"' Cfr. Vittorio Sereni Stella variabile Milano, Garzanti, I \182 pp. \16, lire I 0.000 Stella variabile è una stella la cui produzione di energia non avviene con ritmo costante, di conseguenza è soggetta a contrazioni e dilatazioni, alle quali si accompagna una variazione della temperatura superficiale. Lo splendore di una stella variabile non rimane costante nel tempo e le variazioni possono essere dovute a oscillazioni proprie della luminosità dell'astro (variabili propriamente dette) o a un effetto di prospettiva (come per le variabili a eclisse). Produzione variabile di energia, oscillazioni, hanno luogo solo se al centro resiste un nucleo fondante e irriducibile; si entra nel libro di Vittorio Sereni attratti dal suo nucleo, formazione di energia calamitante, il poemetto «Un posto di vacanza». La prima sensazione che si prova è quella di una eccezionale prova di resistenza: nonostante lo si conosca dal I\171 il poema continua a agire con forza sul lettore. Ma risulta un po' strano dire «nonostante» per quel che riguarda la poesia; di fatto non è pensabile che un decennio faccia «deperire» un'opera riuscita. Viceversa: la prova che un'opera è riuscita sta nel suo resistere, e resiste, in questo caso, fino al punto da emanare intorno a sé l'intero libro e a sorreggerlo. Ma è lo stesso poemetto che ha una struttura a «stella variabile»: un nucleo di produzione energetica centrale e intorno una costellazione di domande, di segnali da interpretare, seguendo quella paradossale, fiduciosa certezza che è il «sapere di non sapere» («ma un progetto/ sempre in divenire/ 'in fieri' di cui essere parte / per una volta senza umiltà né orgoglio / sapendo di non sapere», pag. 52). La via che conduce al centro propulsore è segnata da fallimenti, da stazioni morte («Cosi lontane immotivate immobili/ di là da questo acheronte / non provano nulla non chiamano me/ né altri quelle luci.») ma quella decisiva, che sembra opporre un muro imperforabile davanti a ogni successivo passo, è l'ultima dedicata al dissanguamento della memoria, questa: «È il teatro di sempre, è la guerra di sempre. -Fabbrica desideri la memoria, - poi è lasciata sola a dissanguarsi - su questi specchi multipli.» Versi straordinari, anche perché preludono al successivo passaggio, oltre gli inganni, questo: «Un sasso, ci spiegano, - non è cosi semplice come pare. -Tanto meno un fiore. - L'uno dirama in sé una cattedrale. - L'altro un paradiso in terra. - Svetta su entrambi un Himalaya - di vite in movimento.» È una definizione del fuoco, con dentro l'alito di Lucrezio. Lo «scriba», come Sereni chiama il poeta di «Un posto di vacanza», chiede di essere messo da parte («tu davvero dimenticami, non lusingarmi più»), in nome di un'energia oggettiva che egli ha il solo, grandissimo merito, di saper registrare. come una carta sensibile esposta al movimento delle stelle, una «celestografia» come l'ha definita August Strindberg. E a questo punto sembra lecito dire che il libro è lo specchio di una condizione oscillante (l'unica che ci è consentita?): una stella variabile, dentro e fuor di metafora, dentro e fuori la scrittura l'esi- • stenza, la natura, i riflessi e l'artificio del linguaggio si attirano e si respingono, pulsazioni che rispondono a pulsazioni. Amonio Porta Paul Virilio Velocità e politica. Saggio di dromologia Milano, Multhipla 1982 pp. 160, lire 6.000 Esiste un legame tra politica e velocità, democrazia e dromocrazia, diritto allo stato e diritto alla strada? La risposta di Virilio è che i due termini sono pressoché sinonimi: il potere (militare, economico, politico), è sempre un effetto della velocità. L'origine di questa equazione si situa al sorgere dell'età moderna: secondo Virilio, infatti, ogni potere moderno si è affidato primariamente alla velocità e all'ubiquità, prima in campo militare, ma in seguito (con la soppressione della guerra esterna e la militarizzazione interna) a ogni livello (lotte rivoluzionarie, economia, politica