Lareginqm,,dp.trlloeve Discorso del ministro degli interni Camera dei deputati 15 febbraio e 23 marzo 1982 Articolo 4 della legge 15 febbraio 1980, n.15 Disegno di legge 28 agosto 1981 sui terroristi «pentiti> Cf è la tortura in Italia? La domanda è doverosa ed esige risposta. Ma bisogna stare bene attenti a chi la da e come. Che un ministro neghi tutto e scarichi tutto su qualche ctesta calda> sfuggita al controllo gerarchico è cosa naturale, che, direi, fa parte del gioco delle parti. È inimmaginabile infatti che un ministro di uno stato non a forma dittatoriale ammetta per esempio di aver concordato con altri vertici il via libera ad interrogatori «energici»... Può cadere sotto i colpi di una opposizione agguerrita ma non «confessare». È importante perciò ogni forma di raccolta di prove, di testimonianze che avvenga attraverso organismi non istituzionali. Ci saranno anche inchieste giudiziarie ed amministrative che produrranno risultati conformi ai loro limiti: chi riuscirà mai a provare una scarica elettrica o altro del genere (la migliore tortura è quella che non lascia traccia)? Senza contare la stretta relazione istituzionale che lega gli indagatori ai torturatori (presunti). Ma ormai abbiamo l'interessamento di Amnesty International, mentre anche parlamentari italiani costituiscono comitati ecc. Uno dei modi di risposta al quesito di partenza può consistere nel sondare la compatibilità di certe pratiche violente con il sistema giuridico ed istituzionale, con le sue affermazioni e con le sue pratiche effettive. Sono deplorevoli eccezioni o qualcosa di ben più radicato? Il punto di partenza obbligato è l'interrogatorio del fermato o arrestato in genere. Lungamente gli studiosi si sono interrogati sulla natura e sulla funzione di questo particolare atto istruttorio. Mezzo di identificazione dell'imputato? Certamente si; non ci si può permettere di processare una persona per un'altra. Mezzo di contestazione dell'accusa e mezzo di difesa? Certamente si, almeno teoricamente, visto che non di rado il fatto contestato non è chiaro. Il problema sorge sul se l'interrogatorio sia anche mezzo (o fonte) di prova. La prova in un processo penale è un fatto o circostanza, utile per l'accertamento delle responsabilità, che viene portato a conoscenza del giudice da una persona che per i più vari motivi ne è informata: l'esempio tipico è quello del testimone. Affermare che l'interrogatorio è mezzo di prova significherebbe puntare all'ammissione da parte dell'indiziato della propria responsabilità, sola o congiunta a quella di altri (chiamata di correo), nella commissione di un reato: confessione. Ma, rassicurano i giuristi, l'interrogatorio comunque non mira alla confessione, al massimo può servire alla raccolta di elementi indizianti, poi da verificare. La stessa Corte di cassazione ha ripetutamente escluso che l'interrogatorio sia mezzo di prova. La confessione, anche quando c'è, nqn sarebbe di per sé sufficiente per arrivare ad una condanna in mancanza di prove diverse che la confermino. In sostanza pur con diverse sfurdature la mQdema teoria del diritto pena-. le spezza quel filo diretto interrogatorio-confessione-condanna che negli ordinamenti preottocenteschi poneva la confessione come elemento centrale del processo: la regina delle prove. È questo infatti l'unico modo, più dei divieti, per scoraggiare l'uso di quei mezzi (tortura) «normali» per il raggiungimento del fine confessione. La verità su un fatto criminoso deve essere dedotta da testimonianze ed accertamenti estranei alla persona dell'accusato. Questi non può essere considerato come «un témoin dans sa propre cause»: cosi deliberò solennemente il lii congresso inlernazionalc di diritto penale di Paiamo l 1933). confermando l'orientamento già accolto dal codice Rocco («se l'imputato rifiuta di rispondere, ne è fatta menzione nel processo verbale e si procede oltre nell'istruzione»: ex art. 367 cod. proc. pen.). Queste erano alla fin fine già le argomentazioni degli abolizionisti della tortura del XVIII secolo, oltre ovviamente ai motivi umanitari e alla non sicura