Jabès,PremioPasolin'i83 La giuria del premio «Pasolini di poesia» (A. Bertolucci, L. Betti, O. Cecchi, M. Corti, F. Fortini, F. Leonetti, M. Luzi, A. Moravia, N. Naldini, S. Ottieri, A. Porta, G. Raboni, J. Risse!, V. Sereni, E. Siciliano, P. Volponi, A. Zanzotto) ha attribuito quest'anno il premio a Edmond Jabès. Alle riunioni ha partecipato anche Vittorio Sereni. Negli anni scorsi il premio è stato dato ad Amelia Rosselli e quindi a Hans Magnus Enzensberger. Su Jabès i lettori di Alfabeta possono riscontrare due scritti (di Anna Panicali e di Donatella Bisutti) nel n. 45. Qui pubblichiamo la dichiarazione di Jabès (tradotta da Jacqueline Risset) la sera del 2 maggio 1983, nella manifestazione di consegna del premio. U n premio lelterario, per quanto prestigioso sia, non è mai una ricompensa; è piuttosto l'occasioneper i membri della Yale, ma mi limito a ricordare un paio di riscontri dentro il corpus degli scritti di Emerson. Come quando egli parla del valore dell'amicizia (nel saggio omonimo) erileva drammaticamente quella che è la posizione di amico: «Quel grande occhio di sfida, la bellezza sprezzante del suo aspetto e dei suoi atti non ti deve offendere piegandoti, ma deve accrescere la tua potenza, innalzarti: inchinati a ciò che in lui è più grande». Non possiamo non vedere qui una delle linee genealogiche che portano alla scrittura di Genet - non solo allo stile, ma a quel che vi è in questo scrittore di più universale: e che non è l'ostentato tema dell'omosessualità, ma il tema sotterraneo dell'amicizia. Ma quest'altro esempio è specialmente ricco: «L'occhio fu collocato là dove un certo raggio sarebbe caduto, così che esso potesse dar testimonianza di quel raggio particolare» (da quello che è il più sfolgorante tra i saggi di Emerson - «Self-reliance», non incluso in questa antologia; difficile, a cominciare dal titolo pressoché intraducibile: si potrebbe usare «autonomia» se non fosse parola che oggi, nel contesto italiano, ha una connotazione sinistramente ironica ... ). La frase citata è essenzialmente una glossa a una delle poesie cruciali di William Wordsworth, «Expostulation and Reply», soprattutto ai versi: «L'occhio - non può scegliere se non di vedere; I Non possiamo ordinare al nostro orecchio d'essere inattivo; / I nostri corpi, in qualunque posizione, / Sentono, che noi lo vogliamo o no. // Né esito a credere che esistano Poteri I Che per la sola loro forza intrinseca / Restano impressi sulle nostre menti; I Queste menti nostre che possiamo nutrire I In una saggia passività». Q uesta «wise passiveness» si propaggina in tanti altri luoghi di Emerson; come questo, dal saggio sull'«lntelletto»: «Il nostro pensare è sempre un'accettazione devota. La nostra verità di pensiero è dunque viziata tanto da una direzione troppo violentemente impressa dalla nostra volontà quanto da un'eccessiva trascuratezza. Noi non determiniamo ciò che penseremo ... Siamo prigionieri delle nostre idee. Esse ci sollegiuria di questo Premio di rendere pubblico omaggio al vincitore, di testimoniargli la propria stima. Di questa stima sono loro riconoscente; poiché a essa risponde quella che ho per loro da molto tempo, avendo letto le loro opere. Non ho bisogno di insisteresulle mie affinità con alcune di tali opere; i loro autori lo sanno, e lo sanno anche se non ho avuto finora l'occasione di dirglielo. Ciò che lega gli scrittori tra loro sta al di là de~elogio, in disparte, nella regione più intima e silenziosa del loro essere. Lì, infatti, risiede la loro vicinanza, nel cuore di un'avventura che ne annulla le differenze. Ed è anche perciò che, in questo luogo dell'amicizia, in cui la parola fa eco alla parola, vorrei, per