interna ...) Agli albori della guerra moderna, scrive Virilio, il maresciallo Maurizio di Sassonia intuisce che la potenza militare non consiste tanto nella entità delle forze in campo, quanto nella loro capacità di movimento. La velocità in quanto tale è potenza; e la dissuasione può effettuarsi non attraverso uno scontro reale, ma attraverso una completa ubiquità della forza. Un principio che si ritroverà nel motto dell'Inghilterra imperiale, Ubique quo fas et gloria durn111; si perfezionerà nell'ideale della guerra totale e della Blitzkrieg: per realizzarsi appieno nell'equilibrio atomico, che si regge sul tempo ridottissimo necessario alle testate nucleari per raggiungere l'obiettivo. Affermatasi sui campi di battaglia, la velocità si trasferisce in campo economico, con l'enfasi moderna del valore di scambio (non importa l'uso dell'oggetto; importa invece la sua rapida scambiabilità). Scrive Virilio: «()uando le ricchezze, le capitalizzazioni, i modi di produzione si sono liberati, non era ... per accedere agli scambi, al libero scambio, cioè alla loro socializzazione, ma alla loro potenza veicolare specifica, al massimo della loro efficienza dinamica, e in ciò consiste la 'futilità' di una ricchezza scomparsa nel progresso dromologico». Infine, la velocità diviene il principio dominante del politico. Ogni rivoluzione è caratterizzata da una paradossale presenza della circolazione: il diritto allo Stato passa attraverso il diritto alla strada e alle possibilità di controllo della circolazione che esso offre. Cosi come il domino statale è anzitutto un controllo stradale: «il potere politico non è che secondariamente 'il potere organizzato di una classe per l'oppressione di un'altra', più materialmente è polis, polizia, cioè viabilità». Maurizio Ferraris J.M. Straub, D. Huillet Zu friih, zu spiit (Troppo presto, troppo tardi) L'ultimo fùm di Jean-Marie Straub e Danièle Huillet, Zu fruh, zu spiit ( I980-8 I) è stato proiettato in prima italiana il 16 febbraio a cura dell'Istituto Goethe di Roma, presenti gli autori e con dibattito. Si compone di due parti, rispettivamente di 30 e 70 minuti, una documentazione su luoghi francesi, prevalentemente rurali, caratterizzati alla fine del 700 da grande miseria e ancor oggi piuttosto desolati e spogli di presenza umana; una serie di immagini delle campagne egiziane e della periferia del Cairo. B ~ otecag1nob1anc Il primo pezzo, che si apre con una lunga ripresa rotatoria della piazza della Bastiglia, è accompagnato dalla lettura di una lettera di Engels a Kautsky, in cui la borghesia è accusata di aver mandato avanti le masse popolari per realizzare i propri obbiettivi, senza avere il coraggio di rischiare in prima persona; il secondo pezzo è accompagnato da brani della post-fazione alle Luttes socia/es en Egypte di Mahmud Hussein, che riassumono gli episodi salienti di resistenza contadina e operaia prima al dominio straniero (napoleonico, turco, inglese) poi all'oppressione di classe nazionale (da Faruk a Nasser a Sadat). Nella scansione documentaria delle immagini - che a volte citano precedenti passaggi degli autori (l'episodio egiziano di Moses und Aaron, i carri a trazione animale in Dalla nube alla resistenza ...) o gli esordi del cinema (Sartie des usines Lumière) - si incontrano le diverse sfumature ideologiche dei testi e irrompe il mondo con il vento fra gli alberti e l'evidenza del «rumore» - il suono «sporco» in presa diretta, l'eccesso di informazione non codificata negli schemi della routine bellettristica. L'Egitto di Straub-Huillet è forse ancora aperto alla rivolta e alla speranza; i campi sono percorsi da uomini, la scena delle vecchie lotte non si è svuotata, come in Bretagna, né è intasata di vetture, come le città. Il cortocircuito fra innocenza naturale e rivolta resta possibile. Per usare un'espressione del dibattito, questo è uno scandalo per socialdemocratici. Augusto Illuminati Delia Frigessi Castelnuovo Michele Risso A mezza parete