r Quattrorea Shatila Jean Genet «A Shatila, a Sabra, dei non-ebrei hanno massacrato dei non-ebrei, dove c'entriamo noi?» Menachem Begin alla Knesset N iente e nessUIW,non una tecnica del racconto sapranno dire ciò che sono stati quei sei mesi passati dai fedayn sulle montagne di Gerasa e Ajlun in Giordania, particolarmoiu le prime sei settimane. Raccontare qlllllllo è sucasso, elencare in una cronologia le affermazioni e gli errori dell'Olp, l'hanno giàfatto altri. Si potrà dire la stagione, i colori del cielo, della terra, degli alberi, senza riusciremai a comunicare l'ebbrezza leggera, le marce tra la polvere, lo splendere degli occhi, la chiarezza nei rapporti tra fedayn e fedayn, non solo: tra essi e i capi. Tutto, tutti, sotto gli alberi erano allegri, eccitati, stupiti di una vita tanto nuova per tutti, e in quuta eccitazione quasi una stramba fissità in agguaJo,affatto privata, chiusa in sé come uno che prega senza parole. Tutto era di tutti. OgnlllW era solo con se stesso. E forse no. Sorridenti, insomma, e stravolti. Avevano ripiegalo per scelta politica in una zona della Giordania che in lunghezza andava dalla frontiera siriana a EsSa/J, delimilala dal Giordano e dalla strada da Gerasa a lrbid. Su quuto lato, il più lungo, erano circasessantachilometri, e per venti si penetrava in una zona piuttosto montagnosa, ricoperta di verdi querce, piccoli villaggi giordani e colture mo/Jopovere. Tra gli alberi, sotto le tende camuffate nel verde, i fedayn avevano dislocato delle unità combattenti e delle anni leggere e semipesanti. Piazzata l'artiglieria, direttasoprattutto contro eventuali attacchigiordani, i giovani guerrieri si esercitavano sulle anni, che venivano smontate, ripulite, ingrassate e rapidamente rimontate. Alcuni riuscivano a smontare e rimontare l'arma a occhi bendati, cosi si era capaci di farlo anche al buw. Tra ogni soldato e la sua arma si era instauralo un rapporto amoroso e magico. Perché i fedayn erano appena usciti da/l'adolescenza, e il fucile in qlllllllo arma significava la viriliJàtrwnfante, e dava sicurezza alla vi/a. Veniva meno l'aggressività:il sorriso mostrava i denti. Il resto del tempo, i fedayn lo passavano a bere tè, a criticare i capi e i ricchi borghesi, palestinesi o meno, a schernire Israele, e sempre e ovunque a parlare della rivoluzione, della presente e dell'a/Jrache li aspettava. Quando io lo trovo in un titolo, dentro un articow, su un volantino, il nome «Palestinesi• mi rievoca immediatamente deifedayn in un luogo preciso - la Giordania - e a un'epoca che si può daJaresenza diffico/Jà:ottobre, novembre, dicembre '70, gennaw, febbraw, marzo 1971. È allora, è là che ho conosciuto la Rivoluzione palestinese. La straordinaria importanza di qlllllllostava accadendo, laforza di quellafelicità di esistere ha anche il nome della bellezza'. Poi, per dieci anni, non ho più saputo niente di loro, salvo che adaso i fedayn stavano in Libano. La stampa europea parlava del popolo palestinese con sufficienza, perfino con disprézzo. E improvvisamente, Beirut. Una piatta fotografia, 111W schemw televisivo - né l'IIIW né l'a/Jrosi possono attraversare.Da un muro all'altro della strada, rattrappiti o inarcati, i piedi di qua e il capo contro il muro opposto, i cadaveri gonfi e neri in cui continuamente inciampavo erano sempre di palestinesi e libanesi. Per me, come per tutta lapopolazwne sopravvissuta, girareper Shatila e Sabra era come giocare alla sa/Jacavallina.Basta un morto bambino a volte per bloccare una strada, sono strade cosi strette, quasi dei vicoli, e i morti talmente tanti! Mandano un odore che ai vecchi è familiare: a me non dava fastidio. Ma quante mosche! Se sollevavo lapezza o il giornale arabo posalo su una testa, le infastidivo. lnferociJe dal gesto, mi venivano a sciami sul dorso della mano, in cerca di cibo. li primo cadavere che ho visto era di B•oliotecaginobianco un uomo di cinquanta o sessant'anni. Doveva avere avuto una candida