Alfabeta - anno V - n. 47 - aprile 1983

li ·corpodelbambino Elisabetta Rasy M. Masud R. Khan Le figure della perversione trad. it. di C. Monari e M.A. Schepisi Torino, Boringhieri, 1982 pp. 282, lire 28.000 Tony Duvert Quando morì Jonathan trad. it. di A. Guareschi Roma, Savelli, 1981 pp. 160, lire 5.000 Diario di un innocente trad. it. di C. Acutis e A. Morino Torino, La Rosa, 1981 pp. 180, lire 8.000 L'infanzia al maschile trad. it. di G. Pavanello Torino, La Rosa, 1982 pp. 202, lire 11.000 Henry James Che cosa sapeva Maisie trad. it. di S. Baldi e A. Celli Milano, Bompiani, 1982 pp. 279, lire 8.000 Il Nelle perversio_n~l'oggetto '' occupa una posmone intermedia: è non-Sé e tuttavia soggettivo; è registrato e accettato come separato. e tuttavia trattato come creazione soggettiva; è necessario come un essere che esiste nell'attualità in quanto non-Sé, e tuttavia costretto a compiacere il bisogno soggettivo che ne esige l'invenzione». Questo statuto precario, sospeso e instabile, che Masud Khan attribuisce all'oggetto del soggetto perverso (in Le figure dellaperversione, una raccolta di testi il cui titolo originale inglese è Alienation in perversions), colloca la perversione in un'area patologica che attiene in senso stretto alla dinamica, al vero e proprio movimento, prima ancora che al rapporto, Sé-Altro e riporta l'individuo e il suo interlocutore in una oscura preistoria, in cui le connessioni e le separazioni che dovranno integrare il soma alla psiche ed erigere la persona come un argine certo ma permeabile tra il dentro e il fuori soccombono a una confusione inaugurale. Più avan5-JK: han spiega come la relazione oggettuale perversa si attui e si sostenga attraverso la «tecnica dell'intimità», una particolare capacità, un «reale talento» del soggetto perverso a stabilire il clima emotivo adatto a complicizzare l'oggetto prescelto: «mediante la tecnica dell'intimità, il pervertito cerca di rendere noto a se stesso e di annunciare e spingere dentro a un'altra persona qualcosa che si riferisce alla sua natura profonda». La parola «pervertito» in Khan è ovviamente adoperata in senso tecnico. La perversione, nel racconto dei suoi casi clinici, ha lo spessore della malattia, ma insieme il marchio di un'incandescenza vitale, che il percorso terapeutico sembra inevitabilmente offendere e guastare, con la consapevolezza più o meno esplicitata e, sembra, anche con il rammarico impotente dell'analista. Dunque, l'oggetto del pervertito non è il suo specchio, ma un frammento dello specchio in frantumi, il più prezioso, quello sul quale - per una magia del narcisismo - resta indelebilmente impressa la sua parte più nascosta, il vero cuore del suo desiderio e della sopravvivenza stessa. Se il pervertito è inconsolabile, e infallibilmente deluso (poiché tenta di usare la tecnica dell'intimità «come uno strumento terapeutico e tutto ciò che ottiene è di perfezionare la tecnica stessa»), egli è anche il fulgido e infallibile esecutore di un'opera del cuore, colui che riesce a far coincidere nell'oggetto delle sue attenzioni la propria parte miserevole, deprivata e abbandonata, con la propria parte idealizzata, o idoleggiata, e speciale. «Io penso - scrive ancora Khan - che in questa intimità sia implicata una qualche sorta di arcaica verifica di realtà corporea». H o preso proditoriamente come viatico la figurazione del perverso tracciata da Masud Khan (che come Winnicot e la K.lein retrocede l'indagine a una zona arcaica dell'individuo - anteriore a quella che viene chiamata fase edipica, - per spiegare alcune particolari declinazioni dell'essere) per abbordare tre libri di Tony Duvert, apparsi in traduzione italiana in sequenza: Quando morì Jonathan, Diario di un innocente e il recente L'infanzia al maschile. Duvert fa della propria soggettiva condizione, l'omosessualità, una feroce ideologia e una fede arroventata, fino a che questo improbabile ma molto insistito tragitto si annulla nel grado zero della sua scrittura, per organizzarsi in un universo narrativo di scoria. Scoria è il paesaggio - la desolata campagna, relitto vegetale, di Quando morì Jonathan, la sgangherata e putrida periferia di città africana del Diario di un innocente, - scoria sono gli stessi rapporti Bib1otecaginob1anco tra gli individui, i ritmi dell'esistenza («La mia vita era dunque vivere gli intervalli degli altri, le loro brevi dimenticanze di esseri normali»), scoria la stessa ideologia omosessuale e la sua ossessiva divulgazione (Duvert definisce «saggetti» i testi dell'Infanzia al maschile, carichi di «approssimazioni, eccessi, ripetizioni, incoerenze»; e aggiunge: «Mi sento d'altronde incapace di dimostrare nelle debite forme quello che dirò. Niente garanzie, niente sistema, niente dossier»). Degradata e residua, infine, è la lingua stessa di Duvert, sbadata, stereotipa, approssimativa, ridondante, oppure disperatamente sentimentale. Ma la scoria-è, insieme, la parte degradata e la parte prediletta. Quello che si produce in questo mondo di resti è proprio un'arcaica verifica della corporeità, una specie di primitivo earthwork in cui l'epidermide del corpo coincide perfettamente con