Fine secolo - 23 marzo 1985

FINE SECOLO e SABATO 23 MARZO 16 ::' t... trincee. Biasimo la condotta del sottocapo armaiolo Montariello che, ,fin dai primi giorni del fuoco, si rac– chiuse in una specie di ebetismo, rendendosi inutile come graduato e come soldato. Col prolungarsi dell'assedio migliorò poi la sua poco decorosa condotta ..." "'Col prolungarsi dell'assedio", infatti, i marinai si erano in qualche modo adattati alla nuova situazione e avevano escogitato anche alcuni trucchi, che consentirono loro di risparmiare due cose indispensabili: le munizioni e il son- / no. Coi metodi di Gian Burrasca Per risparmiare le munizioni di notte si "pescava" con chiodi piegati e attaccati a funi al di là delle barricate, fra i cadaveri dei soldati cinesi: si prelevavano cartucce e fu– cili, non di rado gli stessi cadaveri ,che, una volta disar– mati, venivano ributtati giù. Era un lavoro faticoso, nau– seante, generalmente di scarso risultato, ma che serviva, in ogni caso, -ad allungare la vita di qualche giorno: quando arrivarono le truppe internazionali, i marinai ita– liani disponevano, in _tutto, di appena undici colpi. Il sonno, invece, poteva essere conquistato con sistemi meno faticosi e più divertenti. Di notte era impossibile dormire: ,i Cinesi facevano un frastuono terribile, spara– vano persino mortaretti e petardi oltre ai normali colpi di fucile. Un rumore insolito aveva, però, la proprietà di· ri– durli al silenzio. I marinai, che avevano fatto propria la tattica del fracasso nemico, tenevano pronte casse e latte da petrolio: quando l'attacco cinese rallentava, comincia– vano a batterle a tutta forza. Per il resto della notte pote– vano riposare nella calma generale. Viva! Bravo! Tutto il mondo è Napoli Lo stesso sistema, con qualche innovazione, fu usato per altri scopi in uno degli ultimi giorni dell'assedio: era stato dato l'ordine di non tirare per non sprecare le munizioni, a meno che i Cinesi non si fossero 'avvicinati troppo. Il morale era piuttosto alto, risollevato dalla notizia, recata da un corriere, dell'imminente arrivo delle truppe alleate. Allora "dopo una scarica furiosa di cannonate cinesi - scrive .l'ufficiale di marina Chiminelli - in un momento di calma (i marinai italiani) rispondevano con un fragoroso ·battere di mani e di grida gioiose di "Viya! Br~vo! Fuori gli artisti". I Cinesi, sorpresi da quei suoni, o da altri suo- ni nei quali è maestro il popolo napoletano, stavano tran– quilli per dellè ore". Gli applausi al nemico divennero da allora un uso comune nel Fu dove, comunque, non tutti ~rano riusciti a sopravvivere. Alla fine dei famosi "55 giorni di Pechino" (tanto, com'è noto, durò l'assedio ),il gruppo del Fu aveva perso sette marinai, a cui se ne aggiunsero altri sei, morti per lo scoppio di una mina, il 1 ~ agosto, della difesa. della. mis: sione del Petang. Solo 48 ore dopo, le truppe internazio– nali sarebbero arrivate nel quartiere delle Legazioni. Il pomeriggio del 14 agosto, nei pressi di quello che era sta– to il campo da tennis, il gen. inglese Gaselee (giunto da poco a capo di un reparto di Sikh) stringeva la mano a Sir Claude Mc Donald che aveva comandato la difesa. Un'ora dopo, i Cinesi lasciavano le loro trincee e attorno alla Legazione non c'era più nessuno: agli Inglesi restò• il vanto di essere entrati per primi a Pechino e ai superstiti la fama di eroi che aumentò, naturalmente, dopo l'asse- dio. . Spietate carneficine? Macché, solo una traduzi~ne sbagliata Come si potè constatare "quei turchi di Cinesi" non ave– vano mai compiuto, fra gli assediati,,le "spietate carnefi– cine" che parte della stampa italiana (e estera) aveva de– scritto con dovizia di particolari: l' "orribile massacro delle Legazioni" semplicemente non c'era stato. Il colos– sale falso' che, in ogni caso, aveva già svolto la sua fun– zione (in Italia l'ondata di sdegno sollevata dalla notizia contribuì a rafforzare le posizioni interventiste), fu smen- ) \.."N~ Lt;.SGA SERIE DI IMPEGZ\'"IDIFFICILI ~"ELLA STORL-\. DEI BERS..\--GUERI DI LEG~.