Alfabeta - anno IV - n. 36 - maggio 1982

B. gliene si accorda alcuna. Fino al momento in cui quel luogo oscuro e confuso si popola di strane figure, come se l'illusorio degli altri, che nei moderni diventa quello dei Greci ancora confusi, avesse immediatamente liberato una misteriosa capacità di produrre effe11idi illusione. Il sapere mitologico scopre la propria inventiva, proiellando le proprie figure immaginarie sulla superficie speculare del mito-finzione, che mima indifferentemente il discorso osceno e la demenza, la ingenuità affabulatrice di una umanità bambina o la primordiale profondità da cui emerge, preceduta dalla filosofia, la scienza. Immagini riflesse, lunghe traversate, portano alla ricerca di un impero dei miti del quale i Greci, si mormora, avrebbero causato la rovina scoprendo la verità logica; e la ritrovata Atlantide fa arenare sulle nostre coste le favolose ricchezze di una razionalità dimenticata, ma che è proprio la nostra, e, già allora, quella degli scienziati, sin da quel contineme fantasma. In ogni figura che si inventa, la mitologia subisce una metamorfosi e il suo sapere si sposta; essa assume la forma effimera dello spazio abitato solo per un giorno. Ieri, le idee carnali, la selvatichezza dei Popoli della Natura, la demenza di una umanità amica; domani, il canto della terra, la parola originaria, una sapienza più alta della metaf,sica. Ma, quale che ne sia la leggenda, il campo definito dalla mitologia è sempre un sito provvisorio, uno spazio aperto, un luogo nomade; come il rovescio senza profondità di una linea di frontiera a partire da cui lo sguardo comprende un orizzonte secondo i canoni che, in quel momento, gli sembrano opportuni. Di per se stessi, né l'incredibile né l'irrazionale sono autentici territori; sono piu11os10l'ombra proie11a1ada una ragione o da una religione di circostanza. E ogni visione del mondo scopre una nuova mitologia, consona al proprio sapere, ma che sembra riprodurre fedelmente quella vecchia. Non situabile, perché mobile forma di un miraggio sempre vivo, la mitologia, però, sembra conservare un territorio inalienabile: il mito, che ne è insieme il principio unitario e l'unità elementare. Non vi è presenza più familiare, più ossessiva, a partire dal momento in cui la figura del mito evoca una storia o un racconto. Poco importa che il racconto parli il linguaggio tiella integrazione o quello dello scontro. Normativo o contestatario 13 , coerente o meno, resta comunque inteso che il mito raccoma una storia. E, secondo alcuni, l'essenziale risiede nella storia raccontata, e lo si può quindi facilmente dissociare 'dallaforma narrativa. Dal che si è pensato di poter concludere che nessun racconto sia, di per sé, più traducibile, e che le storie mitiche o dipendono da una grammatica specifica, oppure sono ricondubicili a un insieme di temi, e si distinguono per il genere di problemi che essepongono 15 . Secondo altri, semiotici più stre11i,il mito è un tipo di racconto. Con leproprie marche linguistiche: l'Egli, non l'io o il tu; la terza persona dipanerebbe i momenti di un dramma in un racconto diacronico 16 , o, anche, una strutura sintagmatica rei/a da un prima e un dopo; raccomo il cui svolgimento intralliene quindi un rapporto essenziale con la temporalità. 'Già Plotino aveva interp~etato i «miti» di Platone proprio in questi termini: il mythos è uno strumelllo di analisi e di insegnamento che consente di capire scomponendo memalmente nozioni intricate; separa· nel tempo le circostanze del racconto; distingue gli uni dagli altri esseri confusi, diversi solo per rango e potenza. Il tempo del mito, diceva Plotino, è l'imperfe110:il modo de/l'universo sensibile 17 . Lel/ura neoplatonica che Cassirer riscopre, chiedendo a Platone di farsi precursore della propria lucidità: il mito è la lingua che consente di esprimere il mondo del divenire 11 . Tra la speculazione e l'azione: la mezza verità dei filosofi••. Ma altri, contemporanei della semiologia, non stanno forse facendo del mito il paradigma del/'intempora/e, non tendono forse a stanare la presenza delle origini nel «C'era una volta», ossia la formula in cui si leggerebbe la forma semplice del mitologico? Trionfa la illusione mitica, che fa credere ai moderni invemori della mitologia che nulla è più concreto, reale