Fine secolo - 23 marzo 1985

FINE SECOLO e SABATO 23 MARZO 34,_" popolazioni e i suoi stati. La nostra amic1Z1a con la Somalia é antica e forte, come l'apprez– zamento per gli sforzi di rafforzare la parteci– pazione e il consenso popolare in quel paese: sforzi che rischiano di essere del tutto vanifica– ti dalla guerra. A me è capitato di ricorrere, esponendo il no– stro interesse per l'autonomia culturale ed et– nica dell'Eritrea, al caso domestico dell'Alto Adige-Sud Tirolo, con le sue luci e le sue om– bre. La frontiera della fame Ma qui si può mostrare più concretamente il collegamento «buono» fra politica e coopera– zione. La fame non rispétta le frontiere statali. Molti.campi profughi sono a cavàllo del confi– ne. A Gibuti, un mese fa, è stata costituita una commissione contro la desertificazione e la fame, cui partecipano Kenya, Sudan, Etiopia e Somalia. Consorzi analoghi esistono anche in Africa australe, per lo sviluppo regionale, e nel Sahel, contro la siccità. Ma nel caso di Gibuti, la cooperazione ha una diretta dimensione so– vranazional); e, quello ,che più conta, con paesi divisi dalla guerra, Etiopia e Somalia, che per la prima volta trpvano una s~de in cui parlarsi. Gli USA erano molto scettici, per non dire apertamente diffidenti, nei confronti delle no– stre iniziative di dialogo e di cooperazione con r Etiopia. Oggi, gli stessi USA figurano fra i paesi che forniscono aiuti all'Etiopia. Il pro– blema è sempre quello: puntare a condizionare raiuto a contropartite politiche, o dare ai paesi nuovi la possibilità materiale di segujre una via autonoma. Nel nostro caso, che sia proprio l'I– talia. che ha con l'Etiopia (e con la Libia) il più infelice passato coloniale, ad assumere un ruo– lo di partner leale e.riconosciuto, non può che renderci orgogliosi. In ~tiopia ci sono oggi 2.000 italiani. Possono essere altrettanti trami– ti consapevoli di questo ruolo .. Una volta un alto funzionario di un paese afri– cano· mi ha detto: «I russi? I· russi sono degli americani senza soldi». Il divario Nord-Sud in car– ne e ossa Che cosa si prova a vedere i campi della fame? E' la domanda più inevitabile e più difficile. Sono stato fra i profughi dell'Ogaden,. nel campo di Belet-uen. Niente può essere nasco– sto, mascherato, lì: non ci sono cose che non si vedono. La realtà è elementare, non può essere né attenuata né drammatizzata. Semplicemen– te, lì il «divario : ;ord-Sud», la follia delle spese per gli armamenti, eccetera, diventano quelle facce. E anche ''Occidente si lascia doppiamen– te vedere: dietro quella tragedia, ma anche con i bravi personaggi, medici, infermieri-emissari dello stesso n1ondo che produce quella trage– dia. E' una conferma che le s0cietà avanzate devono risolvere al proprio interno il rapporto col Terzo Mondo e a condizione di persu:ider– si della reciprocnà, dell'interdipendenza dei loro destini. Sono gli stessi dirigenti africani a parlare oggi di una possibile nuova immigrazione bianca nel Terzo Mondo, di una «colonizzazione» fi– nalizzata allv sviluppo nazionale, in regioni · potenzialmente ricche, spopolate, impossibili da sfruttare spostando la popolazione locale. Il volontariato è l'anticipazione di questa possi– bilità. E non è questa la grande chance anche per no· ,)er urta nostra generazione che rischia di non lavorare mai, e che può trovare insieme . un'occupazione e una motivazione ideale? l ;'isola degli. schiavi. Fra le esperienze più sconvolgenti c'è la visita a 1 l'isola di Goree, di fronte a Dakar, appena a una ventina di minuti. L'«isola degli schiavi». Venivano concentrati lì, Dakar era il più gran– de porto d'imbarco. E' un'isola di stupenda bellezza naturale. Ci si trova la Casa degli schiavi, una specie di fortino da western,. con un cortile, una doppia scala interna coi para– petti per il piano di sopra. Sopra stavano i ne– grieri, sotto gli schiavi. Un privato senegalese volle farne un museo, poi Senghor lo appoggiò e ora è un museo nazionale. C'è solo un custo– de. Non c'è una catena, non un'immagine, niente. Solò'bigliettini scritti a mano, col ricor– do e i sentimenti dei visitatori, insigni o scono– sciuti. Un custode scrive anche lui i suoi pen– sieri, e ogni tanto cambia i bigliettini càncellati dalla pioggia. Ci sono due celle di punizione, poi celle ·separate per uomini donne bambini e infermi, lungo corridoi che si incrociano àll'al– tezza di una porta, a cinque metri dal mare. Qui venivano caricati sulle navi, come da un molo. Oggi la porta è senza battenti, e il visita- .tore dall'interno vede solo cielo e mare bellissi– mi, gli stessi che vedevano loro, per l'ultima volta. Di Auschwitz sappiamo, ci siamo stati: di que– sto niente. Io non ne sapevo niente. I visitatori neri america.ni che vengono qui stanno male.