-\~O ·11 «Governolo»~he andrà in Libano .si batté an·checontro i Boxer cinesi BEtRUT, LA STESSA NAVE O'ITANT' ANNI· DOPO di Enrico DEAGLIO Partirono in mezzo a polemiche acce·sissime, tornarono con un sospiro di sollievo di tutti. Subito dopo furono dimenticati. L'avventura italiana in Libano, a un anno di distanza dalla sua conclusione, ha sicuramente stemperato tutti gli ardori che l'avevano accompagnata. Non se ne parla più, e la vi– cenda è archiviata tra le voci all'attivo della «nuova immagi– ne» Italia, insieme alla liberazione del generale Dozier, alla vittoria ai mondiali di calcio e al forte calo dell'inflazione in– terna. Chi si ricorda più delle «mamme» che in varie regioni d'Italia si mobilitarono per evitare la partenza dei figli per il Medio Oriente? O del marinaio Filippo Montasi, unico morto tra i-settemila che hanno soggiornato nell'«inferno di Bei– rut»? O delle accuse violentissime che si scambiavano i par– titi? Di tutta la spedizione, restano nel costume italiano, destinati a-durare più a Ìungo, la mascotte Mustafà - corrispondente mediterraneo del_ «sogno americano.i,, che permette a tutti perlomeno di sperare che la propria vita cambi -e il generale Franco Angioni, che ha avuto unanime successo di simpatia, ha schivato un immediato coinvolgimento politico, e ha pub– blicato libri di discreto successo. Altri hanno conosciuto una sorte meno grata. Il capitano Can- · tatore, per esempio, che era il tramite con le varie fazioni pa– lestinesi e che trattava ·per impedire che il contingente italia– no fosse ·colpito, non compare più nelle cronache. E il colonnello Giovannone, l'ageme segreto-pubblico, che tratta– va lo stesso problema a livello più segreto e meno pubblico, esce ed entra dalle galere, accusato di aver abusato del pro– prio ruolo di 007. Tutti gli altri, i soldati, le crocerossine, hanno ripreso la pro– pria vita normale. Persino il «complesso del reduce», che li tito con qualche imbarazzo e la responsabilità addossata ai "soliti canards di Shangai". Ma, intanto, non si sa se per una sorta di volontà di riparazione o per un rapido cambio di veline, le prime pagine dei giornali mutavano nuovamente i panni agli assediati: "da poveri inermi, in preda alle orde assetate di sangue", venivano tutti tra– sformati in "un agguerrito manipolo di intrepidi eroi". Partono i bastimenti,. con qualche noia meccanica ,. "Le sirene fischiarono: una lancia, con sopra il Re, fece un rapido giro intorno alle tre navi partenti, e un uraga– no di applausi scoppiò dalla riva e da bordo, mentre il convoglio prendeva, lentamente, il largo. Erano le 8.30 di sera del 19 1uglio 1900". Così padre Geroni cappellano militare della spedizione, ricorda nel suo diario la partenza da Napoli, il saluto del– la folla, l'entusiasmo iniziale dei soldati. Subito- dopo però annotava la sensazione di profonda malinconia, propria "delle ore che succedono ai grandi distacchi", che si mescolava a una cupa preoccupcizione: pensava ai suoi guai che erano, pressapoco, queJli di tutti gli altri imbarcati. Era diretto in Cina, un paese di cui si "sapeva- animava al ritorno :t'eterna frustrazione dei combattenti che, ·tornati a casa non trovano le gratificazioni che si attendeva– no - sembra essersi addolcito. Italia ingrata, Italia retorica, Italia che digerisce tutto e che tutto dimentica. Ma anche, e di nuovo, «italiano brava gen– te». È una profezia che si conferma ogni volta. Ed effettivamente, qualcosa ci deve essere di vero. Prendete i dati iniziali della questione. L'Italia partì per il Libano, deci– sa a giocare alla pari con i «paesi più progrediti», senza ave– re se non una scarsissima preparazione militare; con un cor– po di soldati di leva (molti dei quali vol2ntari, ed animati essenzialmente dalla voglia di avventura, o dal soldo); con un corpo tecnico ~bituato più che altro alle noie della buro– crazia e alle lunghe attese alla Buzzati; senza la minima esperienza di condotta sul campo e con una minima cono– scenza dei campo stesso; con un «fronte interno» che sicura– mente non apprezzava l'iniziativa, che guardava con sospet– to alle implicazioni politiche, che si divideva .sui nemici e sugli amici e che era pronto a gestire il fallimento ... • Eppure, è andato tutto bene. Sono andate bene le gerarchie militari, hanno funzionato i collegamenti, i nervi erano saldi e il rancio, anche a detta dei palatf più esigenti, ottimo e ab– bondante.