nelle edizioni domenicali del Kurier Warszawski, oppure i romanzi di German, Mniszk6wna, Zarzycka, Mostowicz, scoprivo la realtà.... erano infatti romanzi che smascheravano, erano romanzi traditori. La loro maldestra trama si screpolava ad ogni istante e attraverso queste spaccature si potevano intravvedere tutte le sozzure di quelle sciatte anime d'autore» (Diario /953-1956, p. 94). Q uesto passo contiene una indicazione preziosa per de- •• codificare i diversi livelli su cui sembra articolarsi la struttura narrativa degli Indemoniati. Ciò che viene narrato al primo, più superficiale e appariscente livello, utilizzando gli schemi del romanzo nero e poliziesco, con tanto di castello, passaggi sotterranei, forze del male, delitti, agnizioni, dementi, è la love story di due giovani, contrastata da differenze di classe (si pensi alla scena, splendida, del ballo dei came_rieri)in una società in cui il tradizionale modello aristocratico-nobiliare deve fare i conti con l'emergere di nuovi ceti, di un proletariato urbano (e l'azione è sapientemente distribuita fra il cupo maniero di Myslocz e Varsavia). A un livello più recondito, la storia dei due adolescenti racconta in realtà le ossessioni e le ambiguità dello stesso autore. Maja e Marian, di origine e tratti aristocratici l'una, plebeo l'altro - reciprocamente attratti da una somiglianza misteriosa e degradante («In fondo siete impastati come di una sola creta; lo hanno notato tutti. Ha il tuo stesso sorriso, il tuo sguardo, i tuoi gesti, la cosa è addirittura scandalosa», «Si trattava d'una comunanza più profonda, nel tipo fisico, nell'espressione stessa del volto, nello sguardo, nel sorriso e in qualcos'altro di più profondo e ancor più inafferrabile») - si rivelano le due facce, lo sdoppiamento di un solo «io», che è maschile e femminile al tempo stesso, l'«io» di Gombrowicz. I travagli di Maja-Marian sono le manifestazioni di una personalità divisa («Sentiva che stava fuggendo da se stesso, che si stava perdendo, ma non riusciva ad afferrarsi»), di una sessualità dolorosa e imperfetta. Ripensando alla sua adolescenza, Gombrowicz dimcd"' ti:'•••· così come la cercava Gombrowicz «nella semplicità e nella salute bruta dei più bassi strati sociali, durante quelle spedizioni attraverso i quartieri operai di Varsavia; e la cercavo anche, questa realtà, in quelle zone in me, in quei terreni vaghi, interiori, deserti, periferici, inumani, dove imperversano le anomalie e, forse, l'Informe e la Malattia, l'Abietto» (Testament, p. 45). Questa ricerca, che è introspegli dava da pensare era l'indifferenza di Maja nei confronti degli uomini distinti e ben vestiti, mentre i giovani dall'aspetto proletario attiravano immediatamente la sua attenzione,.) verso il basso: «Il mio erotismo era tragico, fisico, sempre alla ricerca di qualcosa di prezioso che non si sarebbe trovato, lo sapevo, che negli stadi più bassi della vita» (Testament, p. 57). Una simile lettura è incoraggiata anche dalla funzione che Gom- .s1d,t;·acrof~ncti on1ani 1mper1inJuicciffimù li~nu:de portcciftco Sue.in Surgaudia:b.lidisMarciJS Anno &c.xcvj .edico :c61e, Unmaialemostruosohaduecorpie un'unicatesta ce di sé: «Gia allora avevo una vita doppia. C'era in me qualcosa di oscuro, che per nessuna ragione accettava di aprirsi alla luce del sole» (Testament, p. 36). Maja-Marian cercano disperatamente se stessi, la realtà ambigua, ambivalente della loro natura («In me c'è qualcosa che forse è anche in lei. Se è in me, allora è anche in lei. Come faccio a sapere se adesso è lei che mi parla, oppure .... »), zione e comunicazione insieme, viene affidata dallo scrittore a Maja e al suo doppio, Marian. Ma mentre al primo livello - quello della love story - Maja, la metà femminile, assolve solo alla funzione di uno dei due elementi della coppia, al secondo livello, quello più profondo, essa sembra svolgere il ruolo di mascheramento delle pulsioni omosessuali dell'autore, attirato come lei («La cosa che più browicz attribuisce alla letteratura: «Secondo me io sono l'unico ·' tema che la mia natura mi ha autorizzato a trattare, ho il diritto di toccare solo le mie incomodità (... ). E riterrei molto appropriato che gli scrittori, in particolare quelli giovani e non ancora 'rifiniti', la facessero finita con l'assurdità di un vergognoso tacere di sé - poiché le loro opere, non essendo capolavori, possono non essere autentiche in arte, loro stessi invece fra le