraismo ha fatto di me uno scrittore più profondo di quanto fossi prima, perchè l'interrogazione contenuta nel libro era antichissima, vissuta da secoJi e secoli dal popolo ebraico. Gli Ebrei sanno che la parola di Dio è nel loro libro, e che interrogare questa parola significa interrogare se stessi. Il "faccia a faccia" che lo scrittore ha con il suo testo è precisamente lo stesso ~be l'Ebreo ha con il libro, che è -ad un tempo- la parola di Dio. Ma se si tratta di un "faccia a faccia", vuol dire che Dio è assente: solo la sua parola esiste, e la sua parola è·nel libro. Parlare a Dio; per l'Ebreo, vuol dire, dunque, interrogare il libro, per sapere che cosa Dio ci dice e che cosa noi possiamo ri– spondere alla sua parola; ma rispondere ad essa significa conoscerla: e non si può cono– scerla che interrogandola. Per· questo tutti i grandi commentari talmudici e cabalistici, che in~rpretano la parola, la lettera, in termini che· possono sembrare talvolta eccessivamente sot-_ tili, hanno un fondamento molto profondo, il quale consiste nel domandarsi che cosa sia que– sta parola. Si tratta dunque di un'interrogazio– ne molto forte, che -come tale- è quella del vero scrittore. Per un'ora-,perun mese, si vivesu una risposta Per uno scrittore, infatti, interrogare la parola non consiste nel domandarsi che cosa essa si– gnifichi, per fame una teoria. Io non credo ai sistemi teorici. La teoria viene dopo. L'interro– gazione del libro è un'interrogazione di inquie– tudine, di angoscia: è_.,.quelladomanda che chiama in causa se stessi fin nel profondo. Questa chiamata· viene attraverso il libro, at– traverso la parola. Ciò accade non soltanto perchè, innanzitutto, noi siamo linguaggio, ma anche·perchè il vero scrittore si identifica a tal punto con la propria scrittura, che -interrogan– dola- mette in questione se stesso, interroga se stesso n~l modo più profondo possibile. In que– sto consiste l'interrogazione del libro. Certo, se ne possono fare teorie interessanti: ma, all'inizio, si tratta di una domanda capita– le, vitale. Altra cosa è chiedere per soddisfare una curiosità qualunque, che non sia vitale. Ma questa domanda, che lo scrittore si pone Eccounuomo,Edmond Jabès,un poeta, francese,unebreo, che parla in modo oscuramente urbante assiaJrante di cose che . ffJIIIIIO, pensate o sospese o impensate, in ciascuno tinti. Parla della-parola, di Dio e nostra. Della parola delfbro, e del si/enzio. nei confronti del suo stesso linguaggiò, è vitale, ed· entra, per ciò stesso, a far parte· della sua creazione. E infatti, se pure egli non interroga direttamente, ci pensa il libro a interrogare lui. Il lavoro di creazìone è dunque sempre un la– voro di scoperta che non si arresta mai. per questo io dico che non ci sono ricette, ma solo· ricerche. Noi viviamo all'interno di un processo di con– tinua ricerca; non ci possiamo mai sottrarre alla domanda, la quale non ammette nè ripo– so, nè risposte. Certo, anch'io, come tutti, vivo su delle risposte. Per un'ora, due ore, un mese, ecc., si vive certo su una risposta che ci si è dati. Così, un militante politico potrà prendere una decisione fondandola su una risposta. Ma si deve sempre sapere che non si tratta mai di una risposta definitiva, che si è costretti ad an– dare avanti, sempre. La risposta diviene una nuova domanda, ché ti porta sempre più Jon– tanò. Nei suoi libri torna spesso la distinzione tra scritto e e scrittura. Alla chiusura, presupposta dal primo termine, si oppone l'apertura implicita nel secondo. Perchè questa opposizione? Si tratta di una questione molto sottile. Lo scritto chiude perchè tende a essere qualche cosa di definitivo. Tu, ad esempio, scrivi una frase. Essa esiste come traccia, la vera traccia che pretende di durare. Ma la scrittura, conti– nuamente, apre questa chiusura. D'altra parte, se si potesse parlare in maniera definitiva, nes– suno di noi parlerebbe più, da quel momento in poi. Se in una frase si potesse esprimere tut– to ciò che si vuol dire, allora non ci sarebbe più bisogno di parlare? Anche nella scrittura accade questo: se uno potesse scrivere tutto in un libro, non scriverebbe più libri. La parola è fatta sì per l'istante, ma dietro di essa c'è tutto il vissuto precedente. Essa perciò è sempre di– versa, perchè cambia sempre, come noi cam– biamo: essa è l'espressione di ciò che noi pro– viamo nell'istante in cui la pronunciamo. Se, ad ogni momento, essa è diversa, pur restando la stessa, ciò avviene perchè questa parola por– ta con sé il ricordo di ciò che è stato espresso precedentemente. Allo stesso modo,·noi siamo oggi quello che