Alfabeta - anno IV - n. 40 - settembre 1982

ricordare per renderci conto dell'importanza che ha per Anceschi il parlare proprio ora, tanto insistentemente, del metodo: «rispetto alla situazione del pensiero nel nostro paese in questi anni, in cui uno storicismo alla dr. Strauss, con le sue dure macchine di mortificazione, di riduzione, di ossificazione, e infine.di idolatria del Museo nell'enfasi di una idea di Storia, come assoluto contento di sé, domina il territorio della ricerca, e mentre da un lato si fan riemergere figure remote, scheletriche, coperte da strati di pietra senza riuscire a rianimarle, e, dall'altro, si progetta una rinascita impossibile di una 'filosofia ben fatta', chiusa e definitiva nella fiducia del 'sistema', certe difficoltà si fanno presenti nella necessità del rifiuto•. Se questa è la situazione agli occhi di Anceschi si intende che il problema della demistificazione acquista nuova rilevanza. Sempre tenendo d'occhio il passo citato possiamo valutare meglio anche il perché del caos, cioè di una concezione cosi 'rozza' e anche ingenua del reale. C'è una deliberazione in Anceschi a non definire la realtà; l'epoché husserliana è stata in questo caso totale (e più radicale dello stesso maestro, per quanto appare nel corso universitario). Tra caos e metodo la correlazione è stretta; uno, in qualche modo, giustifica l'altro. ( cli metodo è il nostro modo di calarci nell'antico, e novissimo, caos e 'sentirci a nostro agio'• p. 25). E più precisamente il metodo ci fa criticamente coscienti del caos, guidandoci alla lettura e comprensione del groviglio quasi babelico delle interpretazioni e dei sistemi spesso elidentisi uno con l'altro. Cosi nel saggio «Della poetica e del metodo•, che riprende un caro /ei1m01iv della ricerca anceschiana, egli pone accanto a nuove osservazioni sulla poetica «artistico-letteraria• (quella degli autori stessi) e «filosofica• (condotta dall'estetica), già precedentemente enucleate e indagate, un'indagine su una possibile 'poetica scientifica' di linguisti e semiologi (segnatamente Jakobson e Lotman), anche questa chiusa - pur se con estrema intelligenza - in una certa assolutezza che non regge alla prova della poliedricità del reale, in quanto molti e diversi sono i modelli che si presumono scientifici (l'esame è condotto su Lotman, Todorov, Jakobson e Eco): «può destare un certo numero di giustificate perplessità il fatto che le soluzioni presentino Sistemi Radicalmente Diversi, e, nello stesso tempo, che tutti i Sistemi tendano a presentarsi come Modello Scientifico e che tutti tendano a fornire un ordine di informazioni, per quanto articolato esso si mostri, lineare, definitivo, conclusivo, e unico, o almeno l'unico possibile al livello di conoscenza in cui si trova la cultura•. Davanti a ogni pretesa di scienza e di un sapere in definitiva deduttivo viene qui ribadito il «realismo• di una scelta induttiva. li caos non è infatti posto come semplice ipotesi provvisoria, la sua correlazione al metodo è da questo punto di vista radicale giacché il metodo non intende essere la via per un nuovo e diverso sistema bensi risultare la verifica critica del caos, in modo che questi al termine della ricerca risulti leggibile e percorribile, grazie alle schematizzazioni, distinzioni, relazioni che si sono potute operare. Questo è il nostro sapere: confrontare idee e soluzioni rintracciandone spesso il filo sotterraneo, le reti: «se si vuole una definizione dell'idea di poetica non la ,i troverà né in questa né in quella proposta particolare, anzi essa tende a trovarsi in quell'orizzonte generale, che articola, compone, e significa in sé gli orizzonti particolari• (p. 93). Ne consegue - ma Anceschi non lo dice espressamente - la possibilità di istituire una epistemologia storica della cultura che potrebbe portare a un sapere «archeologico• (alla Foucault) se il sapere non venisse poi così risolutamente legato alla passione e all'interrogazione continua alle cose (traccia evidente è il tono «provvisorio• di ogni testo di Anceschi) che rende impossibile fermarsi alla sola ricostruzione archeologica, poiché ogni ricostruzione (anche nel passato) vale per un'interrogazione sul momento in-corso («il tentativo di stabilire - non di ristabilire - certi significati, il constatare come essi si sian venuti e si vengan trasformando. o mutando, o