attendibilità di ammissioni estorte con violenza. Questi ancora oggi gli argini posti all'uso di mezzi di pressione sull'accusato: svalutazione del peso probatorio della confessione e diritto al silenzio o facoltà di non rispondere. La verifica dello stato di questi «argini• ci da la misura dello spazio che la tortura ha o può avere nel nostro attuale sistema. fatto da parte dell'imputato, dimostra una vitalità effettiva della confessione nella pratica giudiziaria ben superiore a quella che può immaginare un qualsiasi lettore di testi di procedura penale. La vitalità e diffusione delle confessioni rimanda inevitabilmente alla vitalità dei mezzi di coazione per ottenerla. Con questo non si vuol dire che non esistano confessioni dovute a motivi diversi, «ad infermità di mente o ad altro squilibrio psichico, a fanatismo, ad auto ed eterosuggestione, a ragioni di lucro, a spirito di omertà ...• (G. Bellavista, «Confessione» - dir. Proc. pcn. -. in Enciclopedia del dirilfn. VIII, I96 I. p. 920). Ci si riferisce invece a quelle «spontanee dichiarazioni» rese alla polizia giudiziaria dai fermati («spintanee» nel gergo da caserma che a volte aleggia nelle aule di giustizia). Ed in effetti, fatta eccezione del decennio 1969-78, la polizia ha sempre avuto la possibilità del primo inter-. rogatorio «a caldo• dell'arrestato senza la presenza né del magistrato (dal '74) né del difensore tanto da potersi affermare che «alla tortura tariffata e legale dell'età di mezzo si è spesso sostituita quella delle moderne camere di sicurezza da parte di funzionari ...> (op. ult. cit. p. 919). Sin qui siamo comunque all'interno dello scarto tra ciò che la legge dispone e/o disincentiva (anche l'arrestato nelle camere di sicurezza ha il «diritto• di non rispondere) e le pratiche effettive. La situazione cambia ql.\alitativa- s icuramente la confessione ancora mente con l'introduzione nei processi oggi serve a «rasserenare la co- politici della legislazione su,i«pentiti»: scienza dei giudici>. D'altra parte l'àrticolo 4 della legge Cossiga (legge il fatto che un numero ragguardevole 15-2-80 n. 15) e la legge in corso di di condanne sarebbe impossibile, per approvazione. Queste norme infatti mancanza o insufficienza delle prove, valorizzano la confessione e la chiama- . senza l'indispensabile ammissione-del - ta-di correo che ridiventano l'asse por- - ---------. - ------------ - - - - - --- - - - --- - - - - - - · --~~--------------· ,. __ b,u11u Ci\.,0~11 ,uOla, l\.,V tante e spesso esclusivo di numerosi processi. I fatti sono notori. Il problema è quello della riapertura, che ciò oggettivamente comporta, dello spazio in cui operava la tortura. La confessione., eliminate le violenze necessarie per 'òttenerla, era rimasta nell'ordinamento in una posizione formalmente di secondo piano. Porla nuovamente, insieme alla chiamata di correo, al centro del processo non può che richiamare 'è rilegittimare tutte quelle pressioni fisiche e psichiche che servono ad ottenerla. D'altra parte anche il concetto di tortura richiede di essere precisato sia alla luce del particolare meccanismo della promessa di un beneficio (che a prima vista potrebbe sembrare l'opposto della coazione) sia alla luce delle moderne tecniche di determinazione del compo.rtamento. Vi è infi!tti una ricca produzione di studiosi statunitensi ed inglesi (vedi per esempio l'ampia rassegna contenuta in B. Irving and L. Hilgendorf, Po/ice interrogation: the psychological approach, HMSO, London 1980) che dimostra l'infondatezza della credenza popolare secondo la quale la violenza fisica sarebbe il mezzo esclusivo e migliore per ottenere una confessione. Pari efficacia ha l'applicazione di tecniche di persuasione: la manipolazione deila percezione che una persona ha delle conseguenze sociali delle sue azioni e6 la prospettazione della confessione come affermazione della sua personalità e/o la promessa di vantaggi ecc. Queste tecniche «pulite• sommate ad un opportuno dosaggio di elementi di costrizione fisica (isolamento, durata e modalità dell'interrogatorio, timore di subire violenze, condizioni di carcerazione