e evidente del mito. Nella ricercasociologica effe11uatanel paese del mythosda un saggio indigeno, il mito, invece, recita la propria diversità, a un punto tale che, davvero, il saggio non lascia nulla di intentato. Forse che egli 1101s1i disperde tra nome proprio ed epopea, tra proverbio e teogonia, tra favola e genealogia? La mitologia, abitata dal mythos, è un territorio aperto nel quale tulio ciò che viene dello nei diversi registri della parola si trova alla mercé della ripetizione che trasforma in memorabile quanto essa stessa ha selezionato. E il mito, lungi dal conferire alla mitologia l'identità che sembra doverle, rivela, spostandosi da un senso all'altro, di essereun significante disponibile. E disponibile a un livello tale, che Aristotele, a metà del IV secolo avanti Cristo, può effel/uare una scelta di miti nella Poetica, per definire quella che dovrebbe essere l'anima della tragedia20 : l'intreccio, la «connessione sistematica dei fatti nella storia• 21 . Dal punto di vista della poetica aristotelica, il mito non è affa110la storia narrata, ma il prodo110di una costruzione regolata. Un mito si modella; i falli devono essere predisposti 22 ; le azioni concatenate secondo verosimiglianza o necessità23 ; la storia deve avere una lunghezza tale da poter essere facilmente ricordata24 . L'intreccio deve essere composto in modo tale che, indipendentemente dallo spellaco/o, anche senza che vi si assista, «conoscendo i falli che si producono, si provi pietà o terrore per ciò che accade»25 • L'effe/lo tragico nasce dal mito-intreccio. Se, ascoltando la storia di Edipo, proviamo terrore epietà, èperché l'intreccio è buono, ben annodato, perché l'autore della tragedia lo ha tra/lato con abilità, da buon· artigiano. Il mito è quindi oggello di invenzione••, ma in base a storie alfabeta n. 36 maggio /982 eagina, 16 1anco fornite dalla tradizione, nella quale i poeti a volte pescano a caso, e altre volte selezionano le vicende di certe famiglie, gli Atridi o i Labdacidi 27 . Storie che non diventano autentici «miti•, cosi come li intende la Poetica 28 , se non quando si siano rese tragedie. E' di fallo Aristotele che inventa, come oggeuo teorico, rifleuendo sulla natura della tragedia, e niente affa110sulla essenza di una «mitologia», ai suoi occhi inesistente, quell'interesse nei confronti dell'intreccio che Lévi-Bruh/, con perfe11aconvinzione, a11ribuiva alla mitologia dei Greci, secondo lui talmente colti da esseredivenuti insensibili ai perigli della esperienza mitica. Il «mito» è, allora, così poco il modulo di un sistema autonomo, che il medesimo termine designa, insieme, la illusione degli altri e l'intreccio di una storia. E l'incertezza si protrae, perché nel I secolo avanti Cristo, secondo un «critico» come il grammatico e filologo Asclepiade di Myrlea, i «miti» sono «racconti falsi», storie fittizie, ma che non concernono né gli dei né gli eroi, né tantomeno gli uomini illustri, le cui storie sono tulle classificate tra i «racconti veri» 29 . Dopo la mitologia vedova di miti, ecco dei «miti» senza dèi ed eroi. Fare appello, oggi o domani, a qua/Ilo tuui concordano nel chiamare mito, è confessare, più o meno ingenuameme, una desueta fedeltà a un modello culrurale comparso nel XVIII secolo, quando l'insieme dei luoghi comuni sulle divinità del paganesimo, tra Ovidio e Apollodoro, viene a costituire il campo della favola, la cui conoscenza colta e erudita si chiama, allora, mitologia 30 . Ma non vi è alcun episodio di questa lunga storia che autorizzi a riconoscere nel mito un genere le11erarioo un tipo specifico di racconto31 . Pesce solubile nelle acque della mirologia, il mito è una forma introvabile. Pare quindi azzardato averlo voluto assumere come oggeuo di un sapere rigoroso, e averne annunciato la grammatica sin dai tempi della scoperta delle Indie occidemali. Ma, allora, che cosa potrebbe significare una mitologia senza miro? Come salvare la «mitologia» de/l'osservato, quando si sia smascherato il gioco di specchi, riflessi e illusioni che avvolge il sapere sui miti, come difender/a da ciò che gli antropologhi, sulla scia degli Ideologi, chiamano «osservatore»? Quale oggello le si può assegnare? Un certo sapere 32, dei modi di pensare 33, una particolare modalità della a11iviràsimbolica"? Evocare le «storie della tribù» sembra un modo garbato per eludere la questione. «Se solo pronuncio il nome di Edipo, si conosce tulio il resto; suo padre Laio, sua madre Giocasta, quali erano le sue figlie e i suoi figli, ciò che gli accadrà, ciò che fece. Lo stesso per Alcmeone, lo si nomina, ed ecco che anch; i fanciulli gridano immediatamente che, diventato pazzo, uccise sua madre» 35 . Le srorieche tu/li sanno, e le storie fondamenta- /i: insomma, la mitologia «delle famiglie», che ricorda un po' una certa storia di Francia od' Inghilterra per gli scolari di una volta 36. lndubbiamenre, rulli conoscono in anticipo queste storie perché sono fondamentali; ma, a parte il fallo che questo criterio non è in grado di censirle, il ricorrervi porterebbe a reintrodurre la categoria del mito, solo un po' mascherato come racconto fondatore. A tal pumo è evidente che una mitologia senza miti è {mpensabile. E però, l'uomo che partì da solo, molto tempo fa, e scopri la ci/là invisibile che egli ba11ezzò«mirologia», solo perché non disponeva di a/cri rermini adeguali nella propria lingua, non fece ritorno con grandi e meravigliosi racconti. Alla ci/là cheaspeuava il suo ritorno, egli non raccontò né legesradi dèi eternamente giovani, né la nasciradel cielo, della terra e del mare. Neppure un modesto «racconto d'inverno», non un solo «mirologema». Ma rutti i vegliardi ultrasessantenni presero immediatamente a mirologizzare, e in modo ca/mentedivino che i fanciulli, incantaci, affascinaci, li stavano ad ascoltare e, a poco a poco, entravano nella vecchiezza, mentre, insensibilmente, i vecchi diventavano come fanciulli. La peste aveva spopolato la ciuà; la polis platonica veniva così salvata da quel male oscuro nel quale taluni, sussurrando, diagnosticavano ciò che -in a/cri tempi cupi - spiriti avveduti avrebbero chiamato la «tradizione interro/la». Si può esseregreco, e quindi maestro di inganni, ma, per avventura, scoprire una idea stimolante. È il caso di questo modello di ere generazioni dove a fame le spese è la generazione di mezzo, con un dispositivo del brusio incantarore il cui contenuto e i cui modi narrativi si cancellano di fronte ai principi, alle massime, ai pensieri indimenticabili che nutre nel proprio seno, nella propria pienezza, una polis fedele al B,me e al Bello. Sogno di una eradizione che deve trasmel/ersi per opera dei «bambini della vecchia erà», a11raversouna sola e identica voce, dagli Antichi ai più nuovi tra i vivenri. Ma è anche una figura della mitologia senza miri, condo/la da una durara ideale: il tempo omogeneo di eregenerazioni. E' ben vero che, nel modello plaronico, la remporalirà viene abolira, e la micologia vi è immutabile cosi come i suoi micologi. La parola rrasmessa circolarmente non deve modificarsi; d'alrra parte, non può neppure farlo, perché il sistema platonico pensa fermamente la memoria nella sua relazione con l'Essere e il mondo delle Idee, e fa di essa una a11iviràmentale inaccessibile al divenire e alla erasformazione. Ora, è proprio quanto difeua nel modello di Plaroneche porrebbe permei/ere di salvare una micologia esangue, svuorara di miri. Nello spazio di due o tre generazioni, nelle socierà la cui culrura non è depositara in un sisrema di norazione scrirta, rullo ciò che si dice e si racconta è solloposto a continue e inevitabili metamorfosi, quali che siano l'autorità e il numero degli «amminiseratori della memoria». Nelle parole, nei racconti, nelle storie, ognuno toglie qualche piccolo trailo e ve ne pone qualche altro, forse più gradevole. Fontenelle suggerisce questa ipotesi, ma sicuramente parla per aggiungere del « falso meraviglioso» a ciò che ègià falso. Alle orecchie di coloro che lo modificano inconsciamente, ilmemorabile è sicuramente ciò che è più vero. L'inobliabile si produce spontaneamente, cioè a11raverso un lavoro auronomo della memoria di ereo più generazioni, confuse in quel narratore già anonimo che sembra ripererela storia o dire la formula nella quale ognuno si riconosce immediaramente. «Scorie che continuiamo a ridire e che 011engono l'accordo di rurri», ci sussurra nell'orecchio, ancora una volta, quello stesso Greco. La «mitologia», allora, non sarà forse un inobliabile, venuto dalla memoria estranea ai processi di apprendimento nei quali la scri11urainventa, con