attardarmici un attimo, evocare paradossalmente il silenzio: quel silenzio nel quale sono immerse leparole di una vita e di una morte che il libro ci restituisce. Libro la cui vocazione è, certamani, guardiamo con occhi spalancati come bambini senza fare alcun sforzo per impadronircene, di queste idee» ecc. ecc. Qui la genealogia testuale, se porta aJl'indietro verso l'immediato precedente di Wordsworth, punta anche in avanti, verso propagginazioni più intricate (non parlo infatti, è chiaro, di derivazione diretta): come le stupende pagine d'apertura che fanno del saggio pascoliano sul Fanciullino uno dei grandi saggi d'estetica nel Novecento italiano - non ostante la piattezza e quasi leziosaggine con la quale questo testo, a coda di pesce, si conclude. (Questa genealogia del discorso pascoliano non è un aneddoto marginale - andrebbe esplorata più a fondo; scrive Emerson nel citato «Self-Reliance», parlando dei bambini e fanciulli, questa frase che comincia blanda e finisce forte: «Il loro spirito essendo integro, il loro occhio non è ancora conquistato, e quando guardiamo ai loro visi restiamo sconcertati», dove è cruciale - e basti pensare a certe analisi di Emmanuel Lévinas - la tematizzazione dello sguardo come reciprocità critica: cioè uno sguardo che non soltanto è ricambiato, ma è attentamente scrutato: e poco più avanti, l'asserzione si fa ancora più forte, e pre-rivela la violenza che Pascoli cela nelle pieghe, spesso rifinite in piegoline, dei suoi discorsi: «Queste sono le voci che noi udiamo nella solitudine, ma esse divengono fioche e non più distinguibili a mano a mano che noi c'inoltriamo nel mondo», scrive Emerson - ed è questo un tono che Pascoli, traduttore fra l'altro di Wordsworth precursore di Emerson, sa bene come sviluppare - ma la frase immediatamente seguente nel testo emersoniano ci mostra come la posta in giuoco sia ben più grave: «Dappertutto, la società cospira contro la dignità umana di ognuno dei suoi singoli membri»). Ma perché ho parlato prima di occhio «mostruoso»? Per evocare la genealogia più profonda del pensiero di Emerson - che è, al di là della trafila romantica, la filiera neoplatonica: «Nel modo che il tuo occhio sta al tuo corpo, in quello stesso modo la tua mente sta alla tua anima. La mente è infatti l'occhio dell'anima». È Marsilio Ficino, che essenzialvano catturandoci per alcuni mo- mente sta citando Plotino. Ma poi menti nel loro cielo e così total- Ficino sviluppa questo conceir con mente ci impegnano che non c'è più in noi alcun pensiero del douna torsione sua, originale: «Fingiti nell'animo che l'occhio cresca Bib11t0ecagi obianco mente, quella di suscitare innumerevoli letture ma che non di meno, nel mistero o nella dispersione, si concede a un solo leuore per volta, al suo lettore. Crocevia di incontri privilegiati, un libro che si afferma dunque solo nel moltiplicarsi ma del quale ogni decifratore, occasionale o familiare, è in grado da solo di forzare il destino. Lo scrittore è il proprio libro; in esso tuttavia non entriamo tutti atfino a tanto che - risucchiato ogni altro membro - tutto il corpo divenga un occhio solo. Immagina inoltre la tua mente di tanto crescere sulla punta dell'anima che - erase tutte le altre parti dell'anima della fantasia del senso - l'anima tutta divenga una mente, una mente sola». È la Theologia Platonica - ed è un testo che funziona in due sensi, per ciò che concerne la genealogia di Emerson. Per comprendere come, occorre prima di tutto rendere omaggio a James Russell Lowell, contemporaneo di Emerson, il quale aveva già trovato la formula critica che lo definisce perfettamente: «Plotino-Montaigne» lo chiamava. (L'asserzione è