Alfabeta - anno IV - n. 43 - dicembre 1982

,: s .. .<) :g. copertina 17 settembre 1976, in una mia corrispondenza da Buenos Aires. Campeggiava su due pagine, 48 centimetri di lunghezza, 3,5 centimetri di altezza: nessun lettore, per quanto distratto, avrebbe potuto non notarlo. E invece nessuna reazione venne dal governo ... Neanche i giornali 'democratici' ripresero la notizia. Tutti costoro, oggi, sono impegnati in una affannosa gara per salvarsi la coscienza,,. Un titolo di prima pagina dell'Unità del 3 novembre conferma: Dura dal 1976l'inerzia dd governo sugli «scomparsi». L'll novembre 1976 l'allora sottosegretario agli Esteri, il democristiano Franco Foschi, rispondeva in parlamento a un interrogazione del comunista Piero Pieralli, il quale «sulla base di una denuncia del sindacato unitario della Farnesina, segnalava al governo che 'l'ambasciata italiana a Buenos Aires rifiuterebbe ogni assistenza ai perseguitati politici',.. Secondo Lanfranco Vaccari, nessuna interrogazione parlamentare riprese però le rivelazioni dcli' Euròpeo. In ogni caso, il sottosegretario..,schi (il cui nome comparirà più tafdi nelle liste della loggia P2) rispose all'interrogazione dicendo che l'ambasciata italiana stava facendo il suo dovere. Si giunge così al 5 febbraio 1980, quando sette parlamentari del gruppo comunista rivolgono una nuova interrogazione al governo, sulla base di una lista di 517 nomi, in parte italiani, in parte argentini, in parte con doppia nazionalità:. Ma anche questa lista passa sotto silenzio. Sulla Repubblica del 2 novembre, Saverio Tutina (Ma a Roma molti sapevano... ) scrive: «Il primo allarme fu lanciato, nel 1978, dal Cafra e dai sindacati. Il Cafra era l'associazione degli argentini antifascisti esuli in Italia. Dissero che fra i 'desaparecidos' c'erano molti italiani. Non riuscivano a destare nel governo italiano un interesse particolare per le stragi occulte di oppositori che la Giunta dei generali stava compiendo da tre anni, impunemente ...C'erano giornali che vantavano grandi qualità democratiche, proporzionali alle rispettive tirature, ma che restavano indifferenti di fronte al quotidiano massacrò... Allo11 gruppo di Cronaca - che, da quasi dieci anni, nella Rai è l'unica unità produttiva organica e relativamLnte autonoma - produce un programmainchiesta sul carcere di Rebibbia, raccogliendo le voci di alcuni detenuti e uzlcuneguardie. La rete 2 mette il programma in palinsesto per lunedì 22 novembre (in alternativaal film sulla rete I, come sempre) e lo offre in anteprima, secondo la consuetudine, a giornalisti e ospiti diversi. Poi, nella stessa giornata di lunedi, ne blocca la messa in onda. Al sorgere delle prime proteste, il ministero della Giustizia, cui qualcuno ha attribuito la responsabilità prima del veto, dichiara che la Rai ha agito «auJonomamente». Subito dopo, la Rai dichiara di essersi improvvisamLnte accortache il programma era «pericoloso» e «illegale»perché le interviste «facevano riferimento a situazioni di reato coperte dal segreto istruttorio e davano indicazioni dirette o indirette su responsabili di istituzioni penitenziarie che verrebbero esposti a gravi rischi». Gli autori dell'inchiesta vengono anche accusati di avere approfittato di un permesso della Direzione generale degli Istituti di pena, che autorizzava soltanto le riprese di uno spettacolo allestito dai carcerati,per interrogaredetenuti e guardie e allargare l'orizzonte del servizio. Piero Dorfles e Raffaele Siniscalchi, di Cronaca, smentiscono, si presentano interrogazioni in parlara il Cafra e i sindacati tirarono fuori l'argomento che avrebbe dovuto scuotere anche le pelli più dure della diplomazia: 'Fra gli scomparsi' dissero 'ci sono duecento italiani'. I sindacati si mossero. Il governo no•. Lo stesso Tutina annota polemicamente: «Ora anche la stampa alla quale allora la P2 vietava di occuparsi di cose argentine è solerte portatrice di notizie sugli scomparsi. Non c'è che da rallegrarsene. Ma forse è un po' tardi. La scoperta dei cimiteri è diventata l'unica attività possibile, per recuperare il tempo perduto». Veniamo a tempi più recenti. Dal 22 giugno all'll luglio si è tenuta a Milano, nei locali di «Fac-simile», una Rorida, Navigazione dei Galli (I59I) mostra dal titolo «Desaparecidos - dove sono?,. (della mostra si è occupato su queste colonne Antonio Porta). La mostra ottiene una buona udienza dalle pagine culturali dei giornali. Ma è scarsa l'attenzione per le pagine del catalogo della mostra che contengono, elaborato dal computer secondo l'età, il sesso, la nazionalità, ecc., l'elenco di 5.500 scomparsi in Argentina, e fra essi gli scomparsi di cittadinanza italiana. Quando la mostra si ripete, dal 6 al 25 novembre, dopo la pubblicazione della famosa «lista» del Corriere, riceve una accoglienza quasi febbrile ... Ma la «lista» c'era già, nel catalogo, a