Fine secolo - 23 aprile 1985

FINE SECOLO * MARTEDI' 23 APRILE Poesie di Beppe– Salvia il raggio la polvere il foglio Un raggio ha dimorato tra misure rigorose e chiare di calici, e senza chiudersi in pigre filature tra i vetri ha brillato un segno d'oro, e l'ho sentito il tinno sonoro di quel lume e il coro, come uno specchio avanti al primo grido dei mille vetri del prisma che pur frange acque indolenti dell'iride di lumi, non parenti siamo noi di luci che riposano, livida limatura d'ardesia note quadrettature d'un foglio ha rese metro imperativo e falso di vita che non valse a far pittura scoperta di quell'ombre di polvere ferrigna. estate Di morte m'ha destato il sordo vanto quel traversar pallido e stanco il seno d'un prato bruciato, rosse le ferme coro1Jesegnano i fossi come volesser, stralunato manto, il disegno astrale suggerir, ecco or nel secco vento la curva stanca della luna al vanire s'affanna, bruciano le corolle un fuoco vecchio, al sole ed alla luna opposti astri fan specchio, immillano quell'altera vicenda dei due lumi l'ale affannate terse d'uno sfex ch'ora s'aggrava, va, sullo stelo d'uno di quei pesti fiori del prato che sembrano i sistri sopiti dell'egro strumento dell'anno. E non rapida foglia scende ove è rapita la veglia, fiocco lento bensì s'appresta al volo, lieve neve, misterioso duttile bianco manto che rende chiarità serena come specchio ove posi l'abile libertà .d'un cavallino nero, e poche bave di fronde su neri stecchi, novità bella è quella bella gronda soffice dove la taccola tace e gli occhi miei fissano il lume che mescola luce a quelle piume-rapite d'un soffio di freddo, come il disegno sprezzato io volessi schizzar d'un sogno d'oppio. che sdegna luci ombre e che riposa . . m un piano nevoso e senza voc1. Sempre la spiaggia vago dove non fu– ga d'albatri mi lega e delle pro– cellarie il volo mi dipinge l'acu- to strido che rinnega, veto aspro d'avventi, l'avvento la stagione il sommo del giorno; vedo altrimenti po– vere albagìe nelle avvilite li- vree di vitrei corridoi del cie- lo, arguti essi temono arguzia, son melanconici e l'ale battono con fremito che trema, nascosti là dove azzittiti flabelli nuvole avversano; panni ravvolti cenci sono gli uccelli tinti di pece, là. cuore A scrivere ho imparato dagli amici, ma senza di loro. Tu m'hai insegnato a amare, ma senza di te. La vita con il suo dolore m'insegna a vivere, ma quasi senza vita, e a lavorare, ma sempre senza lavoro. Allora, allora io ho imparato a piangere, ma senza lacrime, a sognare, ma non vedo in sogno che figure inumane. Non ha più limite la mia pazienza. Non ho pazienza più per niente, niente più rimane della nostra fortuna. Anche a odiare ho dovuto imparare e dagli amici e da te e dalla vita intera. con mano pesante cose davvero vaste e silenziose intorno, poi tanta castità del male, ancora la pietà perdonami un'ultima volta, un'ultima volta ammaestra d'una soltanto mia pace la tenebrosa maraviglia stolta cui mi piace cennare e mi conduce per mano or questa fida voluttà al mio danno al mio silenzio all'ironia della sorte ineluttabile fato. Ma più per questo buio che io so m'annego, per vedere da vitrea superficie il funebre raccatto, e poi davvero infinita follia. musico Conosciuto avresti avuto oh, sogn9 di mia ventura l'uso se nessuno m'avesse dato nome lume, sonno che ricorresse a mio aiuto, dunque vita mondana e sue offerte tresche, l'etimo il luogo lacrime m'arsero il lido dovunque immacolato o che potesse darmi sguardo le esche per ricolmarti aver presti modi per ricamo rieseguire, chiudere nell'asol~ il bottone ricamato d'oro inciso della cifra vezzosa del bel nome che somiglia, e s'ode la vanuta il sogno mio prezioso, l'isola dove batte un mare a sponda.

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