· Tempo fa stavano per farci un Club M~diter- ranée. · Un'emozione strana e-paragonabile a questa si prova a Soweto, il quartiere ghetto a 1O km. da Johannesburg, con un milione di neri che van– no a lavorare e vengono a dormire, lungo una fan'tastica autostrada. Tutte le case uguali, stesse dimensioni, sette metri per tre, stesso co– lore, numerate, raccolte in blocchi quadrati, intervallate da strade sterrate poliziescamente larghe, senza un solo luogo d'incontro, un bar, una piazza ... E' un lager, certo: solo che si -re– sta colpiti non dai cadaveti, ma dalla loro as– senza. Un posto così sembrerebbe fatto per ammazzare la gente, non per farla sopravvive– re. La ''tribù biqnca sudafri– cana" In Sudàfrica so~o sempre stato di passaggio. L'Italia ha normali rapporti diplomatici, ma su tutto pesa l'apartheid. Le visite di Botha in Itlaia hanno sempre avuto carattere privato. ' Soweto (foto F.ckhard Supp) Altissimo, come ministro dell'Industria, ha vi– sitato il Sudafrica, è stata la prima volta. Il fat– to è che il Sudafrica, come dicono gli stessi mozambicani, non è un regime coloniale tradi– zionale (come la Rhodesia, per esempio) con- . tro il quale si debba o si possa intervenire di– rettamente. L'apartheid è un problema interno, anche se all'esterno il giudizio morale non può essere messo in dubbio. Perfino Nye– rere, a proposito del Sudafrica, ha parlato del– la «tribù bianca africana».·Kaunda farebbe en– trare il Sudafrica nell'OUA, se cadesse l'apartheid. Non si tratta di concess.ioni t.atti– che, ma di convinzioni reali. Basta ricordare i quasi quarantamila morti per parte della guer– ra anglo-boera. La crisi di regime si è aperta da tempo,, con il superamento delle forme più virulente di op– pressione, e l'inevitabile accesso dei neri alla preparazione professionale e alla cultura uffi– ciale. A questo punto il regime dovrebbe tenta– re di cooptare le aristocrazie nere, ma è pro: prio l'apartheid a non permetterglielo. Così ricorre a piccoli espedienti riformisti, sufficien- ti tuttavia a moltiplicare le crepe e i varchi. Del ' resto, se e quando verranno ufficialmente ac– colte a Pretoria le delegazioni nere di altri pae- si dell'area, la contraddizione con il trattamen– to riservato ai neri interni si farà •insostenibile. L'appello drammatico dirigenti mozambicani dei Del resto il tempo non è 'molto. La situazione del Mozambico -e, d'altra parte, dell'Angola- è a un punto cruciale. Di questi paesi l'Italia è il partner più importante e riconosciuto, fin dal– l'indipendenza. L'accordo di Nkomati fissò una collaborazione attiva fra Mozambico e Sudafrica per impedire l'assistenza ai rispettivi movimenti di guerriglia. Fu un enorme passo avanti, anche se da noi qualche massimalista gratuito ritenne di strillare al «tradimento» mozambicano. In realtà, fuori da un quadro così regolato, è impossibile ogni convivenza nell'area: e resta solo lo stillicidio con la sua appendice inevitabile, la perdita di consenso interno dello stesso Frelimo. A differenza dell'Angola, il Mozambico non ha né il petroliò, né i cubani, né uno stato-cu– scinetto come la Namibia: è a contatto diretto col Sudafrica, e il suo futuro ne dipende eco– nomicamente e fisicamente. Ci sono 200.000 mozambicani in Sudafrica. La rete dei traspor– ti -cui l'Italia collabora con un impegno parti– colarmente rilevante- ha senso in quanto colle– ghi il Sudafrica l;!ll'Africà Australe, e così via. Il vero problema è, al contrario, il mancato ri– spetto dell'accordo di Nkomati, e la minaccia sull'intero processo di pacificazione. I dirigenti mozambicani avvertono drammaticamente che i prossimi'tre o quattro mesi saranno decisivi, e che col Mozambico sarebbe compromessa l'intera Africa Australe. La gente, in Mozam– bico, chiamò Nkomati «l'accordo delle patate» . .. e commentò «finalmente si mangia». La pacifi- :;: ""'=-:-;•=~-.,~·-: ., cazione avrebbe dovuto essere compiuta nello .. ;.;;~~;;? , ', scorso settembre: invece, a distanza di un .=,~:,ç:t:'.~!: · annò, il conflitto e la fame imperversano più ::··tft=; che. mai. I dirigenti mozambicani sono stati • . ••• ·.,..V: ❖~ ~@MiW/ moltq realisti, hanno accreditato· ai Botha la ',,,.A:-t•-~\ buona fede, e addebitato le violaz10ni dell'ac- .cordo af sabotaggio dei militari, sostenuti da una «connection» di grandi proprietari porto– ghesi e di forze politiche, da Strauss all'Arabia Saudita, all'Oman, alle Isole Comore,• base di · aiuti militari alla Renamo. Quando furono assassinati i due tecnici italiani a Corumana andai in Mozambico, per discute– re delle misure di sicurezza, ma anche per con– fermare che non avremmo lasciato il paese. In quei giorni erano riuniti a Pretoria esponenti del Sudafrica, del Frelimo e della Renamo. C'erano pressioni (anche in Italia) per un pre– _sunto «governo di unità nazionale» in Mozam– bico. La nostra fermezza nel confermare l'ap-

RkJQdWJsaXNoZXIy