giugno. Sembrerebbe che si debba concludere che la notizia è esistita solo perché è stata accolta dalla prima pagina del Corriere; non ci potrebbe essere migliore dimostrazione, ai limiti del paradosso, che la notizia è un prodotto, il risultato di un meccanismo produttivo dell'informazione. Ma bisogna guardarsi dall'ipnosi di questi paradossi di cui troppo spesso si bea la «massmediologia». Occorre leggere nell'articolo di Lanfranco Vaccari quali ostacoli ha affrontato l'attività in Argentina del corrispondente del Corriere, Giangiacomo Foà, a partire dal 1976. «Foà si adoperava molto, in quel periodo, in favore dei rifugiati e dei perseguitati politici. Un'attività che gli procurò solo grane. Qualcuno sparò una raffica di mitra contro la sua casa di Buenos Aires. Tanto lui che sua moglie ricevettero minacce di morte. Per cercare di coprirsi le spalle, nell'estate del 1976, Foà si fece eleggere presidente del Circolo della stampa estera di Buenos Aires. Alla fine, però, dovette cedere: fu trasferito a Rio de Janeiro, da dove ha firmato l'articolo che accompagna la lista pubblicata ,dal Corriere il 31 ottobre. Perché Foà, che già nel 1976 sapeva molte cose e che collaborò alla compilazione della lista dei 34 scomparsi pubblicata dal1' Europeo, ha aspettato sei anni per raccontare tutta la sua verità? La risposta è molto semplice per lui, che in questa vicenda ha rischiato la pelle: a quell'epoca la P2, la loggia massonica di Licio Gelli, cominciava a far sentire la sua influenza sul gruppo RizzoliCorriere della Sera. Solo quando lo scandalo e il ciclone della P2 si sono dissolti, è stato possibile per Foà fare fino in fondo il suo lavoro di giornalista. Nessuno degli altri 'democratici' (partiti, giornali, intellettuali) lo aveva nel frattempo fatto». È importante che l'Europeo, appartenente al gruppo Rizzali, scriva queste cose. Sarebbe ancor meglio se fossero state scritte sul Corrieredella Sera, mostrando coi fatti che la fase P2 si è chiusa. Ma, per il momento, bisogna accontentarsi. Non è possibile accontentarsi, invece, della professionalità e del coraggio di singoli giornalisti, necessari ma insufficienti, alla luUnatrasmission·seegreta Giovanni Cesareo . mento, alcuni giornali polemizzano contro il divieto Rai, il Consiglio d'amministrazione deJlaRai discute la vicenda. Nasce cosi il «casoRebibbia» che viene generalmente condannato come un episodio di 'censura' palleggiato fra ministero della Giustizia e Rai. Ma, in realtà, questo 'caso' non è affattn un caso. E trattarlo come tale - cioè come un episodio singolare racchiuso in se stesso - può serviresoltanto a occultare una norma più vasta, che interessa tu1IO il sistema d'informazione, non soltanto la Rai. Anzitutto, se si parla di 'censura', correttezzavuole che se ne parli non solo in riferimentoall'ultimafase delprocesso di comunicazione - in questa circostanza, la messa in onda del programma - ma anche risalendo fino allefonti. In verità, come e più che mai per altri 'luoghi sociali' (istituzioni politicheed economiche, militari e scientifichee così via), vigela regoladel segreto. Queste fonti sono inaccessibili agli operatori dell'informazione privi di 'autorizzazione'; da queste istituzioni le informazioni fluiscono ali'esterno nei tempi, nei modi e secondo la volontà di chi detiene il potere di concedere l'auJorizzazione. La 'censura', quindi, è un elemento di base, e il flusso inforT)Ultivoè sempre, almeno fino ai limiti del possibile, 'guidato', ovviamente secondo gli interessi di chi guida. Se il gruppo di Cronaca - il quale da molto tempo mirava a condurre un'inchiesta sulle carceri - fosse stato davvero costretto ad approfittare di lm'au-. torizzazione limitata a uno spettacolo di carceratiper realizzare un servizio più ampio, ciò non sarebbe che una controprova dell'esistenza di' una «strategiadel segreto» allefonti. E, infatti, da almeno un anno i cronisti milanesi, appoggiati dall'Associazione lombarda della stampa, conducono una vera e propria battagliaper spezzare questa strategia e ottenere la possibilità di dar corso - siapure attraverso canali istituzionali - a un regolare e corretto flusso d'informazioni sul carcere di San Vittore: e finora non l'hanno spuntata. Qualche settimana fa, al Circolo della Stampa di Milano si è tenuto un dibattito su «Carceree informazione», nel quale molte voci autorevoli si sono levate contro questa situazione, contro questa «censura sistematica». Il veto della Rai a proposito di Rebibbia è apparso clamoroso anche perché si è manifestato maldestramente. Probabilmente esso è stato in parte ispirato dall'esterno e in parte è stato frutto di una tradizione di servile 'cautela' che ha lontane radici. Si può ricordare che a metà degli anni sessantafu realizzata una inchiesta apuntate dal titolo Dentro il carcere di Emilio Sanna e Arrigo Montanari. L'inchiesta fu