Torino, Einaudi, I\182 pp. 216, lire 7.500 Ouando l'emigrato, che pensava di poter tornare presto in patria, si rende conto di dover prolungare il suo soggiorno all'estero, viene a trovarsi «come un alpinista in pericolo aggrappato alla parete nell'impossibilità di scendere e di salire»: non può abbandonare i vecchi valori del suo passato, non può rinunziare ai valori del suo presente, che sono quelli del paese straniero. Con questa metafora Delia Frigessi Castelnuovo e Michele Risso (scomparso recentemente) colgono l'impotenza, l'ambivalenza, il connitto permanente in cui l'emigrato incorre dopo un certo tempo di permanenza all'estero. Si tratta di una situazione di disagio, che può divenire anche grave. e che nel passato, a partire dal seicento, è stata addirittura considerata come una malattia che poteva indurre alla follia e alla morte: la malattia dell'Heimweh, o della nostalgia. A mezza parete ripercorre, in un'attenta ricerca che si ispira all'opera di Foucault, le vicende di questa nozione di «malattia». che ha attraversato vari stadi e multiformi ipotesi, chiamando sempre più in causa la «malattia mentale». Ma sia gli approcci «razziali» o biologici, sia quelli sociologici, alla luce delle inchieste e dei dati, si sono rivelati del tutto insoddisfacenti. Secondo gli autori, per di più, le varie «spiegazioni» volta a volta individuate non sono state che un riflesso ideologico della cultura del paese ospite. Sicché la grande mole delle ricerche appare, in ultima analisi, come il tentativo di nascondere, o obliterare, la realtà, la miseria come causa di origine del fenomeno dell'emigrazione, lo sfruttamento degli immigrati. il loro status di mera forza-lavoro pressocché esclusa dai diritti del cittadino. Perciò i casi riscontrabili di malattia mentale presso gli immigrati non sono che la punta di un iceberg, che riverbera «un disagio, una sofferenza, una tematica che appartengono a tutti coloro che debbono lasciare la casa. la terra d'origine. a tutti quelli che sono costretti a emigrare. non solo a coloro che giungono all'osservazione psichiatrica•. m.s. Antonin Artaud A propos du cinéma Firenze, Liberoscambio Ed., 1981 pp. 150, lire 7.000 Antonin Arta ud partecipò, in qualità di attore, a ventuno films, tra il 1924 e il 1935; e avrebbe desiderato rappresentare anche il personaggio principale di La conchiglia e /'ecclesiastico, il filmche Germaine Dulac realizzò sulla sceneggiatura di Artaud stesso, e che fu occasione di un'aspra polemica con la regista, che aveva trasformato in un «sogno• le immagini «poetiche• suggerite dalla sceneggiatura. Ma di cinema Artaud si occupò anche in un gruppo di scritti che ora vengono pubblicati in italiano a cura di Enrico Fumagalli, il quale opportunamente sottolinea le ragioni dell'interesse che tale mezzo espressivo aveva suscitato in un intellettuale già fortemente impegnato nel campo teatrale, come autore e regista. Nel cinema Artaud vedeva la possibilità di uscire dalla servitù degli intrecci o della psicologia di superficie, per concentrare lo sforzo espressivo sulle «pure» immagini. «f:: ancora da cercare - scriveva nell'articolo 'Cinema e realtà'- e da farsi il film di situazioni puramente visive e il cui dramma deriverebbe da un nodo costitutivo fatto per gli occhi, preso, se così si può dire, nella sostanza stessa del vedere e affatto proveniente da circonlocuzioni psicologiche di essenza discorsiva e che non sono altro che testo visualmente tradotto. Non si tratta di trovare nel linguaggio visivo un equivalente del linguaggio scritto ... •. Più tardi, e soprattutto con l'insorgenza del sonoro, Arta ud si rese conto che il cinema andava verso una direzione opposta. «Ancora da cercare•, del resto, rimane, dopo più di cinquant'anni, una realizzazione della sua idea di cinema, quel «rovesciamento completo dei valori», quello «sconvolgimento dell'ottica, della prospettiva, della logica», che il mezzo renderebbe possibile, ma che fu solo parzialmente