ecc.) costituiscono il terreno ideale per ottenere una confessione con modalità che pur non sempre definibili come tortura in senso tradizionale sono ad essa assimilabili (op. ult. cit. p. 41-42). D'altra parte anche il diritto al silenzio, essenziale opposto logico del1'«obbligo di dire», non gode proprio buona salute. Il silenzio dell'imputato, già considerato moralmente riprovevole e contrario al diritto, anche se non sanzionato data la particolare condizione dell'imputato, è oggi vanificato dalla rilevanza pratica che ha assunto la valutazione della condotta processuale. In altri termini tra la collaborazione divenuta regola riconosciuta legalmente e il diritto al silenzio (o al rivendicarsi innocente) quest'ultimo di fatto soccombe e si carica si significati negativi nei confronti di chi lo esercita (prigioniero politico?). La legislazione sui «pentiti» ha l'ulteriore particolarità di coinvolgere pienamente la magistratura nelle dinamiche di sollecitazione della collaborazione. Ciò per l'ovvio motivo che il fatto incentivante, la riduzione della pena, è di competenza proprio dei giudici. Né va trascurato che le tecniche di determinazione del comportamento sopra richiamate dicono, per esempio, che l'efficacia di una premessa vantaggiosa è tanto maggiore quanta più autorità ha la persona che la fa (op. ult. cit. p. 14). E naturalmente un magistrato ha una posizione di maggiore prestigio rispetto ad un funzionario di polizia, almeno per quanto riguarda questioni attinenti alla durata della pena (mentre ovviamente può essere diverso per le condizioni materiali di detenzione o altro di competenza del- _l'esec11ti,v.<_?_)_-__________ ._ S ulla base di queste conside~azioni si può delineare una doppia serie di condizionamenti. Quelli di livello superiore, ad esempio promesse di vantaggi globali sul monte pena o libertà provvisoria, ad opera di persone in posizione preminente e quelli di livello inferiore (danno fisico immediato o timore di esso) di «competenza• di agenti ecc. Naturalmente i due tipi di intervento possono esistere separati (né sono parificabili tout court) ma è innegabile che la loro combinazione può moltiplicare gli effetti dell'uno e dell'altro in quanto ovviamente il vantaggio è tanto maggiore, nella idea della persona alla quale viene prospettato, quanto maggiore è il danno posto in alternativa. Certo con questo allargamento del concetto di trattamenti violenti non si vuol dire che oggi in Italia le conversazioni nelle case dei giudici siano del tipo di quelle immaginate da Voltaire: «... la prima cosa che essa domanda al marito quando rientra in casa dal tribunale sarà: 'Cuor mio non avete messo alla tortura nessuno quest'oggi?'» (Dizionario filosofico, Milano, 1974, p. 633). Ma altrettanto certamente non può essere ignorata o rimossa la stretta relazione che intercorre tra mezzi e fasi «soft» e mezzi e fasi «hard». La logica è pur sempre quella «antica•· secondo la quale «non vale la confessione fatta durante la tortura, se non è confermata con giuramento dopo cessata quella: ma se il reo non conferma il delitto, è di nuovo torturato» (C. Beccaria, Dei deli11ie delle pene, Milano, 1973, p. 42). E nella moderna separazione tra giurisdizione ed amministrazione, considerati i poteri di cui dispone sia l'una che l'altra, si può facilmente immaginare la ricchezza di combinazioni possibili. In conclusione si può affermare che l'esercizio di mezzi di pressione violenta, sia fisicache psichica, sugli arrestati pur non costituendo una pratica sistematica a livelli gravi non è nemmeno solo una deplorevole eccezione, anzi, come abbiamo visto, è il risvolto perfettamente coerente dell'attuale sislema normativo ed istituzionale. Scandalizzarsi e chiedere «piena luce» sui recenti episodi è giusto ma assolutamente insufficiente se non si rimuove l'apparato speciale (normativo ed istituzionale), ripristinando cosi quegli «argini» eh~ possono costituire un disincentivo, non risolutivo ma indispensabile. all'uso della coazione fi- ~ica. ~ §- "' ...., "' ] ~ _I ]i
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