loro incomodità sono sicuramente reali, vivi, interessanti e istruttivi perfino nei difetti e negli inevitabili passi falsi,. (Varia, p. 108). Come dirà con formulazione più sintetica vent'anni dopo: «non vi è in arte un compito più importante di quello - esprimere se stesso» (Diario 1953-1956, p. 330). Duplicemente motivata appare a questo punto. la decisione di Gombrowicz di stendere un velo di silenzio sul suo «romanzo popolare,.. Alla consapevolezza di non essere riuscito a stabilire con la Forma, con le convenzioni impostegli dal genere prescelto, quel gioco di attrazione-repulsione di cui è esemplare modello lo stile surreal-grottesco di Ferdydurke - cioè di non aver trovato la «distanza dal Kitsch» necessaria per «esternare il Kitsch stesso,. (Varia, p. 182) - si assomma l'imbarazzo per aver reso palese in maniera troppo scoperta e ingenua la sua propensione per ciò che era «anormale e malato,. (Testament, p. 47), le pulsioni oscure del suo essere. Questa scelta non può impedirci oggi di ricollocare il romanzo - oltre tutto godibilissimo - all'interno della produzione letteraria dello scrittore, proprio perché, come ba sottolineato in un suo importante studio (1975) sugli Indemoniati la polacca Maria Janioo, «esso costituisce una parte del suo assai sviluppato e coerente programma letterario e in nessun caso lo si può trattare come un aspetto marginale deteriore e vergognoso della sua opera». Witold Gombrowicz Schiavi delle tenebre trad. it. di P. Marchesani Milano, Bompiani, 1983 pp. 299, lire 16.000 Unitinerariopedagogico Cl è chi riesce a rifugiarsi nei segreti giardini della Grande Esclusa (questa è l'opportuna definizione usata da France/io Butler per rendere espliciti i termini secondo cui storicamente si manifesta la «letteratura per l'infanzia») con la piena consapevolezza di poter trovare, nel riposto dominio costituito dai libri «per i bambini», vantaggi e privilegi che non si offrono in altri ambiti. Ogni libro «per l'infanzia» davvero importante ripropone interamente i dubbi, i quesiti, le difficoltà di catalogazione che caratterizzano, da sempre, uno spazio controverso e raramente esplorato, in cui si muovono tendenze, si manifestano mode, si esplicitano controversie, senza colpire l'attenzione di quanti si occupano dell'altra letteratura, quella «vera», fruita dagli adulti. Anche Emilio di Antonio Porta chiederebbe che, in suo favore, si producesse un'accurata revisione di termini di giudizio e di categorie critiche. Ma, più semplicemente, Emilio sposta la prospettiva, attraverso cui lo si considera, versoaltre angolazioni, verso ottiche rese complesse dall'apporto di numerosi strumenti interpretativi chiamati inevitabilmente a forni re spiegazioni e modalità di lettura. Infatti, Emilio parla ai bambini e riesce a porsi «dalla loro parte», ma si rivolge anche agli adulti e a loro indica il senso di un'esistenza, i luoghi e i modi che illustrano una presenza, ridotta a essere quasi impalpabile da secolari lontananze, da sedimentate distorsioni, da manipolazioni percettive sentite come «naturali» perché prodotte in epoche ormai remote. Come ogni bambino, anche Emilio richiama una «metafora d'infanzia» a cui può fare riferimento: non sappiamo però definirla con chiarezza, perché Porta ha voluto complicare il suo itinerario pedagogico fino a sovvertire l'ordine delle date, fino a scomporre i paradigmi più impegnativi usati dalle «scienze dell'educazione», e a ridurli in sorprendenti brandelli. Questo Emilio si collega - è perfino inutile rilevarlo - all'altro Emilio, al bambino di Rousseau che giustamente domina, come ombra dolcissima, o inquietante, oppure sottilmente allusiva, ogni tipologia di rapporto stabilito tra infanzia e mondo adulto. Una sostanziale differenza, una separazione nettissima, si hanno invece quando si controllano le consapevolezze di cui ciascuno dei due bambini è miticamente dotato. Il fanciullo di Rousseau è ricco di variegatepremonizioni: sa perfino che, presto, molto presto, il professor ltard stabilirà nuove connessioni tra il piccolo Vietar e i boschi dell'A veyron. Non le foreste «istruttive», non le palestre liete in cui allenare i «sensi capaci» e in cui organizzare la conoscenza intorno a processi luminosi ed a utopici disegni di crescita e di sviluppo, saranno allora i «luoghi dell'educare», ma selve cupe e sfuggenti, tortuosi itinerari regressivi, clamorose attestazioni di fallimenti. li nuovo Emilio