Cultura come spettacolo (3) Ilritornodelduce «Arridateci er Puzzone» scriveva il popolino sui muri di Roma nel 1945. S enza che me lo si chiedesse,fui nato (uso u11a11glicismoperseguibile co11sanzio11ipenali ai tempi della mia giovinezza) nel 1924, quindi cominciai a andare a scuola 11e/1930, appunto a sei anni, come si usava e come si usa 'ancora. Ero un «boggia» per via che avevo un gran testone in cima a un corpo esile: i compagni mi scherzavano per via della testa e poi perché ero spesso vestito alla mari11ara, cosa che, con buona pace di Susanna, non era poi cosl be11vista, sociologicamente parlando. D'altra parte quali erano le alternative al vestitino da mari11aretto?il grembiule nero, tristissimo, o la divisa da piccolo Balilla, in omaggio a quel Balilla Perasso da Genova che, bambino, si ribellò agli oppressori e che poi Starace aveva riscoperto, per farsi capo de/l'Opera Nazionale Balilla. Bene: quando fui in seconda o in terza elementare, il maestro ci portò tutti a vedere il famoso Covo di via Paolo da Cannobbio, il primo covo di banditi fascisti, poi trasformato, con la vittoria violenta del regime, in sacrario della cosiddetta rivoluzione fascista. Qui vi era, in un'atmosfera angosciosa che ricordo benissimo, buia e rotta qua e là da brevi raggi di luce rossa o verde, un'atmosfera fatta apposta per spaventare i bambini, tutto un display di gagliardetti neri, con su ricamati in oro teschi che tenevano il pugnale tra i denti. Perché i fascisti dovevano sempre avere il pugnale tra i denti e le bombe a mano in mano. Altri teschi erano modellati in bronzo o in cristallo e i pugnali erano sempre tra i denti. Poi v'erano striscioni tricolori, fotografie di Mussolini e scritti inneggianti alla patria e al suo duce. Così crebbi nel disgusto di quei teschi che mi avevano impaurito e ai quali tanti altri dovevano aggiungersi a breve e non ricamati, non modellati, ma veri, autentici, prodotti dalle guerre del regime, proprio apartire dagli anni Trenta. Quei teschi, quella osteologia propiziatrice di violenza di morte apartire da via Paolo da Cannobbio, covo primigenio, non suscitavano certo la curiosità metafisica promanante dai resti visibili nella Chiesa di San Bemardi110alle Ossa a Milano; né proponevano il fascino barocco e culturale, da danza macabra, degli scheletri abbigliati e messi in scena al Convento dei Cappuccini di Palermo; 11éi11fineerano tutelati da affermazioni scientifiche, come 11egli anfiteatri u11iversitari di anatomia, ove, non so con quale fondamento, l'assunto è che <<mortuivivos docent»; o dagli arcani alchemici della Cappella San Severo a Napoli, ove pare che la figura pietrificata colà esistente con in bella vista vene, arterie, ventricoli, coratelle e quant'altro, altri non sia che un famiglia di Raimondo di Sangro, principe di San Severo che nel Settecento praticava, dicono con successo, un'alchimia, non disgiunta forse da pederastia. Così gli anni Trenta mi accompagnarono sino alla guerra con tutto il disgusto e la noia che·anche posteriormente ai fatti cresce negli individui che non siano completamente smemorati, come quello di Collegno. La mia famiglia era borghese, laica e vagamente liberale: nessuno fu mai coinvolto col fascismo, che era tenuto in massimo spregio: nessuno si vantò poi di aver fatto alcunché contro il fascismo, anche se qualcosa si fece. Si viveva e si operava, in Italia, come si poteva. I pittori continuavano a dialfabeto n. 36 maggio JY82 pagina 6 pingere quadri, cattivi quadri in genere, ma spesso buoni per quel contesto; gli architetti progettavano palazzi e stazioni, spesso littori; gli stilisti disegnavano le divise del regime e dei piccoli italiani. Verso la metà degli anni Trenta iniziano poi le avventure belliche del regime: invasione dell'Abissinia, Spagna, Albania. Sul piano culturale, esaurite alla fine degli anni Dieci le ventate innovative che s'erano chiamate Futurismo e Metafisica, espletate le formalità e le dilazioni concesse ai suddetti movimenti, con seconde e terze ondate, subentrava il ritorno all'ordine e il novecento con quella specie di realismo pesante e retorico, perfettamente adatto a un'arte che si voleva celebratrice del regime. Realismo che mai tanto bene abbiamo visto rappresentato come a Parigi, al Beau- • bourg due anni fa, nella mostra «li realismo tra le due guerre». Dico tanto be11eperché gli allestitori parigi11i,non soffrendo dei complessi culturali dei