I nomtitgli alberi S i discute spesso, coi toni ormai di una proverbiale e triste efficienza giornalistica, sul datino del romanzo, e sull'impropria questione del «romanziere»; si producono addirittura cifre - che, a parte l'opinione di Queneau, risultano pur sempre inspiegabili nel mondo de/le lettere - per dimostrare che il romanzo esiste;si affonda ne/la palude del romanzo italiano con un'infelice mancanza di ironia. Da questa palude, invece, da questa caduta verticalenell'indifferenziato (è da segnalare, tra l'altro, la deperibilità immediata di questi oggetti identici: i romanzi italiani), il romanzo dovrebbe salvarsi; dovrebbe anzi ritrarsi dalla disputa sul suo datino, e nel segreto cercare la propria voce. Se è vero, come scriveva Henry James, che un romanzo nella sua esecuzione deve tentare tutte le vie, tutte le «miriadi di forme» della realtà, ma allo stesso tempo essere«unico» e stimolare «il nostro desiderio di perfezione» in una forma, oggi il romanzo dovrebbe innanzi tutto ritrovare il proprio essere e il proprio genere, riappropriarsi di una identiJà che sembra perduta, caduta «in qualche limbo solitario o in qualche sconfinalo cortile dei rifiuti». A parte rarissime eccezioni. Una di queste eccezioni è L'angelo di Avrigue, primo e recente romanzo di Francesco Biamonti. Nelle sue pagine, erte a volte come crinali, ritroviamo laf e/icitàdi una narrazione possibile anche se esigua: un marinaio, Gregorio, imbarcalo sui cargo, ritorna ad A vrigue, suo paese d'origine ne/l'entroterra ligure. Qui si scontra con I' enigma de/la morte di un amico, Jean-Pie"e, precipitalo da una rupe. Un incessante vagarealla ricerca de/le ragioni di questa morte, da una persona all'altra, da un luogo a/l'altro della campagna, scandisce l'azione del romanzo fino alla conclusione, e al ritorno sul mare. È una trama molto sottile, come si vede, e sottili, diafani, un po' accecati da uno strano vento, sono i personaggi che Gregorio incontra via via nelle sue investigazioni: Martine, Ester, la polacca, Laurence, e poi il musicante dei picchi Zefì, il pastoreprovenzale, l'irascibile Piè de Catì, Edoardo e il monaco cistercense. Ognuno di questi personaggi passa negli occhi e nel cuore del ,zuzrinaio lasciandogli una specie di solco sentimentale, una tenerezza discretae un mondo intero di altre domande; egli, cui «l'amaro fumo dell'ulivo» tiene compagnia e che a volte, nella sua solitudine, sente «una minima parca felicità di esistere», ha per loro una curiosità e un amore resistenti ma refrattari, gli pare di cogliere sui loro volti una vastitàdi solitudine e di errorepari ai suoi propri (e ,de solitudini sommandosi non s'annullano», scrive Italo Calvino le e le piega, ne doma l'eventuale smarriti» e non li abbandona mai. nella presentazione). anarchia: « V'erano nell'albanella i Ogni personaggio del romanzo è Mentre cerca una ragione della rami che aveva colto Ester: il ne- un ragazzo smarrito che la morte. morte di Jean-Pierre, «sopraggiun- spolo di Spagna, simile a un cande- accompagna: dallo stesso Gregorio ta da grande straniera», e la sua labro, e l'altro, che morendo san- al pastore provenzale, che al traanima si fa deserta, Gregorio in- guinava. Accanto ad essi il volto di monto si allontana col gretge e sacontra queste vite simili alla sua, Maria, ancora assillato e pieno di Iuta: « Pregatzper nos». (E evidencosì impercettibilmente divise dalla delusione». In un piccolo vaso di te qui, in questo orizzonte di riflesmorte, così ignaree sacre: allora la vetro, ad esempio, c'è intero il male sione, un po' assediato dal problenarrazione si tende e si acumina della vita, che forse non si consola ma della morte, il richiamo a una (tanto da ricordare certe pagine di e certo non si comprende (né pro- linea ligure o ligusticadi severa e/e- ;---,::---=--------..,,,.--~,.,,,,-, gia e soprattutto a un certo SbarbaCamus), si concentra in immagini e in parole avare e quasi di sentenza, ha un'ansia di concisione e di verità. Anche il racconto - di cui pure Biamonti tiene in mano i fili con una nostalgia un po' ironica - si interrompe, torna su se stesso, perde un poco del suo abbrivio. Una tensione, che è moralità e angoscia allo stesso tempo, entra nelle paror priamente un'inclinazione metafisica è nella scritturadi Biamonti, ma piuttosto di compassione e dolcezza), eppure nelle parole si blocca come in un cristallo. La morte, dice uno degli hippies girovaghi di Avrigue, «es una fiebre efìmera», ma a Gregorio pare che entri nella vita come una «vecchia nutrice che prende tra le braccia per ricondur/i a casa i ragazzi ro di Fuochi fatui, o