citata nella biografia Emerson di Frank B. Sanborn - ho veduto l'edizione bostoniana del 1901 pubblicata da Small, Maynard & Company, - libro modesto, ma che ha il vantaggio d'essere scritto da un contemporaneo che fu tutore dei figli di Emerson). Emerson era certamente in contatto con i rappresentanti di un moderno neoplatonismo (Sanborn ricorda il suo lungo rapporto intellettuale con A. Bronson Alcott e certamente la lista - cui anche Bloom accenna r.el suo libro - si può allungare). È anche certo che Emerson - da teologo quale, anche, era - conoscesse il neoplatonismo antico. Non è certo - per quel che so - che egli avesse studiato Ficino e gli altri neoplatonici rinascimentali. Ma non è ciò che soprattutto conta (sto facendo una proposta genealogica, non svolgendo un'esercitazione universitaria di critica delle fonti). Quel che mette conto sottolineare è che autori come Ficino (e Pico, e altri) offrono il legame vivo che connette quei due nomi (Plotino in un angolo, Montaigne nell'altro) che altrimenti apparirebbero troppo divergenti, e solo uniti dalla bizzarria di una parola composta - come una di quelle irte parole lunghe con cui traverso la stessàporta, ma sempre attraverso noi stessi che ci avviciniamo allo scrittore. Nel nostro desiderio di assomigliargli, egli diventa la nostra creatura,poiché siamo noi a prestargli, inconsciamente, i nostri tratti. Egli è l'altro noi stesso, non per sua volontà ma per volontà nostra. Perciò, arrischiandoci a parlare di lui, non sappiamo mai se non è di noi, in fin dei conti, che stiamo parlando. Qui, oggi, un assente domina con la sua grande personalità i nostri discorsi: uno scrittore, un cineasta, un polemista, un pensatore, un militante, un poeta infine, un poeta nell'intera accezione del termine, un grande poeta perché ha pagato con la propria vita la scoperta di un suono, di un vocabolo, di unafrase, di un canto - chef osse di gioia, di rivolta o di sgomento,- di una immagine, di un silenzio; sapendo che la poesia è un atto di impegno totale e che ciò che essa dice - senza dirlo veramente, diAristofane si diletta d'accoppiare i personaggi e le entità più disparate. M a la mia citazione da Ficino (che si potrebbe anche, volendo, prolungare in continuazioni molto lunghe - fino a certi quadri surrealisti) era intesa come un simbolo che riassumesse tutta un'argomentazione. Vale a dire. La scrittura (italiana e latina) dell'alta saggistica e filosofia itaJiana, fra il tramonto def Quattrocento e la grande mattinata del Cinquecento, riesce a fondere la vivezza del gran stile di prosa con la metodicità fredda del discorso filosofico. Ecco la demonicità che Montaigne apprende dagli italiani - e trasmette (a Rousseau, a tanti altri) - negli anni in cui egli ,i-plasma il saggio come genere moderno. Ma allora, questa è una rivendicazione della geneaJogia europea di Emerson? Certo che sì - e marca il mio rispettoso dissenso dal più brillante capitolo («Emerson: La religione americana») di quel bel libro che è Agon, dove Bloom rapidissimamente rifiuta-una dopo l'altra (si vedano soprattutto le pp. 162 e sgg.) le correnti collocazioni storiografiche di Emerson - giuocando tutte le carte sull'autoctonia, sulla irriducibile americanità, del Saggio di Concord. Bloom è il maggiore critico letterario americano emerso dopo Kenneth Burke - e il più dis-educativo (per fortuna!) tra i critici universitari; e questa mia discussione è in dialogo con la sua opera di dis-educazione (di anticonformistico revisionismo) che crea tanto spazio rinfrescante fra i tralci rampicanti sui muri universitari (a Yale, e negli aJtri collegi dell'edera, e altrove). Vorrei insistere su ciò ch'era suggerito aJl'inizio: l'americanità di Emerson non consiste in una particolare filosofia o religione, ma nel suo lacerare ogni cortinaggio d'apologia nella scrittura saggistica. Ciò non significa certo sottovalutare la filosofia di Emerson (la sua importanza è stata qui chiaramente asserita), né denegare la significatività del suo modo d'essere americano. Si può aggiungere che la nonsentimentale celebrazione emersoniana delle cose proietta un'ombra geneaJogica molto lunga - delcendolo altrimenti, .