la superficie della terra, per propiziare un rito d'iniziazione che non ha più diritto a una sacralità riconosciuta. Questo rito desacralizzato, relitto anch'esso di una forma che si è disfatta, porta il segno del disordine infantile. Qui la perversione opera il suo incanto e si produce una letteralizzazione: l'infantile diventa il bambino. Come lo scrittore sradicato in una città nordafricana del Diario di un innocente, che non ha altro orizzonte da esplorare, altra avventura da agire che il corpo dei bambini e degli adolescenti di cui è sedotto-seduttore, Duvert non ha altro motore per far scattare il congegno narrativo che l'ultimo altrove rappresentato dal corpo infantile. Questo corpo coincide esattamente con i paesaggi e con gli interni del romanzesco, è l'ultima certa possibilità di descrizione, di scena, di dramma. L'interdizione morale e la repressione sociale da evadere e da combattere sono finzioni che reggono all'interno dell'uso metaforico che fa di questo corpo: quando nell'Infanzia al maschile esce di metafora e abbandona il romanzesco, il rigoroso autobiografismo della sua scrittura precipita in un delirio intransitivo, in una teoria della liberazione (il soggetto di scena sono i bambini maschi omosessuali), che mostra con brutale evidenza la sua ombra intollerante e coercitiva. Scrive Masud Khan a proposito di Sade: «Nelle avventure che si svolgono nella sua écriture è di ordinaria amministrazione che persone siano gravemente ferite, che ragazze si~o graven:ientemutilate durante orge sessuali, che vengano loro tagliate le dita dei piedi, ecc. Qualunque cosa venga compiuta sul corpo umano, mai esso ne risulta realmente danneggiato o reso invalido,._ Così nei testi di Duvert non solo i corpi infantili ripetutamente manipolati non portano tracce o segni della manipolazione, ma in assoluto sono quanto inattaccabilmente resiste alla corruzione e alla degradazione della realtà, e in particolare quanto resiste al marchio del maschile e del femminile. Questo corpo infantile di fatto disincarnato trasmette la propria onnipotenza e la propria disponibilità alla scrittura pervertendola, cioè disinnescandola da ogni realismo: Duvert può scrivere una classica «love story» in Quando morì Jonathan, protagonisti un uomo di ventotto anni e un bambino di sette, e le pagine paratattiche del Diario, raccontando indistwbato il proprio romanzo interno, che è un romanzo «singolare»e non familiare così come lo è la gran parte del romanzo contemporaneo, fruendo però di un interlocutore altro che enfatizza l'avventura dell'io. S eparati da frotte di bambini che, per tutto l'Ottocento e parte del Novecento (fino alla quasi totale scomparsa dalla narrativa attuale), portano sulla scena del romanzo e rendono riconoscibili le perversità del sociale, i bambini di Duvert non sono dissimili dai bambini Heathcliff e Catherine esibiti in Cime tempestose da Emily Bronte come irriducibile desiderio che non significa che il proprio desiderare, esimendo chi scrive dall'accampare pretese di legittimità realistica. Né sono diversi - questi bambini così apparentemente desublimati, colti da un obiettivo iperrealista che ne esplora con devota puntigliosità ogni anfratto e ogni umore, - dalla puritana bambina Maisie (Che cosa sapeva Moisie) raccontata da Henry James in un labirintico romanzo dove non accade nulla, grazie alla sua costante presenza in scena, che possa minimamente aspirare al titolo di storia, eppure è sicuramente romanzo. Maisie, che produce «fra la gente l'impressione di un qualcosa di strano e di eccessivo che era sempre sembrato oscillare liberamente tra l'innocenza e la perversità», è la depositaria di un temibile sapere cui nessuno può dare un nome o un contenuto. Non lo possono le coppie di genitori che lei emana, anziché esserne emanazione, coppie che si congiungono e si sfaldano in un movimento asimmetrico di cui Maisie è perno e motore. Non lo può, o comunque non lo fa, lei stessa. Al centro di una interminabile affabulazione, un vero esemplare di «scrittura perversa» - lungo la quale nulla si dice di lei che la incarni in una bambina reale: James conserva alla sua creatura lo statuto di infantile puro, privandola di bambinesche connotazioni e attributi (l'unico bambino di cui è possibile dire è quello interno)- Maisie sa sempre - come lo scrittore, l'autore dell'intreccio, - il desiderio degli altri, e ne incrocia sistematicamente i percorsi. «Così la forza principale della bambina le era data dal suo acuto senso di spettatrice, dalla lunga abitudine fin dal principio a vedersi sempre in discussione e a trovare nella violenza di ciò (aveva un'idea del foot-ball) una sorta di compenso alla sua condanna a una particolàre passività». Sempre in discussione, come il desiderio. Lontana dal desiderio - come il Serge amato da Jonathan e i malcapitati ragazzini del Diario, una volta separati dal loro seduttore protettore, - Maisie non ha sapere e non ha potere. Parte, nell'ultima pagina del libro, su un battello che esiliandola dal desiderio la riconduce realisticamente al suo personaggio di bambina abbandonata.

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