Fine secolo - 23 aprile 1985

FINE SECOLO * MARTEDI' 23 APRILE RUD_OLF __ BORCHARDT, E LA TKAIJl2'JONE DI CIO' CHE -NON È STATO :J ------------------------------- di Enrico DE ANGELl~--------------------------------.....11 Doveva essere un tipo singolare. Hofman– nstahl, che lo conobbe bene, ce ne ha lasciato un ritratto pungente. Di punto in bianco si metteva a raccontare barzellette in inglese, sen– za curarsi del fatto che magari nessuno degli ascoltatori capisse l'inglese; dopodiché passava a declamare poeti in tutte le lingue, dalle anti– che alle moderne, sempre con lo stesso torio di voce, chiunque fosse l'autore, e facendo trema– re i vetri delle finestre. Subentrava una delusio– ne d'amore e allora spariva per mesi, o addirit– tura per anni, e quando ricompariva magari aveva sposato un'altra donna. Quando faceva la corte a una ragazza era propenso a spararle grosse. Lirico, saggista, narratore e drammaturgo, questo signore si chiamava Rudolf Borchardt (1877-1945), e visse per circa quarant'anni in Italia, fra Pescia e Lucca. È a lui che l'Univer– sità di Pisa, con la colfaborazioone delle Uni– versità di Essen e Francoforte, ha dedicato un convegno (2-6 aprile) patrocinato dal Còmune di Grosseto. A quarant'anni dalla morte, que– sta è la prima volta che se ne parla in forme tali; infatti, nonostante sforzi meritori intra– presi sia in Germania sia in Italia, Borchardt resta più o meno sconosciuto. In italiano sono tradotti alcuni dei saggi più importanti (Pisa, solitudine di un impero, Nistri & Lischi; Scritti italiani e italici, Ricciardi: vi sono compresi scritti fondamentali come Villa, Volterra, Pisa e il suo paesaggio); manca- ancora la lirica:, ma forse non più per rrioltÒ; della narratjvà e del teatro invece si può fare a meno. Borchardt è stato uno scrittore paradossale ai suoi tempi è non cessa di esserlo oggi. Gran parte del SUÒ pensiero ha cercato di riformula- - re il concetto di storia (con annessi e conn~ssi) in maniera originale e stimolante. E questo ci riguarda direttamente. La tradizione di ciò che avrebbe potuto esistere Fino a venti-venticinque anni fa. la nostra cul– tura era dominata dall'idea che la storia del mondo è il tribunale del mondo. Per la verità gli incidenti di percorso avevano fatto modifi– care in vario modo questa idea di base; restava però il convincimento che il senso di quel che si fa, si è, si diventa e si vuole, andasse ricerca– to nèl rapporto con lo scopo epocale da perse– guire e quindi che il senso fosse nel movimen– to, cioè in definitiva sempre in un qualcosa che al presente non c'è. D'altra parte l'alternativa– sembrava fosse quella di credere alla validità delle cose così come sono, senza diritto alla cri– tica. lnsomma sembrava che l'alternativa fosse tra la ferocia del reazionario (che svuota di senso il progetto del futuro) e la ferocia del rivolu– zionario (che svuota di senso il presente, sacri– ficando tutto al futuro). Oggi le cose stanno di– versamente, non dico perché si sia trovata la soluzione ma perché non si crede più all'asso– lutezza dell'alternativa. Se ora dico che Borchardt è stato un teorico della tradizione e del classicismo, il lettore ma– gari crederà che voglio rifilargli un ·ferro vec– chio. Ma la tradizione di Borchardt è tutta speciale: è infatti la tradizione di quel che non esiste, de11epossibilità che non sono mai state realtà, è la tradizione di quel che è fuori della storia, del tempo, de11amutevolezza. La storia è il tribunale del mondo solo perché condanna la ristrettezza degli orizzonti del mondo; il filo– sofo è colui che sa guardare nel vuoto per capi– re quel che potrebbe dare senso a un movimen– to che invece vuol darsi senso da sé. Vita di villa Uno dei suoi primi saggi si chiama Villa. Bor– chardt lo scrisse fra il I906 e il 1907 nella "Vil– la ai tre cancelli" posta alla periferia di Lucca e dove appunto abitava. Nel testo si fa, all'appa– renza. una storia della villa italiana. Ma non Un personaggio singolare, studioso e poeta, che visse 40 anni in Italia, e chiamò Pisa la sua utopia del classicismo gioioso. Tra la morte di Dio, e ilfeticismo dello stato, c'è la moltitudine di spazi vuoti, di possibilità non . compiute, che fondano la coscienza di un 'appartenenza comune. RudolfBorchardtnel t 930. VillaSardi,"ai tre cancelli'\ pressoLucca,dove Borchardtabitava~ lasciamoci ingannare: come saggio storico lo si potrebbe contestare parola 'per parola, mentre va preso sul serio per quel che è e vuole essere, cioè una teoria della cultura, la quale a sua volta fonda un rapporto fra società, istituzioni e principio della coesione del potere. Da una parte Borchardt vede nella villa una costante della vita italica, dalla villa rustica dei latini ai suoi giorni; dall'altra ritiene che su questo qua– dro della tradizione nazionale si saldino ele– menti germanici (dall'epoca dei longobardi); dunque è una tradizione complessa, capace di fusione tra culture diverse. Essa è ancorata alla produzione agricola. Grazie al cemento assicu• rato dalla consapevolezza della tradizione, il sistema della villa funziona senza che ci sia bi– sogno di istituzioni forti. Il signore infatti non comanda nel senso coercitivo della parola. Ma lasciamo questi termini, dimentichiamo il si– gnore. il fattore e i mezzadri e traduciamo piuttosto il discorso nella sua lingua' vera. Ecco quel che ne risulta: un sistema culturale si regge per la tenacia nel durare, per l'ancorag– gio a un'attività produttiva in cui esso è con– vinto di trovare la propria realizzazione, per la sicurezza nel venire a contatto con altre culture (anche riformandosi profondamente alla loro ·,/., ''\\;\:\\\~t~tl'.