- altro non è che il rischio che corre chi ha voluto fare, delle parole del poema, le sue stesse parole. Nella sua ricerca dell'assoluto, verso un assoluto che giorno e notte lo abitava, Pasolini avrà esplorato tutte le vie che gli si offrivano: vie del possibile e dell'impossibile - fino a quella che egli sapeva fatale e che ci lascia intravvedere la sua tragicamorte. Egli ha portato fino al punto più alto l'interrogazione dell'uomo e del suo linguaggio, denunciando rutto ciò che, erenosi sul suo cammino per impedirlo, gli appariva, a un trano, come la sfida insolente, l'ostacolo intollerabile che egli avrebbe potuto distruggere solo distruggendosi. Nessuno più di lui si sarà bruciato per la causa dell'uomo e per la sua verità, che altro non sono, forse, che l'amore dell'uomo per il suo prossimo e per la verità. La risposta sta nella domanda che essa comporta. Grazie. la quale ho voluto evocare l'aspetto degradato ma vivace nella letteratura popolare di cui un campione fa da esergo a questo saggio; e, aJJ'aJtro estremo, si ritrova fin dentro la solenne retorica heideggeriana che in Italia (grazie alla creativa rielaborazione di Severino, per esempio) ha trovato la strada per arrivare fino alle colonne dei quotidiani. Di un grande stilista, sono anche troppe le frasi citabili. Permettimene, lettore singolo, una sola per finire: «La sola cosa che noi ricerchiamo con insaziabile desiderio è dimenticare noi stessi, esser sorpresi aJ di fuori della nostra proprietà, perdere questa nostra sempiterna memoria, e far quaJche cosa senza sapere come o perché; in breve: tracciare un nuovo cerchio». Anche questo potrebbe essere l'inizio di discorsi lunghi. Discorsi stilistici: l'italiano ha qui un vantaggio sull'inglese poiché con la parola proprietà esprime sia l'inglese propriety, 'appropriatezza, rispetto delle convenzioni sociali' (che è nel testo originario) sia l'inglese property ('proprietà', nel senso economico) - dunque, la versione italiana rende questo passo ancor più fluido e suggestivo di quel che sia nell'originaJe. E discorsi geneaJogici: questa non è soltanto un'esclamazione nata nei boschi - ancor oggi folti - della Nuova Inghilterra (pure, è anche questo), ma un'intertestualizzazione di antiche tradizioni europee, che hanno grande impeto per esempio nella mistica (il «Yo no sé lo que digo» di Teresa di Avila, ecc.). Ma io voglio dire una cosa molto più semplice: che qui abbiamo ancora una volta la conferma di quella demonica irrequietudine che presiede alla scrittura di un saggio. Infatti: il cerchio è un simbolo di perfezione e inclusione, non è vero? (il passo citato all'inizio prosegue con un'allusione a sant'Agostino). Eppure, che cosa, in effetto, accade? L'immagine del cerchio non ha ancor finito d'essere evocata che già affiora, daJ respiro della stessa frase, un movimento che spezza il cerchio. Come abbiamo veduto, infatti, tu e io: né il cerchio dell'occhio né quello dell'orizzonte sono veramente tali. E anche qui: che cos'è mai, questo «tracciare un nuovo cerchio», se non infrangere il cerchio (di «proprietà») all'interno del quaJe pensavamo di ristare, tranquilli?
RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==