nostri curatori, protesi, attraverso la vuotaggi11erappresentata, a mettere in mostra se stessi, scelsero veramente il meglio dell'arte del novecento e i quadri italiani lì figuranti, da Carrà a Tozzi, a Oppo, a Sironi, a Borra, a molti altri erano tutte degnissime opere. Rivalutato quindi il novecento italiano a Parigi, cosa ci s{ poteva attendere a Milano, se non la distruzione dei nobili sforzi compiuti oltralpe? La pittura degli anni Trenta esce dalla mostra milanese massacrata: un'arte senza senso, priva persino del gusto dell'arte per l'arte, ché anche questo, nel gruppo degli astrattisti comaschi, è ben debole. Perché mai la pittura italiana del novecento, rivalutata a Parigi, si svilisce a Milano? Penso che non si debba attribuire questo gravissimo fatto solo alla scadente scelta delle opere. In effetti le opere di quel periodo molto meglio si presentano se estrapolate dal contesto che le ha viste nascere. Se anche è vero che buona parte della critica tende ormai a mostrarci l'opera inserita nei parametri culturali e dicostume che l'hanno vista nascere, talvolta determinandola, non è meno vero che, nel caso dei fascistissimi anni Trenta, gran vantaggio si ha presentando Biblo ecaginooanca Enric Baj l'arte avulsa da quella sua triste cornice originaria. Con la pittura messa in mostra a Milano «tornano i fantasmi della mediocrità», come ha notato Lorenza Trucchi, di «quei mediocri, provinciali anni trenta» ( Gilio Dorjles). Non parliamo poi della scultura, tronfia, retorica, più che mai aderente agli ordini del committente; né di quei «movimentini» tipo Corre111eche proprio d'altro non possono essere indicatori se non di buona volontà. Meno buona invece la volontà di chi gareggiò e vinse premi fascisti in mostre che, organizzate dai vari gerarchi, erano . comunque sempre abbiette. L'alienazione di quei ludi pittorici e il passaggio facile di poi, e con uguali successi, nel campo dell'antifascismo, stanno solo a provare, attraverso certi comportamenti e grazie alla volontà dei curatori della mostra, il persistere nella società e nella cultura italiana di peculiari caratteristiche fasciste così riassumibili: demagogia, plebeismo, intrallazzi, violenza, incultura, fanatismo. Quando va male si cambia il colore della camicia; e poi ancora, passati alcuni decenni, si riesumano quegli incivili, oscurantisti, autarchici anni Trenta. Per un riesame di cosa? dell'inesistente? della filosofia italiana del '30? della mistica fascista? dell'arte littoria? degli artisti rifugiatisi all'estero a tessere il volto dell'altra Italia? di q11ell'altra Italia, evocata da Lea Vergine, che almeno nel campo delle arti non esisteva per niente? Cerchiamo pure di ricordarci, ancorché la memoria non pare proprio il nostro forte, che Vasilij Kandiskij fu esule da sempre, appena in Russia la rivo/11zione culturale si trasformò in dittatura burocrato-partitica e che Picasso per mezzo secolo combatté contro Franco. E quale italiano lo fece mai? anche quelli che giàs'erano installati a Parigi, come i De Chirico, i Savinio, i Severini, non tornarono forse in Italia per godersi questi orrendi anni Trenta? Nel 1933 a Dessau, ne/l'edificio del Bauhaus la polizia effettuava perquisizioni e altri arbitri. li 20 luglio di quell'anno Mies van der Rohe in pieno accordo con i suoi colleghi di insegnamento che si chiamavano K/ee, Kandinskij, Albers, Moholy-Nagy, Breuer, Gropius ecc., ritenendo inacce11abilile esigenze della Gestapo, scioglieva quella gloriosa, ormai mitica scuola. La gran parte di quegli artisti riparava a/- I' estero: evidentemente ignoravano la massima fascista basata sul presentismo secondo la quale «gli assenti hanno sempre torto». Gli italici equivalenti di quelle personalità, dai Piacentini ai Carrà, dai Portalupi ai Sironi, dai Ponti ai Funi, tutti si davano a ottenere tessere e commi/lenze dal regime e, devo dire, avevano ben ragione, dato che vengono ancor oggi ricelebrati, cinquant'anni dopo, con concorso dei vari Bari/li, Fagone, Caro/i, ecc. curatori-ideatori della mostra. Si fa gran parlare di un proto-design milanese; ne viene immediato il paragane tra seggiole, sdraio e poltrone in tubolare d'acciaio cromato firmate Pomi, Mucchi, Bottoni, Pica, datate tra il '33 e il '36 (che ci vengono riproposte nella mostra), con le similari antecedenti creazioni di Le Corbusier, Breuer, Albers, datate tra il '22 e '28. Qualepena per leprime, quali imitazioni