di Liquidazione e Trucioli). Ma cosa cercapoi Gregorio sulla collina, «avvolta da una luce minore», o nel golfo di ulivi «grigio, come un austero approdo», o fra gli aprichi inargentati e lefasce «in bilico nella brezza»? Fuggendo solo il mare, «che ossessiona chi lo guarda troppo a lungo, proprio per il suo sciogliersi ne~'eterno e nel nulla», vaga attorno senza posa, cercale sfumature della luce, i golfi d'ombra, i cieli più «alti e trasparenti come il vento». E il paesaggio è veramente l'anima di questo libro; è la struttura in cui si muovono le ipotesi di Gregorio e anche la sua stessa vita; l'orizzof]Jeal quale l'io tende costantementee in cui talvolta si smarrisce: « Erte di nude terrazze sopra gli ulivi: muri come lapidi del passato (. ..). E crinali a non finire su frammenti di fasce». Gregorio, che conosce benissimo tutti i nomi degli alberi, dei fiori (la «striminzita Waldorf» e le «vedove celesti»), dei terreni (gerbidi) e degli arnesi (il magaglio), si perde e sogna, poi, in un paesaggio che ha nomi sempre nuovi, inaspettatamente lirici, e volti cangianti. Allora spesso il romanzo, quando raggiunge questa felicità, è più la cronaca di una resa che di una ricerca, è più l'apologia della luce e de~'ombra che l'elegia di una memoria individua/e. Francesco Biamonti L'angelo di Avrigue Torino, Einaudi, 1983 pp. 129, lire 8.500 Biologiaeli!~~ linguistico Dominique Lecourt L'onlre et les jeux Paris, Grasset, 1981 pp. 348, ff. 150 vismo, robusta giustificazione delle pratiche di controllo sociale nelle nobili vesti delle scienze umane; all'Est nella forma più rigida di una dottrina impegnata nella difeA chiusura di uno dei lavori sa ideologica del potere e costituipiù acutamente problematici ta da una teoria della conoscenza comparsi in questi anni, Do- che, secondo la più antica tradiziominique Lecourt ripropone la tesi, ne, porta a un'ontologia. " già annunciata fin dalle prime pa- Non si tratta perciò di un saggio gine, che l'opera di Wittgenstein su Wittgenstein, benché si parli permette in qualche modo di com-· molto del Tractatus, delle Philoprendere la stupefacente perma- sophica/ lnvestigations e deg~ altri nenza delle tendenze filosofiche scritti, della lunga controversia ~ °' che hanno più massicciamente do- con Popper - del quale perciò si ...., minato la nostra epoca a partire parla quasi altrettanto diffusamen- ~ dagli anni trenta, e di avvicinarci te - e di quella che ambedue, da ~ al meccanismo nascosto della «de- posizioni molto differenti, sosten- !;;ì: plorevole stagnazione», di ricorio- nero nei confronti del Circolo di :i scere cioè un pensiero dell'ordine Vienna e dei suoi eredi. Lecourt, ~ che tende alla razionalizzazione di d'altra parte, non nasconde affatto i un ordine nel pensiero. In Occi- la sua convinzione che, nonostante - j [j ò.~o'ttl1'I'as tOìrlelrneonèJ!.:ifa ~ te le rese di distanza e gli atteggiamenti critici, Popper resti all'interno dello stesso orizzonte dei suoi avversari. La metodologia di Popper, infatti, appare come una nuova versione delle «filosofie della garanzia» che ancora, sotto la specie di una teoria della conoscenza, mira a realizzare un'aspirazione diffusa tra molti scienziati: un punto di partenza sovranamente indipendente da dove dominare la teoria e l'esperimento, il sapere e la realtà, un «cielo impassibile della suprema. giurisdizione» sulle cose del mondo. Proprio contro questa «impostura» dell'osservatorio incontaminato nella sua altitudine Wittgen- ·stein ha combattuto la sua battaglia·, insistendo sulla nozione di «giOfOlinguistico» cioè sull'insieme costituito dal linguaggio e dalle attività di cui è intessuto, contro ciò che Lecourt chiama ancestrale tirl!nnia della forma sul contenuto e dispotismo della logica, o meglio di una logica, che vi è strettamente connesso. Quel che Wittgenstein vuol denunciare, con particolare evidenza nel capoverso 81 delle Philosophical lnvestigations - nota l'Autore, - è la concezione di una logica per così dire naturale: nel senso di oggetto trovato, funzionante a vuoto e disponibile al riempimento da parte di elementi particolari, norma ideale di ogni linguaggio effettivo possibile e implicante di conseguenza il verdetto che il linguaggioordinario è difettoso, immemore della sua essenza logica alla quale occorre ricondurlo mediante appropriate tecniche di depurazione. Sono questi, mi sembra, i punti essenziali della lettura di Wittgenstein che Lecourt compie per sviluppare il suo discorso critico e propositivo; ovvero, non già per dare un'interpretazione marxista
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