tentato dal primo Buituel. Rimangono, questi scritti di Artaud sul cinema, come uno straordinario progetto mancato, e come ulteriore testimonianza del genio creativo del loro autore. pria cultura. per lo più violento. Condizione del vivere che sta divenendo sempre più una normalità. anche perché il sistema tende a cancellare le tracce della propria azione sradicante, e· a rendere l'esplicitazione di quella condizione una «devianza». In campo strettamente psichiatrico, e relativamente alle questioni del lavoro degli emigrati, un simile processo è qui ben dimostrato, ed ha il valore di un simbolico campione. Castelnuovo e Risso mettono in evidenza la tendenziosità (e il progetto ideologico) di molte indagini tradizionali, che su una base apparentemente scientifica (la statistica) hanno contribuito ad una definizione del nesso tra emigrazione, disadattamento e turba o devianza. Ma l'interesse del volume non è solo lo smascheramento di un uso «politico» della scienza (esso stesso deviante), smascheramento che pure viene ben condotto nella seconda parte del testo. C'è infatti una terza sezione del volume che mostra con grande chiarezza anche la contraddittorietà e la potenziale autonegazione degli studi sulla psicopatologia dell'emigrazione. I:. quando la negazione prende forma, vien da domandarsi perché dalla proclamazione di una teoria si passi al suo occultamento. Il binomio emigrazione/malattia mentale evidentemente conteneva in sé nuovi pericoli per l'assetto sociale, che la richiesta di una nuova divisione del lavoro non poteva superare. Enrico Ragazzini Tropici prima del motore Con testi di Goffredo Parise e Enrico Ragazzini o.e. Torino, lveco e Touring Club Italiano, 1981 pp. 233, s.i.p. Queste fotografie sono pagine di un «diario di bordo», un viaggio, che l-'--'--;cc_------------1 Ragazzini ha fatto in India, Nepal, A mezza parete riferimellli sopra indicati Val la pena segnalare questo bel libro di Delia Frigessi Castelnuovo e di Michele Risso (prematuramente scomparso quest'estate a Roma) perché dietro la sua trattazione rigorosa del nesso tra turbe psicologiche e psichiatriche ed emigrazione esso presenta anche un tema di affascinante attualità culturale: quello della nostaglia. Va da sé, come annuncia il sottotitolo «emigrazione, nostalgia e malattia mentale», che la nostalgia qui analizzata non è semplicemente un «luogo• della sentimentalità letteraria. È piuttosto un sinonimo di una delle parole chiave della vita sociale contemporanea: lo sradicamento. E se lo sradicamento qui esaminato è quello dei lavoratori costretti all'espatrio per necessità di sopravvivenza economica, bisogna aggiungere che sarebbe facile generalizzare quello sradicamento e intenderlo come modello più complessivo di una intera condizione del vivere attuale. Sradicamento. Strappo dalla proAfrica (Mali), con valore documentario, su quelle realtà ferme a prima del motore dove tutto si fa ancora con le mani, i piedi, il capo, dove il corpo è l'unico motore, immobile, diremmo, dato che si consuma e non distrugge. Ma se le intenzioni sono encomiabili i risultati, per contro, sono inquietanti. E niuno è responsabile. Né i «sogget• ti• sorpresi nel nero catramoso della loro esistenza, di poveri, di miserabili, di umanità che si confonde col terroso, l'animale, l'acqua o il sole financo (si vedano le immagini dal Nepal dove la fatica non è commensurabile, quasi un «modo di pregare•) né il fotografo, obiettivo, se il visibile è questo, che si vede. Ché quello che si vede, a colori, sulla carta, è bello. f::bella la fatica, la miseria, la sofferenza, questi corpi levigati come pietre, duri, questi bambini, vecchi, questa luce, queste ombre ... Come dice Parise, che presenta: la fatica rende bella questa gente. Forse voleva dire l'artista, che è bravissimo. lo, per mio conto, darei più volentieri i numeri. Decisamente, all'estetica preferisco ancora la statistica. Vincenzo Bonaua
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