Cfr. Futura (poesia sonora) Futurismo, Espressionismo, Zaum, Simultaneismo, Dad, Lettrismo, Concretismo, Mimodeclamazione di Valeria Magli e Arrigo Lora-Totino Regia di Lorenzo Vitalone Milano, al Teatro Gerolamo, Lunedl l febbraio 1982 «Con il teatro ci vuole una pazienza infinita ... », mi dice uno che se ne intende più di me. Capisco: più ciò che si offre è buono più passa inosservato. Sembra quasi una legge. Poi, con gli anni, qualcuno se ne accorgerà e allora la «scoperta», l'interesse dei Signori della Stampa (Signori? non ci sarà un'esagerazione? Non staranno invece più ai piani bassi, quelli servizievoli? E i Signori, allora, dove stanno? Nelle Banche?). Dunque tutto bene, una vera fortuna poter vedere e gustare almeno per una sera il nuovo spettacolo di Valeria Magli e Lora-Totino. Il pubblico che affollava il microteatro Gerolamo era veramente soddisfatto ed era il pubblico più difficile di Milano: addetti ai lavori, molti dei quali, si sa, «hanno la bocca sempre storta». Con misurati interventi di regia e costumi eleganti tutta la carica eversiva della poesia che mira a uscire dalla pagina si faceva sentire molto più che se fosse stata sottolineata. In particolare Valeria Magli ha acquistato in comicità grintosa e in autoironia, Arrigo Lora-Totino ha finito di perfezionare un personaggio che ha dell'inverosimile nella sua stringente, tagliente, allusività: con la giacca del frac, senza pantaloni, ma in calzamaglia e perfetto sparato bianco, sembra un ingegnere torinese impazzito, uscito di senno a causa delle poesie che recita. Una misura nella follìa, un argine, è costituito dalla sua candida barba e dai capelli tagliati a spazzola, militari. Questo signore distinto con cosce e glutei ben delineati, sportivi, parla il linguaggio dello stravolgimento e dello sfottò poetico, come si trattasse di andare in banca a cambiare un assegno. Autentico straniamento, allora, in gara con quello più professionale di Valeria Magli, che ha usato splendidamente un pianoforte a coda per cantare seriose insensatezze. A questo punto sarebbe grazioso che qualcuno ci spiegasse perché la stampa si sia invece così vivamente interessata a uno spettacolo come «Gran serata futurista» (confesso l'ho visto solo in Tv, Rete Tre: qualche mese fa} la cui principale caratteristica mi è sembrata la programmatica assenza di giudizio registico e di stile, o linea di interpretazione, come vogliamo o preferiamo dire. Si trattava, del resto, del saggio annuale della scuola di recitazione del Teatro dell'Aquila. Ci si potrà anche sadicamente divertire, alle spalle del Teatro Perduto, quando dei ragazzotti pescati nei dintorni di Campo dei Fiori recitano Palazzeschi con ineliminabili cadenze ronuiiiesche~ del tutto autentiche e tonte, ma è qualcosa che riguarda la vita privata del regista Mangiafuoco (Fabio Mauri) e nessun altro. Aotonio Porta Paolo Fossati «Valori plastici», 1918-1922 Torino, Einaudi, 1982 pp. 306, lire 25.000 «Valori plastici» vuol dire Metafisica. Questo, almeno, lo sbrigativo giudizio-etichetta ·che capita talora di trovare nella critica ben informata. E sbrigativo è dir poco, perché quel giudizio si limita a tenere conto solo dei nomi degli esponenti che dettero vita alla rivista romana («rivista» si chiamò all'inizio, poi «rassegna d'arte», con maggiore senso probabilmente del ruolo critico e di tendenza che essa voleva manifestare). I nomi, dicevamo: Mario Broglio, il suo direttore, e poi la tema «metafisica» ferrarese di Giorgio De Chirico, Alberto Savinio, Carlo Carrà appena approdati a Roma. Questo il nucleo portante, poi una costellazione di compagni di viaggio come De Pisis, Soffici, Cecchi, Marangoni (cito solo alcuni degli italiani) e Cocteau, Breton, Cendrars, Aragon, Van Doesburg, Spengler, Kandinsky (cito solo alcuni degli stranieri). Fossati, con questo densissimo libro, dimostra non diciamo l'inesistenza della Metafisica, che sarebbe falso, ma illustra da un lato la collocazione della rivista «oltre» le esperienze ferraresi, e dall'altro un modo di affrontare i problemi dell'arte degli anni Venti secondo un'ottica diversa dalle tradizionali analisi per scuole, per gruppi, per «ismi». Lo studio di Fossati anzi ha questo principale pregio: che unisce alla ricerca storica sul complesso dei rapporti fra gli intellettuali del periodo, i loro circoli, i loro strumenti, le loro relazioni con