puerili, nate 1101g1ià da un proto-design ma dalla ristre11ezzamorale e culturale: notiamo tra l'altro che se di un protodesign si ha da parlare questi può essere solo quello della Werkbund: 1907, non 1930! Werkbund che fu poi l'antecedente del Bauha11s. E veniamo al catalogo. Quelli del Beaubourg, pure enormi e pesantissimi, sono stati surclassati dal catalogo milanese: i primi pesano sui 2,200 kg., quello milanese arriva a 2,500 kg. e secondo alcuni a 2,800 kg. Ho qui tra le mani il catalogo di una bella e completa mostra sul Bauhaus (Parigi, aprile 1966), e il catalogo, esaurie111issimosotto ogni aspetto (architellura, pittura, design, mass-media, grafica, docume111i, foto, film, ecc.) pesa solo kg 1,100, una pena! Forse la ponderalità è data dal tipo delle riproduzioni, per cui se ne desume che Kandiskij, Klee e Moholy-Nagy anche in riproduzione pesano meno di Funi, Sironi e Guttuso, il che per la patafisica legge della «lievità immaginaria» mi pare giusto. Sempre in tema di cataloghi, l'obbrobrio fu raggiunto, sempre a Parigi, nel marzo 1966. A una splendida mostra sugli Anni '25 che ho avuto la gioia di vedere, con opere e documenti di Picabia, Picasso, Le Corbusier, Mirò, Daum, Lalique, Gallé, Duchamp, L.éger, Joyce, Gropius, Wright, ecc. fu dedicato un catalogo di 450 grammi. li catalogo milanese è veramente innovativo e, l'ossimoro perme11endo, pieno di vuoto: nulla è sfuggito ai soleni curatori, neppure le notizie bio-bibliografiche di se stessi. infatti alle pagine 491 e seguenti possiamo apprendere tutto di Bari/li and Company; datè di nascita, tesi di laurea su questo o quell'argomento, articolipubblicati e viadicendo. Qualcuno si definisce «critico militante». Dopo la milizia fascista, eccoci alla malizia critica militante nel vuoto! Per verità, non un critico ma uno storico specialista del fascismo, Giordano Bruno Guerri, curatore della sezione «vita politica e sociale» è tra i pochi a contarcela giusta: « Quanto alla cultura, particolarmente negli anni Trenta, fu danneggiata da pretese autarchiche ... la censura operò pesantemente sia nella possibilità di espressione sia scoraggiando le traduzioni straniere o addirillura, dal '38, proibendo le opere di autori ebrei. Mentre gli intellettuali, tranne qualche rara eccezione, non dimostrarono molto coraggio adagiandosi nel conformismo, il regime tentava di creare un'arte fascista, i cui goffi risultati sono visibili nelle sale della mostra ... li fascismo seppe creare una sua cultura nella vita sociale e in tutto ciò che costituisce l'humus collettivo di un popolo. Ed è proprio questo l'effetto più insidioso epiù difficilme111e cancellabile del ventennio». Ed è proprio a questo effe110che la mostra milanese è dedicata! Aveva proprio ragione er puzzone, come lo ribattezzò il popolino romano dopo la guerra: «Vemi anni di fascismo 11011 sono passati invano ... È impossibile cancellarli ... un'opera gigamesca che è destinata a lasciare tracce indelebili per tulli i secoli nella storia italiana». Di tali tracce Bari/li & Co. si s0110 eretti ora a zelanti custodi, imerpreti, classificatori e archiviatori, e, perché 110?apologeti. La mostra ha una grandissima sponsorizzazione: l!I nostalgia, il revival di noi stessi che quegli anni abbiamo vissuto. E il revival, lo dice la parola, fa rivivere, illusoriamente. Così Giovanni Testori (Corriere della Sera, J febbraio 1982), accampando una pretesa «dignità» degli anni Trenta, sulla scia dei self-celebrating curatori, comincia il suo lungo articolo ricordando come nella mostra figuri un suo studio del I 942 sulla pittura italiana per la rivista Pa11uglia di ... Forlì. Forlì, terra natale del Duce e la fascistissima testata Pattuglia dicono tu/lo, per un giovanissimo autore che cercava ove pubblicare i suoi primi conati letterari. Inoltre nel 1942 non siamo più negli anni Trenta e già la guerra, voluta dal Duce e corollario del decennio precedente, scaraventa valanghe di bombe e di morti sull'Italia. Un altro critico ti dice che tra i documenti vi è un saggio del 194I sul cubismo e così via. li revival offre i suoi premi di consolazione. Ahi, serva Italia! dopo tanti secoli di grandezze civili e culturali, v'è purtroppo bisogno di ripescare, per riviverli con nostalgia i dieci anni tra i più tristi e miserrimi del nostro paese? Annitrenta Arte e cultura in Italia (mostra) Milano, primavera '82
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