di Porta conosce infinite biografie di bambini e le scorre con sorridente distacco: nessuna può veramente condizioBiblioteca.ginobianco Antonio Faeti narlo, perché sa essere veramente «libero», in quanto è incredibilmente «colto». Con pochi tratti, con scarsissimi riferimenti, sgombra il campo dalle eredità più recenti e più catturanti, poi ammicca a quelle lontane e colloca tranquillamente se stesso ne/l'avventurosa genealogia di cui è entrato a far parte. Sta tutto dentro una cultura, quella dei libri per l'infanzia e della riflessione pedagogica, ma non concede a nessun «aio», a nessun precettore, neppure alla madre - chiusa spesso quasi solo entro il ruolo di inevitabile interlocutrice, pronta per altro a fornire formidabili pretesti per le dichiarazioni più lucide e attraenti, - il diritto alla guida, ali'esercizio del potere, alla pretesa di fornire esempi. Come nell'altro Emilio, anche in questo c'è la pretesa di un colloquio diretto tra il bambino e la natura. Ma queste terre, questi voli, questi cieli su cui si fonda il rapporto di Emilio con le cose, svelano le sembianze di una natura controversa e strana, estremamente astuta, sorprendentemente «artificiale». f\jeglispazi di plastica di una certa stagione della Pop art, le mele, le pere, i fiumi, le foglie sfidavano, con ilare tracotanza, la «vera» narura, degradata, umiliata, resa banalmente «finta» dalle infinite manomissioni prodotte dagli uomini. Così, nel territorio di Emilio non e' è posto per vecchi e improponibili ricatti. Consapevole di vivere in un teatro di finzioni, questo Emilio «mette in sce11a»una rappresentazione minuziosamente calcolata: tra casa e cielo, tra le mura rifinite e godute di un'abitazione esplorata e accettata, tra voli e respiri, il bambino di Porta si occupa di questo nostro mondo, avanza pretese, modella occasioni, ribadisce acquisizioni. Cita li piccolo principe perché sa che le sue radici educative hanno un grande spessore, e riesamina, con sensuale tracotanza, i progetti, anzi il Progetto pedagogico di cui non ignora certo l'esistenza. E si contrappone, col ribadire essenzialmente il «diritto al respiro» (tanto nei termini f,sici che in quelli metaforici), a/l'inclemenza tassonomica in cui è avvolta l'infanzia di oggi. Bombardati da custodi comunque travestiti, travolti da giornate più dense, piene e ritmate di quelle di un manager impazzito, gli altri bambini possono guardare a Emilio come a un «manifesto», a una carta dei diritti, a un nuovo «contratto sociale». E possono fidarse- . ne, perché questo Emilio è troppo furbo e troppo consapevole per cadere in tranelli che, in fondo, sono tanto recenti e ancora capaci di attrarre. Emilio respira e co11osce,corre, saha, vola ma «ragiona», perché co11fronta e «studia», perché costruisce le 11uovemodalità di u11a vigile percezione. Abita proprio dentro la «letteratura per l'i11fanzia», e non solo perché conosce il Piccolo principe. Vive tra i disegni di Altan, si illumina delle luci di questi illediti pastelli, contrapposti alle levigate durezze di tante tavole attuali rifinite da/l'aerografo o dalle tinte ripetitive dei cartoons giapponesi. Ride, Emilio, e questo è il fondamento della sua gillnastica e della sua auto-didattica (anche se poi non è assolr.uamenteun autodidatta, perché dialoga con ribadita attenzione e ricerca un rapporto che tiene conto del ruolo «diverso» assegnato a/l'adulto). E ride in modo tanto penetrante, cosmico e complesso, dafare intravvedere, accanto a lui, forse non più il Rousseau dell'altro Emilio, ma Jean Paul, il pedagogista che riempì di un riso misterioso, creativo e demolitore, il fondamento della sua interaproposta educativa. Ali' Emilio di Antonio Porta potrebbe anche toccare il destino che ha separato Peter, Kim, Tam, Max, Moritz, oppure Giannetta, Giannettino, Minuzzolo, Pinocchio, Lucignolo dai luoghi in cui si legge e si discute quanto non è contenuto nella Grande Esclusa. Ma quanti anni avrà Emilio nel 2000? Come tutte le migliori opere sui bambini, contenute nella «storia della leueraturaper l'infanzia», anche il libro di Antonio Porta è ricco della futuribile progettualità di chi ha guardato avanti godendo del riso, delle piccole e complicatissime mosse, del respiro e del sorprendente interloquire che scandiscono un tempo senza confini. Antonio Porta Emilio illustrato da Altan Milano, Emme ed., 1982 pp. 41, lire 14.000
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