inediti oggetridi pensiero 37, la memorizzazione meccanica, e fedele a tal punto, parola per parola, che l'essenziale, ciò che 011ienel'accordo di tulli, dovrà necessariamente dirsi e prodursi altrove? Solo la memoria inventiva, so,ella dell'oblio, potrebbe salvare, forse, la «micologia» o, almeno, sorrrarlaalla erranza in cui noialtri Greci la abbiamo condoua a piacere, con così lunghe le/Iure. Un'ultima storia, aspe11andoil teorico. Si narra che a Siracusa, nei sobborghi della sua ci11à,Cerone, secondo o primo, non si sa bene, avesse allestito un giardino magnifico, sontuoso. Amava recarvicisi per trauare i propri affari. Il giardino di Cerone si chiamava « Mito• 38 . Ironia nei confronti delle udienze accordare dal principe ai propri ospiti o, banalmente, perché quello era il suo parlatorio, ove discutere tra le acque ruscellanti, l'ombra squisira de~'albero de/l'incenso, e tra i sentieri confusi della innocenza e della depravazione? Solo la miopia ci impedisce di vedere che il «paradiso• del re di Siracusa faceva fiorire in ogni stagione quella pianta, ormai introvabile, che certi severi Osservatori dell'Uomo, fastidiosamente rratriin inganno dagli seri/li di certi boranici, si ostinano a confondere con la gramigna o con chissà quale a/eraerba selvarica. Traduzione di Maurizio Ferraris Note (I) NatalisComes, Mythologiae, Venezia, 155I (Cfr. J. Seznec, La Survivance des dieux antiques, 2"ed., Paris, 1980, 199-228; tr. it. La sopravvivenza degli antichi dei, Torino, 1981). Ma FonteneUe lo leggeva dai gesuiti, nella versione francese pubblicata nel 161I a Roucn: NO<!Ll e Comte, Mythologie, c'est-à-dirt aplication des /ab/es, contenant /es ginétllogies dts ditux, lts cirimoniLs de leu.rssacrifices, /eurs gesta, aventura, amours etprtsque tous lts pricepts de laphilosoph~ nature/le tt morale. Cfr. Fontenelle, De l'originedes fablts (1724), a cura di J. R. Carré, Paris, I932, 41-42. (2) Cfr.J. Starobinski,«Lemytheau xvm• sib:le», Critique, n. 366, nov. 1977, 996. «Non ci~ consentito di avere cor i Greci qualcosa di identico»: HOlderlinluttuoso, la venigine, la rovina dc1l'inimitabile.Secondo l'analisi acuta di Ph. Lacouc-1..abarthe,«HOlderlinet !es Grecs•, Poérique, 40, 1979, 465-474. (3) E', per esempio, la posizionedi M. I. Finlcy, Gli antichi Grtd, tr. it. Torino, I965. (4) Prolegomena w eintr wissenschaftlichen Mythologie, GOttingcn, 1825. Su K. O.Mllllcr,cfr. H. Pinard dc la BouUayc, L' Etude compari dts religions, 2• ed., Paris I, 1925, 268-276, e B. Bravo, Philologie, Hùtoiu, Philosophie de l'histoirt. Etudes sur J. G. Droysen, historien de l'Antiquiti, Varsavia, 1968. (5) Fr. Vian, La Guerre dts Giants. Le mythe avant l'epoque helllnistique, Paris, I952 (6) Fr. Vian, Lts Originu de Thlbes, Cadmos ti /es Spanes, Paris, 1963, 5 (7) Fr. Vian, Lu Origin,s de Thlbu, 6-7. Sitratta di correggereil difetto maggiore di una mitologia, «rescissa dalle sue connessioni culturali•, e che tende a degradarsi in una libera raccolta di «favole•, lasciate alla e.immaginazione del narratore•. Anche se, del resto, l'autore non esclude che una ccreazione nata dalla libera fantasia> possa svilupparsi secondo cschemi preesistenti• (op. cii., 12) (8) Fonctions men1alu dans fu sociltb infirieuru, Paris, 1910, 434435. (9) Trisru Tropiquu, Paris, 1955, 318 (tr. it. Tristi tropid, Milano 1960). Altri approcci: L. Dc Hcusch, Pourqoui l'ipoustr?, Paris, 1971, 141-146; J. Dcrrida, De la grammarologie, Paris, 19(;7, 145-202 (tr. it. Della grammatologia, Milano, I969) (IO) Anthropologie struauralt, Paris, 1958, 232 (tr. it, Antropologia strullural~, Milano, 1966). Sottolineo la parola «lettore». ( I I) In Anthropologitstructurale deux, Paris, 1973, 78 (tr. it. Antropologia stru11uraledue, Milano, 1978), O. Uvi-Strauss ricorda che il titolo della sua cattedra alla Ecole pratiquc des hautes études, creata nel 1888, «Religioni dei popoli non civilizzati•, ~ stato modificatosua richiesta nel 1954: «Religionicomparate dei popoli senzascrittura». Ancora di carattere privativo, ma meno traumatico per gli uditori venuti d"oltremare. ( 12) a. Levi-Strauss, Anthropo/ogie srrucruraledeux, ciL 78 (13) Ed. Lcach, Les Systtmes poliliques dts haurts ""es de Binnanit, 2"cd. (1964) tr. fr., Paris, 1972, 304-318.

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