l'estero, anche una ricerca per temi e per problemi. Una ricerca che non passa dunque o non passa soltanto per la logica dei gruppi, ma definisce la reale posta culturale in gioco attraverso i ruoli e le contraddizioni recitate sul palcoscenico della socialità dell'intellettuale e del suo teorizzare sull'arte. Cosi, ad esempio, si può passare da un primo capitolo di «situazione» storica-intellettuale ad un secondo incentrato sul problema della «modernità». Per ritornare poi sul tema storico del rapporto cubismo-metafisica, e rimbalzare di nuovo sulla questione del rinnovamento e della tradizione. Infine una serie di questioni tematico-teoriche, come quella dell'ironia e del misticismo,o quella della cosiddetta «arte pura». O una discussione sui problemi delle esposizioni, del mercato dell'arte, delle condizioni di lavoro dell'artista, del suo rapporto con la critica. Ne vien fuori, cosi, un panorama estremamente variegato delle situazioni dell'arte alle origini degli anni Venti, un panorama che fra l'altro, se non si pone perché non vuole porsi la questione del valore dell'arte del periodo, ci mostra però la incredibile complessità del dibattito intellettuale in un momento cruciale della nostra storia nazionale. o.e. Bioliotecag1nobianco Compagnia di Prosa del Teatro Eliseo, Roma, Stagione 81-82 Umberto Orsini, Gabriele Lavia I masnadieri di Friedrich Schiller Traduzione di Luciano Codignola Regia di Gabriele Lavia Scene di Giovanni Agostinucci Costumi di Andrea Viotti Musiche di Giorgio Camini. J .C. Friedrich Schiller nacque a Marbach, Stoccarda (Wiirttemberg) nel I 759. Scrisse e pubblicò/ masnadieri tra il I779 e il I781. Nel gennaio 1782 ebbe luogo la prima rappresentazione dell'opera e il Duca Karl Eugen gli vietò di scrivere altri drammi. È del 1776 il dramma di F.M. Klinger Sturm und Drang (Tempesta e assalto). Della regia di Gabriele Lavia ha già detto tutto, o quasi, Tommaso Chiaretti in una recensione davvero soddisfacente (su la Repubblica); l'attore e regista ha messo in campo tutto il citabile, dal cielo tempestoso e infuocato, da fine del mondo, da sturm und drang in declino, al castello del Duca di Mantova del Rigoletto, dal grand guignol delle cene delittuose a lume di candela alla riapparizione del Conte di Montecristo ... L'elenco delle citazioni è lungo e servirebbe uno studio attento. Del resto anche / masnadieri è pieno di citazioni, soprattutto da Shakespeare, ed è già un testo di teatro sul teatro. Il tutto risulta raffinatamente kitsch, un kitsch che Lavia (Franz) attraversa e distrugge con effetti di autoironia nei momenti migliori della sua recitazione, quando prevale il registro comico. Umberto Orsini (Karl} è sempre pienamente convincente, incarna un'astrazione delittuosa, quella del capo banda rivoluzionario e c'è ironia nei costumi di pelle nera che luccicano perfettamente lucidati, anche nelle peggiori condizioni della lotta e della foresta. Monica Guerritore nella parte di Amalia, la donna ideale, che Karl alla fine non può fare a meno di uccidere, su gentile richiesta di lei, riesce a non frantumarsi nell'impossibile parte, che appunto nel finale diventa insostenibile: la Guerritore ha uno scatto di dignitosa rigidità e ce la fa. Ma il punto non è questo, la produzione è senza dubbio a altissimo livello. li punto è che non sfugge all'impressione generale di un catalogo teatrale, come dovrebbe piacere a Umberto Eco. E il gelo prevale. Non basta mettere insieme un sistema di segni per riuscire a dire qualcosa, serve solo a dar prova di circense bravura. Superati gli ostacoli della misura (un collage rischia sempre di essere eccessivo, si è tentati sempre di non farci mancare nulla, come un tacchino troppo farcito) ma anche in questo caso qualche taglio ci stava bene (decisamente troppo lunga la notte di metafisico terrore di Franz) resta l'impressione di un'afasia profonda, coperta da fiumi di parole, fin troppo organizzata dalla bravura eccessiva degli attori. Superare in naturalismo feroce il ricordo di un Ermete Zacconi come fa Lavia è il sintomo del disagio di chi sa che sta producendo puro spettacolo, come meglio non si potrebbe. Ma non gli basta. Si è aperta una voragine tra il Lavia che ha riletto Amleto ( I978) e il superistrione dei Masnadieri, come fosse caduto preda di un cinismo da successo. li pubblico in~antato applaude (le medie di incasso