Critica Sociale - Anno XXI - n. 19 - 1 ottobre 1911

290 CRITICA SOCIALE Noi prediamo, noi frodiamo noi stessi. E per questo liberiamo il peana! Non bastava un Mezzogiorno alle tristezze, alle impotenze della terza Italia. Se ne aggiunge un altro, dieci volte più vasto, più deserto, più mi- sero, infinitamente più inaccessibile ad ogni reden- zione civile. E al quale il vero Mezzogiorno — che tripudia e follemente si esalta — sarà il primo de- signato Olocausto. Ormai la attendano pazienti la attuazione delle loro leggi, di lavori, di acquedotti, di ferrovie, la Basilicata, le Calabrie, onde fuggono a torme i villani, e Sicilia e Sardegna. Sardegna, popolosa un giorne, ora men densa di vite, coi suoi 32 abi- Imiti a chilometro quadrato, in confronto di quel di Tripolitaida che non é nuda roccia o irre- diicibile arena. E invochino restituite le selva e im- brigliate le fonti, che promise l'arguto Nitti ai • suoi conterranei assetati, devastati, fuggiaschi. E speri e cliieila il paese, dà Luigi Credaro, la scuola e la ei‘ litri. Ora l'alfabeto e il bosco e la fonte e la ida lei•lieremo, gloriosi pionieri, al Sahara e alle libiche arene. Perocchè noi siamo un popoli) gran- de, alle cui esuberanti ricchezze, alle cui inesuste energie, una penisola e due mari sono poca cosa — un continente non basta! • E che 'farne del 'voto orafnai, che profitto spere- ranno trarne ì miseri cafoni del Sud, se l'erario — nel quale, -alla fine, è chiusa tutta la politica - — se l'erario, fino a ieri così avaro, così vuoto per loro, rigurgita, é ben, vero, ad un tratto — nia non per essi rigurgita l'oro e l'argento — si, per le aduste steppaie di Berberia?' Ma la canzone é già mutata. La burla — s'è compreso era troppo inetta e troppo feroce. E si è smesso' di parlare di colonizzazione, di espan- sione; economica, di traffici 'e- di emigranti da con- vogliare laggiù. Il sintoun del deserto già é pas- sato sovra la rosea leggenda — e l'ha arsa. .Restano — nello sfondo del quadro— due segni, due simboli: un kepi ed un tricorno. - Lo sbadiglio lungo della caserma e del cossero indarno muni- to, che invocava alfine una tregua; e il sogghigno, implacabile, del Vaticano. Si profila, da un canto, la sagoma secca dell'uomo di Borsa, che annusa qualche privilegio di forniture. Sorridono; sul- da- vanti della tela, i quattro « giovani turchi » di Mon- teeitorio, che non mai avrebbero sperato — sul serio e proprio da un Governo da loro insidiato —. così pingue e prodigioso bottino. Perchè del trionfo é alle loro fronti che spetta.' Sono essi che pensarono il colpo. E il colpo maestro è riu- scito. • La comunella del Governo coi 'socialisti, disfat- ta; l'Estrema, sfasciata; dato un fermo a quella corsa satanica verso le prime riforme e la demo- crazia. Tutto in aria! Saltato il-banco! E.per quanti anni?... Ma « dopo, di noi il- diluvio! ».• r** Oggi siamo soli, quasi, nella lugubri.: proiesta. Tutta la retorica, tutta la fatuità, luna la levità latina di la,stra gente si rizza, irritata, coltivo Gas- sanciva molesta. Anche molti dei nostri. dei vi- cini — che videro come liii vedemmo, che lancia- rono l'allarme con noi, hanno ripiegato e si iiic- ciono. Non è aria, questa, e non è ora, di <lucri- monie.... Noi proseguiremo, anche soli. Anche soli, 1101I disarmeremo. Non ci placherà la blandizie, non ci turberanno i dileggi. Attenderemo, pazienti, clic le canzoni si addormentino, che le sbornie siano sfumate. Questo, che si è consumato, nel cinquantenario della patria, in nome della patria, è il tradimento alla patria. Dopo trent'anni di fatica, i vecchi sognatori — della cui falange noi siamo — scosso IO stupore disastro che devastò loro intorno la casa e il campo e la siepe — ripiglieranno le zappe, rico- minceranno da capii. Si susurreranno a vicenda: «Araldi! Questa è la rila! ». I,A UnrricA SociAr.r. L' IMBROGLIO DI TRIPOLI DOCTJMICNTI. Non sappiamo — ma probabilmente si contano sulle dita delle due mani — quanti italiani, al— l'infuori dei "parlamentari professionali „, abbiano seguita con attenzione la discussione, che si è fatta, fra il 7 e il 9 dello scorso giugno, sulla politica estera, alla Camera italiana. Eppure fu in quella discussione che il deputato di un Collegio di Roma — l'on. Leone Caetani — pronunziò un- discorso eloquentissimo, eloquente non per lenocini di forme, ma per conoscenza profonda di cose e per ardore di convinzione, su quello che oggi appassiona le inconscie folle ita- liane, e che egli già, allora definì " l'imbroglio di di Tripoli „. Neanche nelle polemiche di questi giorni sui grandi giornali lo vedemmo mai rammentato. Ma, poichè, non appena sarà sfumata la sbornia attuale, converrà, pure chiederci conto di quale perfido vino ci siamo abbeverati, cominciamo la documentazione della nuova follia, ritagliando da quel discorso, invano presago e ammonitore, al- cuni fra i brani più salienti e significativi. * Premettiamo che il Caetani • cui il censo largo e la coltura specializzata spinsero a frequenti e pensosi viaggi nell'Oriente Musulmano e in tutto il Nord—Africa — non è affatto un antiespansio- nista. Al contrario! Egli oppugna soltanto quel colonialismo impotente e balordo, che è la nega- zione più recisa dell'espansione civile. In tutta, infatti, la prima parte del suo discorso, l'oratore non fece altro che .censurare la miseria dei nostri Consolati, la assenza, in Italia e alla Consulta, di ogni studio, di ogni amore, di ogni seria competenza geografica, commerciale, lingui— stica (non narra egli che di un documento scritto in amatico si dovette mendicare la decifrazione a non sappiamo qual orientalista, e un altro, in turco, riguardante i nostri rapporti colla Turchia, si fece tradurre.— dall'ambasciatore di Turchia?!!)

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