corona di capelli, ma uno squarcio (ho pensato fosse opera di una scure) gli aveva aperto il· cranio. Parte della maJeriacerebrale nerastra era per terra, a lato del capo. Tutto il corpo era steso in un lago di sangue, nero e rappreso. La cintura era slacciata, i calzoni tenuti su da un • solo bottone. Piedi e gambe del morto erano nudi, neri e violacei: era stato sorpreso nel buio o ali'alba? stava scappando? Giaceva in un vicolo a destra, subito dopo l'ingresso al campo di Shatila che è di fronte all'ambasciata del KuwaiJ. Il massacro di Shatila è avvenuto nel brusio o forse nel siknzio totale, dato che gli Israeliani, soldati e ufficiali, sostengono di non avere sentito niente, di non avere avuto nessun sospetto, anche se avevano occupato l'edificio fin dal pomeriggio del mercoledi precedente... La f otograflll non coglie le mosche, né l'odore bianco e greve della morte; e neppure dice che bisogna saltare per proseguire da un cadavere all'altro. Quando si guarda fisso un morto, succede uno strano fenomeno: la mancanza di vita in quel corpo equivale a una mancanza totale del corpo, o meglio, .a un suo ritrarsi interrotto. Anche se ci avviciniamo, ci sembra che non lo toccheremo mai. Questo se stiamo a guardare. Ma basta un gesto rivolto al morto, chinarsi su di lui, cambiare di posto a un un braccio o a un dito, ed eccolo ben presente, e quasi amico. L'amore e la morte. Ne scrivi uno e l'altro subito accorre a completare la coppia. Ho dovuto andare a Shatila per cogliere l'osceniJà dell'amore e l'oscenità della morte. In ambedue i casi, i corpi non hanno più niente da nascondere: posizioni, contorcimenti, gesti, segni, anche i silenzi appartengono all'uno e all'altro mondo. Il corpo di un uomo di trenta-trentacinque anni era steso sul ventre. Quasi che tutto il corpo non fosse altro che una vescica in forma di uomo, per il caldo e i processi chimici della decomposizione si era gonflllto e premeva sui calzoni, tesi fino a scoppiare alle natiche e alle cosce. L'unica parte del volto che ho potuto vedere era violacea e nera. Poco sopra il ginocchio, una coscia ripiegata mostrava una ferita, sotto lo strappo della stoffa. Causa della ferita: una baionetta, un coltello, un pugnale? Sulla feriJa e tutto intorno, le mosche. La testa più grande di un cocomero - un cocomero nero. Ho chiesto come si chiamasse: era musulmano. - Chi è? - Palestinese, mi rispontle in francese un uomo sui quarant'anni. Guardate che cosa gli hanno fatto. Ha tiralo via il telo che ricopriva i piedi e parte delle gambe. 1 polpacci erano nudi, neri e rigonfi. Ai piedi, portava stivaletti neri, non allacciati, e le caviglie erano legate strette strette, una contro l'altra, da una corda rebusta - si vedeva subito quanto fosse robusta - lunga circa tremetri, e ho fatto in modo che la signora S. (americana) potesse fotografarla in dettaglio. Ho chiesto all'uomo se era possibile vedere il volto. - Se volete, ma arrangiatevi da solo. - Potete aiutanni a voltargli la testa? - No. - L'hanno trascinatoper le strade con questa corda? - Non lo so, monsieur. - Chi l'ha legato? - Non lo so, monsieur. - Quelli del comandante Haddad? - Non lo so. - Gli Israeliani? - Non lo so. - I Kataeb? - Non lo so. - Lo conoscevi? - SI. - L'hai visto morire? - Si. - Chi l'ha ucciso? - Non lo so. Si è allontanato dal morto e da me piuttosto in fretta. Ormai lontano, si è voltato a guardarmi, poi è scomparso in un vicolo laterale. E adesso che vicolo prendere? Ero strattonato da uomini sui cinquanta, da giovani di venti, da due vecchie arabe, mi sembrava di stare al centro di una rosa dei venti, dove ognuno dei raggi racchiudeva centinaia di morti. L'annoto qui, non so bene perché a questo punto del racconto: «I Francesi sono abituati a usare questa scialba espressione: 'uno sporco lavoro'. Bene, come l'esercito israeliano ha ordinato questo 'sporco lavoro' ai Kataeb, o agli uomini di Haddad, i laburisti hanno fatto terminare lo 'sporco