\'.\\:\\:(~ ~ .r"'l1'",·~i1l,:!:Hlldl,Gìlf : ~ luce, ma senza per questo perdersi) e per aver bisogno non di istituzioni delegate ma di coor– dinatori. Diamo pure a costoro il nome di sta– to, purché lo intendiamo in quanto gestore per conto di una memoria collettiva alla quale sa per primo di dover rendere conto. Guai se pen– sasse di trasformarsi in coercitore, guai se il principio del potere pensasse di incarnarsi tut– to intero nello stato: la società glielo farebbe pagare caro. . Le istituzioni ,. e· le intercapedini Questo sistema -Borchardt lo dice esplicita– mente- è studiato contro il socialismo, al quale non perdona di amare troppo le istituzioni, di · vedere il principio del potere e della giustizia identificati totalmente con l'organizzazione delle masse. Né il popolo né lo stato sono per Borchardt le fonti del potere e della giustizia, ma lo sono piuttosto gli spazi vuoti che sorgo– no un po' dovunque nei rapporti fra il primo e il secondo. E' un po' come dire che tutto si può fare ... solo che non lo si prenda troppo sul se– rio, che non si voglia pianificare tutto e trovare un posto a tutto. L'unica cosa che deve avere un posto saldo è la coscienza di una comune appartenenza. Messo su questa via, nel libro su Pisa (1932) e nei saggi su Volterra e sul paesaggio pisano ( I934-35) Borchardt allarga il concetto di tra– dizione ai liguri preariani e alle popolazioni senza lingua; se avesse continuato a scrivere, non gli sarebbe bastata l'età della pietra. Ma la sua Pisa è più che fuori d'Italia: essa è fuori del mondo, fuori dello spazio e del tempo. Solo ciò che è in queste condizioni può dar luogo alla storia e alla lingua, cioè al regno del mute– vole, in cui si depositano le varie forme. L'utopia del classicismo Ma non per questo siamo alla rinascita della metafisica! Dio è morto anche per Borchardt. L'immutabile e l'indicibile stanno a testimo– niare di ciò che non si realizza; ma non pro– pongono un qualche sforzo immane per istau– rare il regno di Dio. Infatti su questo primo elemento del suo pensiero, su questo tradizio– nalismo (che di fatto è un nichilismo) si co– struisce la proposta positiva: il classicismo. E per classicismo Borchardt ha inteso un'altra grandiosa utopia: rumorismo, la gioia e la li• bertà del capire, l'amore per l'imponderabile, l'armonia, l'equilibrio; e il-conciliare movimen• to e stasi. Questo secondo aspetto del suo pen– siero si realizza nella lirica., Il verso incalza, crea un movimento che si spinge fino a creare la strofa; ma questa chiudetil movimento. La poesia può essere anche molto lunga •e Bor– chardt ha reintrodotto le fomie lunghe e lun– ghissime nella lirica del Novecento- ma ciò si• gnifica che la strofa viene potenziata e variata, cioè in qualche modo ripetuta: insomma è la strofa che resta unità di misura del movimen– to. Quando questo è chiuso,,noi non abbiamo trovato accesso a quel Dio che è morto o a quella sostanza che si trova fuori dello spazio e del tempo, ma ne abbiamo depositato il ricor– do nelle forme esteriori. Dato che esse fondano il ricordo e costruiscono la memoria, sono se– rene e libere, cioè classiche. Quanti poeti nel nostro secolo sono stati capaci di costruire liri– che gioiose? Borchardt è uno di costoro (se ce ne sono altri), sia che faccia cantare da Manon una controsereriata al cavaliere Desgrieux, sia che faccia spiegare da Melusina i propri amori. L'altro tedesco Non voglio nascondere che Borchardt non era così cristallino quale l'ho presentato qui rita– gliando nella sua opera; anzi ha fatto molta confusione. Fino al 1934 si espresse positiva– mente su Hitler, finché questi gli ammazzò uno degli amici intimi (Edgard Jung, che aveva scritto il discorso pronunciato da Papen a Marburgo il 17 giugno 1934) e finché non si accorse che fra i suoi antenati c'era "un nonno che non tornava" (era ebreo!). Era tutto contento di Carducci. E riusciva a dire Croce & Hofmannsthat come se la cosa avesse· senso. Si prendeva tanto sul serio da avere un umorismo un po' pesante. E' noto che i simbolisti inventavano linguaggi artificia– li; come esempio nazionale abbiamo Pascoli (dovrò pur fare omaggio alle tradizioni nostra– ne) che scriveva "videvit"; noi ci siamo abitua– ti ad accettarlo, ma George scriveva "Co beso– so pasoje ptoros/ Co es on hama pasoje boafi" e bravo chi ci capisce. A Borchardt, che di sim– bolismo si è nutrito, questo non andava bene. Allora si mise anche lui a inventare il suo lin– guaggio, solo che lo volle fare dall'interno del– la sua tradizione linguistica, come sviluppo di una possibilità non realizzata. Insomma si chiese che cosa sarebbe diventato il tedesco se non ci fosse stato Lutero; e lo costruì! Dopo– diché vi tradusse tutta intera la Divina Comme– dia ( oltre quattordicimila versi, ve lo immagi– nate?). Per certi aspetti è una traduzione straordinaria. Ma quando Thomas Mann la lesse, disse che era una maniera straordinaria ... di avere grilli nella testa.

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