✓ Miracolo? Forse sottovalutazione di un paese na-· scostQ. che era cambiato sensibilmente rispetto alla sua im– magine, ma soprattutto riprova di capacità, non si sa se costruite o innate, di. «legare». I soldati italiani, ma anche gli ufficiali, lìanno «legato» subito con tutti quanti. Dev'essere una dote ormai riconosciuta in tutto il mondo, che probabil– mente facilita il compito. Il francese arriva preceduto da una fama di arroganza, l'inglese si porta dietro i gesti secchi di secoli di colonie, l'americano, quello, si sa, è sempre yan– kee, Big Jim, ricco, robotico. Se avete visto «Urla del silen– zio», il film sulla Cambogia, vi ricorderete una breve sequen– za. Quando diplomatici e giornalisti aspettano, nell'ambasciata francese, il permesso di f.uggire da parte dei khmer rossi, arriva la notizia: «tutto è• rimandatq, possono partire solo gli italiani». E la cosa è datà quasi per scontata sullo schermo, e non suscita reazione in platea. È così: gli italiani -non suscitano odii, non sembrano avere peccati da farsi perdonare. Non sono neanche considerati possibili nuo- J vi padroni; sono semplicemente «lì», nat~rale e gradevole parte del paesaggio, e giocano la parte con naturalezza. Una naturalezza che però a Beirut è stata fatta di quelle virtù che non· comp.aiono sui libri di storia, e sono piuttosto patri– monio dei ricordi popolari. Gli italiani non hanno depredato nessuno, non hanno attaccato nessuno, hanno diviso la cioc– colata, non .hanno stuprato nessuna ragazza (ma molte volte invece si sono fidanzati), non hanno offeso la religione di chi avevano intorno, e non si sono tirati indietro quando c'era da faticare, si sono divertiti a imparare la lingua, si sono inte– ressati dei piccoli problemi e delle piccole storie, si sono an– che scambiati regali e ricordi. I soldati di leva hanno fatto le cose che fanno tutti alla stessa età: pregato quando avevano paura, ascoltato le canzoni e parlato di football, flirtato e bevuto, fumato e smerciato ha– shisch, più che onestamente. Per questo motivo non è sem– brato strano che molti soldati al ritorno abbiano afferm·ato di aver passato a Beirut un «buon periodo», di aver fatto tante amicizie' e di aver una voglia matta di tornare, un giorno, a trovare gli amiqi: Forse tutto ciò acc~de perché non siamo ancora un paesè progredito ... ' no poche cose e del tutto inesatte"; vi andava, per di più, "senza grado e senza stipendio, contento solo di riuscire utile nel campo e nelle epidemie"; ancora prima di arriva– re lì, dove lo attendeva "un c;elo carico di tempestà", si sarebbero dovuti affrontare i pericoli e le incognite di una lunga navigazione. Un presentimento vago, quest'ul– timo, ma certamente fondato, dal momento che i segni premonitori delle future traversie erano _giàpiù che visibi– li al momento della partenza. Il contingente italiano, il più piccolo fra quelli inviati dal– le Potenze, era stato organizzato al risparmio, come im– ponevano le scarse risorse finanziarie del Paese e come sottolineò lo stesso ministro della Guerra, Ponza di San Martino, nel suo discorso tenuto agli ufficiali. D'altra parte, i "modesti mezzi" non furono minimamente com– pensati dall'efficienza organizzativa; anzi, l'improvvisa– zione e le carenze con cui era stata allestita la spedizione si manifestarono fin dalle operazione d'imbarco, pregiu- dicando le già difficili condizioni della traversata. Il con– fuso e affrettato caricamento, la ristrettezza dello spazio e la difettosità degli imballaggi crearono, infatti, grossi inconvenienti: dal materiale di prima necessità che fu ac– catastato in fondo alle stive e divenne introvabile, ai colli di merce, precari o troppo grossi (come le botti di vino da

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