si siano costituiti di nuovo•, Lezione, p. 6). Il fatto che il nostro progettare sia sempre riferito alla situazione che stiamo vivendo impedisce di postulare qualsiasi sintesi e che, al di là della • comprensione cui ci ha portato il metodo, ci si può muovere sul ben diverso e più accidentato piano delle scelte (non sarà certo un caso, a questo punto, il fatto che Pascal sia spesso ricordato in questi testi) e che proprio alla critica (di cui già Rossi rilevava la valenza antitetica alla estetica) è affidato il compito di muoversi risolutamente nella situazione e anche forzarne il corso (per Anceschi lo a11estano gli interventi sull'ermetismo, la linea lombarda. i novissimi). La critica si differenzia pertanto dal procedere fenomenologico (non a caso nel libro è sottolineato più volte l'intimo controsenso di una critica fenomenologica) per il colloquio più intimo e diretto con i testi, attenta al loro messaggio dirello e totale (e non alle letture angolate della indagine semiologica, sociologica o psicanalitica). P er Anceschi il dialogo, come si sa, è avvenuto sopra11u110 con la poesia. Perché la poesia? Nel Caos, in « Difficoltà della memoria», egli è entrato nel merito di questa sua netta scelta, offrendo motivazioni storico-culturali, ma se si legge tulio Anceschi risulta abbastanza evidente che il ruolo protagonista giocato dalla poesia si motiva con le sue capacità sopra11u110nel Novecento, di sondare ed esprimere il «nuovo», ovvero di procedere a un costante autosuperamento; inoltre la poesia, più del romanzo, ha accompagnato il suo evolversi con un nutrito dibattito di poetiche, ovvero con una serie di progetti, esibiti o impliciti, che attestano il suo forte ruolo di ricerca e di ambizione conoscitiva (al punto da divenire la principale interlocutrice del pensiero filosofico, si pensi ad Heidegger). L'ultimo corso universitario di Anceschi offre una documentazione della centralità nel pensiero contemporaneo della riflessione sul «Che cosa è la poesia?», al punto che solo un intreccio di funzioni e relazioni può dare un quadro, ricco di variabili e incognite, che vuol essere il tracciato di qualcosa di vivente, sempre in moto. Torniamo al punto d'inizio: il vivente, che la poesia rappresenta al grado più alto, se pensiamo che nell'ultimo secolo, essa ha costituito (sopra11u110 con le avanguardie), più ne11amente delle altre arti, una sfida alle teorie che ne decretavano la morte, trovando invece motivo di vita dalla sua presunta infungibilità sociale. Probabilmente in questo servire la vita piuttosto che la ragione formale, nel suo costituzionale paradosso, sta per Anceschi il fascino indiscutibile del fatto poetico che nel suo inesauribile procedere e rinnovarsi, costituisce un continuo richiamo della forza delle cose e costringe il pensiero, che vuol essere fedele alle cose «in carne ed ossa•, a non chiudersi in una sintesi, in una totalità, che risulterebbe automaticamente fuori gioco, ed invece mantenersi in quella che Freud avrebbe dello un'analisi interminabile. Resterebbe da dire qualcosa sullo stile e sulla scrittura di Anceschi, così legata a questo discorso del vivente. La traduzione da Plotino ci offre l'esempio della responsabilità concettuale del suo stile. La traduzione non è nel verso di Plotino, o meglio non è nel clima spiritualistico con cui si è sempre letto il filosofo neoplatonico; rispello alla classica traduzione di Cilento le differenze sono evidenti, solo a riflettere sul modo diverso di rendere il titolo, laddove a «bellezza dello Spirito Verace• corrisponde «il bello intelli- 41 gibile». Può benissimo essere più lellerale la traduzione di Cilento, ma a che scopo se quelle parole risultano cosi fuori gioco in un discorso novecentesco? ,\ una fedeltà della lellera non sarà <la privilegiare una fedeltà nello spirito che rende agibile e nuovamente discutibile un lesto? Cosi il timbro è IUIIO novecentesco (la civile affabulazione, lo stile dialogico) vivendo fino in fondo l'ambito della lingua in cui si traduce e rifiutandosi all'ibridismo del calco che per una presunta fedeltà crea una lingua fillizia e sostanzialmente illeggibile. Egualmente, in proprio, la pagina di Anceschi cerca al massimo di costituire un fallo vivo. Affiora sempre, grazie agli abbondanti nessi e agli incisi, il ragionamento in progress, colto in 1 ulle le sue pieghe, dove le frequenti schematizzazioni (le ipotesi e le leggi) non andranno intese come approdi definitivi nia sempre delle tappe e puntualizzazioni nel viaggio della ricerca che la scrittura so11olinea nella sua .