girata, naturalmente, grazie a una autorizzazione del ministero della Giustizia, che si riservò di controllarne i testi. Ma quando i testi debitamente controllati giunsero alla Rai con il placet, l'allora presidente della Rai, il magistrato Sandulli, li rinviò al ministero perché, a suo parere, la censura perpetrata in quella sede non era stata sufficientemente accurata. E solo dopo questo doppio controllo e altri travagli, il programma andò in onda suscitando moltissimo interesse e rivelando che nelle carceri vigeva una situazione intollerabile (tuttavia, quanto peggiore di quella attuale?). Del resto, la 'cautela' della Rai nell'informazione può essere riscontrata quotidianamente: nei telegiornali e nelle rubriche, nelle interviste e nei servizi, nel rapporto complessivo con i fatti che accadono e con la dinamica sociale del paese. L'eccezione sono proprio i programmi che rompono con questa 'norma', la quale- va notato - è statapiù volte incoraggiata,purtroppo, anche dalla Commissione parlamentare di vigilanza. Quando, come spesso avviene, ci si richiama alle «responsabilità di chi opera col mezzo televisivo», si fornisce un alibi ai censori: la responsabilità, infatti, viene intesa in senso negativo (come dovere di 'cautela', appunto), non in senso positivo, come richiamo al diritto di informare i cittadini nel modo più ampio e approfondito possibile. È così che la Rai, tra l'altro, ce delle pesti che hanno investito il sistema informativo italiano in questi anni. Questo caso ha dimostrato che il controllo reciproco fra i giornali non ha funzionato a dovere nei sei anni di black-out imposto al gruppo Rizzali, fra l'articolo del 1976su L'Europeo e la lista pubblicata dal Corriere nell'ottobre 1982: il fatto stesso che il Corriere abbia potuto fare uno scoop basandosi su un lavoro tenuto nel congelatore per tanto tempo è più eloquente di molti discorsi che abbiamo letto. È una nuova prova, ci pare, della necessità che siano i giornalisti stessi a sollecitare la crescita di una critica dell'informazione, sia a livello di massa (nelle scuole, per esempio) sia da parte di esperti, ceni.i di ricerca, riviste, ecc. - meglio ancora se collegando fra loro i due piani. Mentre concludiamo questa nota sulla «strana» ricomparsa dei desapa- ------, recidos, altri temi sono «scomparsi» dalla stampa italiana. Ad esempio il Salvador, che qualche mese fa era salito agli onori della cronaca. Proprio nei giorni in cui esplodeva il caso dei desaparecidos, li Giornale criticava il fatto che, nella nostra società spettacolare, l'assenza di immagini televisive dall'Afghanistan ha finito per mettere in un angolo anche gli avvenimenti di questo paese. È una tesi sostenibile. Ma abbiamo visto immagini delle fosse comuni in Argentina? È tempo di affrontare di nuovo il problema della completezza del notiziario internazionale nella nostra stampa, in base a criteri meno empirici. Sappiamo che l'attenzione è una risorsa scarsa. Il caso dei desaparecidos, come quelli del Salvador e della Polonia di cui ci siamo a più riprese occupati in questa rubrica, dovrebbero servire a qualcosa di più che a scatenare corse in \:Xlremisper salvarsi la coscienza. Dovrebbero portare a una discussione sul modo di sviluppare la risorsa scarsa chiamata «attenzione»; e il rapporto con le fonti che i media instaurano per attivare, più o meno artificiosamente, questa risorsa da essi amministrata. Nota (!) Per ragioni organizzative, l'analisi non ha preso in esame JI Messaggero. finisce per perdere in partenza le sue migliori possibilità di battere - grazie alle sue strutture e alle sue forze - qualsiasi concorrenza su un terreno privilegiato come quello dell'informazione. Infine, nett1menoè un caso che quest'ultimo veto abbia colpito ii gruppo di Cronaca, il quale dà vita a una rubrica che - come è scritto nella sua testata - è «realizzata con i protagonisti delle realtà sociali». Qui siamo nel cuore dei meccanismi che mettono in opera la produzione di informazione, siamo al centro della 'filosofia' del/'attuale sistema dell'informazione. La «strategiadel segreto»si incarna anche nel silenzio cui vengono normalmente costretti i protagonisti delle realtà sociali. Nel sistema d'informazione c'è una precisa divisione sociale del lavoro: c'è chi è legittimato a produrre informazione (oltre che a consumarla) e chi è autorizzato soltanto a consumarla. li caso non riguarda soltanto i carcerati: riguarda la maggioranza della gente comune. Il gruppo di Cronaca, che sin dall'inizio ha impostato il suo lavoro con l'intento di spezzare questa divisione, è da anni costretto a vivere in isolamento. Anche per questo, forse, ha perseguito con tanta tenaciaquesta inchiesta sulle carceri. <S '-------------------------------------------------------------------------------- 81bI dtecag;noo,dnco

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