siamo, perché c'è in noi il ri– cordo della nostra infanzia. Il passato è pre– sente nel nostro presente, in modo tale che -an– nullandosi- fa sì che questo presente sia sempre 'altro da sé. Non solo, dunque, se noi potessi– mo vivere solo di passato, quest'ultimo sareb– be sempre altro, ma il fatto che noi stessi, ogni secondo, siamo altro da noi, fa sì che il passato si annulli nel passaggio tra il presente e il futu– ro, dando al presente -nello stesso tempo- tutto il suo peso. Così è fatto l'uomo. Il Jogos, e fesi/io Nella sua scrittura sembrano confluire due tra– dizioni: quella greca e quella ebraica. Come si integrano tra loro? La mia cultura è, innazitutto, una cultura gre- ca. La cultura ebraica, come ho detto, è venuta solo successivamente. Credo che non bisogna opporre queste due tradizioni, perchè viviamo su entrambe, pur sapendo che esse seguono una logica differenté. Una- cultura, quella gre– ca, ha interrogato e ha cercato di spiegare le cose, tramite il logos-, con la filosofia ha centra– to la dimora, lo stare. La tradizione ebraica, invece, è diversa. Essa si fonda sul nomadismo, sull'esilio: oggi, dopo duemila anni dalla di– struzione del Tempio, c'è ancora la Diaspora. .Essa è la tradizione di tutto ciò che non ha luo– go: col libro, nel libro, essa ha creato il luogo senza luogo. La cultura dell'ebreo inizia con l'oblio e con l'apertura nei confronti delle infi– nite possibilità della vita. In un testo del Mi– drash si spiega perchè l'uomo porti sopra il labbro superiore quel leggero incavo: esso è il segno dell'Angelo che pone il dito· sulla bocca del bambino, perchè esso dimentichi tutto ciò· che viene prima della nascita. Ma in un altro passo del Midrash si spiega anche che se il neo– nato apre le mani, che prima teneva chiuse nel grembo materno, è per accogliere la vita. Dun– que. da quel preciso momento, non ci sono più certezze, ma c'è l'attesa. Attesa di tutto ciò che viene, ma anche interrogazione di tutto ciò che viene. Esiste anche un altro testo, nel quale si dice che Dio non ha creato il mondo, ma lo crea continuamente con l'aiuto dell'uomo. Dunque Dio ha bisogno 'dell'uomo, e i grandi testi tal– mudici interrogano, ad un tempo, la parola dell'uomo e quella di Dio. In essi l'uomo inter– roga Dio, come se interrogasse se stesso. In un altro testo si dice che a volte Dio lascia vivere alcune persone molto a lungo, affinchè diventi– no più sagge: infatti Dio ha bisogno del loro consiglio. Perchè tutto questo? Perchè il mondo non è creato, si crea ogni secondo: dunque, si è sem– pre di fronte a qualcosa che deve essere fatto. Non si è mai nella condizione di poter dire: "Dio ha creato il mondo in un certo modo, dunque viviamo in esso". Perchè le infmite possibilità della vita si presen– tano anche come infmite possibilità della lettu– ra? Perchè ognuno vive questa situazione non solo come la sente, ma anche come la legge: come legge il libro. La tua lettura di un libro, non è la mia: proprio queste differenti letture per– mettono la durata. Si potrebbe obiettare: «Come può una tradizione come quella ebrai– ca, vivere così a lungo, per secoli e secoli, tra tante letture, false o vere?» In realtà essa ha vissuto proprio perchè deve sempre tornare al libro. C.è un Libro unico, che io ho chiamato il Libro bianco: è a quel Li– bro li che bisogna sempre riferirsi, per inter– pretarlo. Dunque, ciò che può essere .rifiutato, non è il libro, ma l'interpretazione del libro; nello stesso tempo, SCJl7.a la nostra interpreta– ziane, qualunque essa sia, il libro non esis~ rebbe neppure. Se oggi leggiamo ancora Plato– ne, ciò avviene perchè la lettura contempora– nea è diversa da quella fatta precedentemente. Se tu, ad esempio, leggi ancora Kafka, è perchè tu lo leggi in un modo in cui neppure - lui stesso si è mai letto. Ciò significa che un au– tore,' talvolta, si stupisce di quanto siano im– portanti. per lui, le letture dei suoi libri: infatti si stupisce di vedere, at~verso l'interpretazio– ne degli altri, aspetti che egli stesso, nel suo te– sto, non aveva visto. E ' questo che pennètte al libro di continuare a vivere, secondo la sensibi– lità dell'epoca, del momento; del lettore. Questa constatazione mi ha portato a scrivere che non esiste un testo sacro. Quello che ab– biamo consacrato è un testo profano. All'ini– zio, come tutti i libri, anche la Bibbia è stata scritta dall'uomo. La sua consacrazione ha ~ terminato il rapporto con Dio. Si tratta di un rapporto molto forte perchè è proprio l'assen– za di Dio che pennette all'uomo di trascender– si.

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