lavoro' al Likud, Begin, Sharon, Shamir». Ho ripetuto quanto mi ha detto R., giornalistapalestinese, ancora a Beirut, domenica 19 settembre. Tra loro e accanto a loro, a tutte le vittime torturate, la mia mente non riesce a liberarsi da questa «visione invisibile»: com'era il torturatore? chi era? Lo vedo e non lo vedo. Ce l'ho sotto gli occhi, per me non avrà mai altro aspetto di quello tratteggiato da atteggiamenti, posizioni, gesti grotteschi dei morti tormentati nel sole da sciami di mosche. Visto che sono partiti tanto in fretta (gli Italiani, arrivati per nave con due giorni di ritardo, poi se la sono battuta su aerei Hercules!), i marines americani, i paras francesi, i bersaglieri italiani che formavano la forza di dissuasione in Libano, un giorno o trentasei ore prima dellapartenza ufficiale, come se si mettessero in salvo, e alla vigilia del/'assassinio di Bechir Gemayel, hanno davvero torto i Palestinesi a chiedersi se Americani, Francesi e Italiani non fossero stati avvertiti che bisognava sloggiare in tuttafretta per non sembrare coinvolti ne~esplosione della sede dei Kataeb? - Di fatto, sono partiti in fretta e furia. Israele si vanta e vanta lapropria efficienza bellica, la preparazione delle sue truppe, la propria abilità nello sfruttare le circostanze, nel creare queste circostanze. Vediamo: l'Olp lascia Beirut in gloria, su una nave greca, con una scorta navale. Bechir, cercando di non dare nell'occhio per quanto è possibile, fa visitaa Begin, in Israele. L'intervento dei tre eserciti (americano, francese, italiano) finisce il lunedi. Martedì è assassinato Bechir. Lo Tsahaf' entra a Beirut ovest mercoledi mattina. Come arrivassero dal porto, i soldati israelianimarciavano su Beirut il mattino in cui fu sepolto Bechir. Dal mio appartamento ali'ottavo piano, con un binocolo, li ho visti arrivare in fila indiana: un'unica fila. Ero stupito che non succedesse niente: un buon fucile a cannocchiale li avrebbe dovuti abbattere tutti. Li precedeva la loro ferocia. E dietro i carri, le jeeps. Stanchi della lunga marcia di primo mattino, si sono fermati vicino ali'ambasciatafrancese, facendo passare avanti i tanks ed entrando in buon ordine a Hamra'. I soldati, uno ogni dieci metri, si sono seduti sul selciato, il fucile puntato in avanti, la schiena contro il muro dell'ambasciata. Per quel busto massiccio, mi sembravano serpenti boa con due gambe allungate davanti. «Israele si era impegnata di fronte al rappresentante americano Habib a non metterepiede a Beirut ovest, e soprattutto a rispettare la popolazione civile dei campi palestinesi. Arafat conserva ancora la lettera in cui Reagan gli promette le stesse cose. Habib avrebbe promesso ad Arafat la liberazione di novemila prigionieri detenuti in Israele. Giovedì hanno inizio i massacri di Shatila e Sabra. Il 'bagno di sangue' che Israele pretendeva di evitare portando l'ordine nei campi! ... » mi dice uno scrittore libanese. «Sarà facilissimo per Israele scrollarsi di dosso tutte le accuse. In tu/li i giornali europei gli 'innocentisti' sono già al lavoro: nessuno dirà che nella notte tra giovedi e venerdì e tra venerdi e"sabatoa Shatila si parlava ebreo». Questo mi dice un altro libanese. La donna palestinese - perché non potevo uscire da Shatila senza passare da un cadavere ali'altro, e il gioco del/'oca approderà fatalmente a questo prodigio: Shatila e Sabra rase al suolo con battaglie dell'Immobiliare per potere ricostruire su questo cimitero spianato - la donna palestinese probabilmente era anziana, perché aveva dei capelli grigi. Era stesa sul dorso, deposta o abbandonata là, su un mucchio di pietrame, mattoni e sbarre di ferro piegate, senza cure. Dapprima mi ha colpito una strana trecciadi corda e stoffa, che andava da un pugno all'altro e teneva co~ì le due braccia divaricate in orizzontale, co,:necrocifzsse. Nel volto nero e gonfio, rivolto all'insù, la bocca era
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