dello spettacolo sono state buone, e girerà in Italia e andrà in Germania) ma dà pure l'impressione di non sapere se ridere o piangere, quando la tragedia arriva al suo culmine e Karl uccide il padre redivivo e la fidanzata integerrima, a distanza di pochi minuti, e il cielo tragico, che ha sempre sovrastato la scena, tranquillizza tutti, come a dire: non preoccupatevi, qui il testo è stato messo in scena e qui finisce, noi siamo soltanto dei bravissimi attori che sanno giocare col teatro. Cosi si esorcizza l'orrore. Antonio Porta John Landis Un lupo mannaro americano a Londra Usa 1981 È l'epoca del film di citazione, come ormai ci hanno insegnato le guerre stellari, i cercatori dell'arca perduta, i blues brothers, e naturalmente la fuga da New York ed i comici ebrei della medesima città da Mel Brooks a Gene Wilder a Marty Feldman. I blues brothers: su questi val la pena fermarsi, e non solo perché il regista, Landis, è lo stesso, ma perché lo schema è anche assolutamente identico, lo schenia cioè di una trama apparente inserita in un genere apparente ma che una volta portata al fondo rivela, disintegrandosi, la sua reale natura: il caos che oggi va di moda definire «demenziale» (ma il cinema americano fin dagli anni Sessanta produceva roba come Questo pazzo pazzo pazzo mondo e come Ciao Pussycat, che non son lontani dai nuovi prodotti o dallo spielberghiano America 1941}. li titolo è già una citazione, da Mark Twain. Ma col contenuto ha poco a che vedere, se non per il fatto che l'americano di turno non è proiettato in un passato medievale, ma in un presente nel quale si proietta a sua volta un presente consciamente medievale. Poi, al galoppo attraverso il déja vue: la desolata landa scozzese, con qualche elemento di Mel Brooks. li film dell'orrore che non si prende sul serio e continuamente racconta dentro la storia i suoi richiami di genere. Poi arriva l'evento, cioè l'assalto del lupo mannaro al protagonista, che si salva ma viene contagiato e forse diventerà lui un nuovo lupo mannaro (a proposito di tema del contagio vedi «Alfabeta», l'articolo di Giovannoli su Il vampiro innominato). E se da adesso in poi ci attendiamo la trasfigurazione in licantropo del Nostro Eroe, poca è la suspence: nell'attesa infatti gustiamo una carrellata di personaggi punk (le visioni del protagonista che aspetta la luna piena con ansia di sapere se), di mostri deformi come in un gigantesco rocky horror picture show. Nel mezzo. una bella storia d'amore con intenzioni di ribaltamento del classico orrorifico, dove di sesso non se ne consuma mai perché l'orrore è già esso stessu pornografico. E la classica indagine del dottore amico di famiglia, anch'essa stravolta perché il dottore con la sua ',. ricerca del sapere non cambierà di una virgola.gli eventi successivi. Infine, la trasformazione. La metamorfosi, anzi: dato che la vediamo in ogni suo particolare di cartapesta, al contrario delle varie forme di Mr. Hyde, dove il detto passa attraverso il non detto, il tutto arriva solo mostrando piccole parti. Da qui verso il gran finale, demenzialissimo: il mostro uccide decine e decine di persone nella notte di luna piena in un cinema porno a Piccadilly e nell'antistante celebre piazzetta. È inarrestabile, perché la gente spinta da curiosità si accalca attorno alla scena, mentre l'evento eccezionale fa perdere completamente l'ordine della vita quotidiana, e Piccadilly si trasforma in una specie di luogo di autoscontro. Come nel finale di Blues Brothers, dove un evento casuale diviene di colpo evento galattico per la impossibilità da parte di una società dell'ordine di inglobare il caso. Alla fine: quella società ha prodotto un carro armato per uccidere un moscerino. li quale (il lupo) regolarmente muore. Ma che casino per un povero bestione. oltretutto innamorato! o.e. Seconda edizione IL TICINO E LA SUA GENTE la storia l'economia l'ambiente a cura di Giovanni Giovannetti e Stefano Pattarini La sforia, i mt"Slirridi ieri e di oggi, la vcgclazionc e la rauna <kl Parco del Ticino, le aurcssioni all'ambiente, l'uso del fiume per il lcmpo libero Ollrc 500 fotografie Nelle migliori librerie oppure con vaglia postale di L. 25.000 intestato a formicona editrice, via Fasolo 23, 27100 Pavia formicona editrice collana gli almanacchi linus rrus la rivl•t• di fumetti • d'altro
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