(" forma. Pertanto la pagina si muove in una curiosità quasi incessante, ma tenuta sempre in un registro sereno e pacato, senza momenti epifanici o aforistici: non conta la frase o l'espressione, bensi il procedere «curioso» delle idee, sostenuto sia da un tono di intima gioia sia di civile e confidente esposizione: «Ancora vorrei dire che trent'anni sono un breve trailo, anche se è staio pieno di cose; che alcune di queste cose le ripeto con piacere; e anche che ho tentato di recuperare la difficilissi- < ma gioia della ricerca» (Ul1i111laezione, p. IO). Anclreattpaa, cl~d,tellastangata e bi volesse tentare una valutazione della politica economica del ministro del Tesoro Andreatta, sarebbe tentato di definirla: astuta sotto il profilo tecnico, rischiosa dal punto di vista economico, rovinosa nel suo contenuto politico. Da giovane, Andreatta scrisse un brillante saggio di teoria e tecnica monetaria. Lo intitolò li governo della liquidità e lo dedicò a Guido Carli, allora Principe della Banca d'Italia, che lo lesse e se ne compiacque. Oggi, al timone dell'economia italiana, Andreatta comprova la sua capacità di governare la liquidità. Ma il governare il tessuto produttivo e la struttura economica e sociale del paese si rivela cosa assai più complessa e insidiosa, ed i rischi di produrre guasti ba irreversibili sono assai maggiori. Negli anni più recenti, il processo di ristrutturazione dell'industria italiana, iniziato ormai più di dieci anni or scino, ha compiuto un altro balzo in avanti. Un primo aspetto di questa trasformazione è ormai cosi noto che è sufficiente ricordarlo nei suoi termini più sintetici. La riduzione progressiva del peso della grande industria, il decentramento produttivo, lo sviluppo di medie e piccole imprese, il dilagare del lavoro indipendente, del lavoro a domicilio e del lavoro nero, hanno consentito al capitale industriale italiano non soltanto una riduzione sostanziale del costo del lavoro, ma anche l'acquisizione di un controllo del processo produttivo che l'avanzata sindacale di dieci anni or sono aveva seriamente ridotto. È questo un processo certamente ~on ancora giunto al suo termine (nessun processo di trasformazione possiede un suo preciso termine finale): ma esso ha avuto modo di esplicarsi per un periodo sufficientemente lungo per poterne scorgere con chiarezza linee e contenuto. L'industria italiana si ritrova oggi con una struttura modificata nelle dimensioni tecniche (assai meno grandi impianti e molte unità minori in più), diversamente distri• buita nel territorio (mai dimenticata l'antica concentrazione nel triango.lo industriale, e intensamente industrializzate le regioni nordorientali e centrali), profondamente alterate le teenologie (automazione spinta nei grandi impianti, uso sempre più diffuso dell'elettronica nelle imprese minori). • Tutto questo, come è stato tante volte messo in risalto, può essere interpretato come una grande manovra an• tisindacale, tendente a disperdere la forza lavoro, rafforzando il controllo padronale. Vi è tuttavia un secondo aspe Ilo della ristrullurazione produttiva, le cui linee sono emerse con chiarezza soltanto in tempi più recenti ed hanno quindi ricevuto finora minore attenzione. La trasformazio.ne strutturale dell'industria italiana è stata accompagnata da una selezione progressiva di settori e mercati che l'ha condo11aa concentrare le esportazioni verso i mercati europei. Questa vocazione europe1st1ca è una tradizione antica della politica italiana, giustificata di volta in volta con argomentazioni di carattere politico, culturale, storico, sentimentale. Le sue radici risiedono probabilmente nel- .., l'inserimento internazionale del paese e sono frutto di s~elte in parte libere in parte vincolate. A stento, e con un certo sforzo, dopo la crisi petrolifera, le imprese italiane hanno cominciato a farsi strada nei mercati dei paesi Opec. Ma tullora, la quota delle esportazioni italiane dirette ai mercati europei è una quota dominante, mentre le esportazioni verso l'area del dollaro conservano un peso sostanzialmente modesto. Anco-

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