Alfabeta - anno IV - n. 33 - febbraio 1982

Blackout Questa rubrica di Alfabeta, è destinata a raccogliere interventi, documenti, informazioni che per varie ragioni (politiche, giuridiche o di mercato) subiscano una forma di silenzio stampa. Alfabeta non per questo condivide necessariamente i contenuti dei testi pubblicati. «Blackout» contiene riflessionie notizie con le quali riteniamo giusto confrontarsi (aldilà delle singole opinioni) e ingiusto mantenere il silenzio. D memoriale Magnaghi e l'intervento di Cacciari Pubblichiamo alcuni estratti di un memoriale di Alberto Magnaghi, docente di Pianificazione territoriale della Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano, direttore del Dipartimento di Scienze del Territorio della stessa Facoltà e della rivista Quaderni del territorio, detenuto dal 21 dicembre 1979 a causa della sua militanza in Potere Operaio negli anni 1969-1971. Riproduciamo in allegato il testo di un intervento di Massimo Cacciari, già apparso lo scorso dicembre sul numero 12 di Politica ed Economia in quanto tale intervento, concepito sotto l'impressione della lettura del memoriale, è stato al centro della discussione nei mesi scorsi e perché la sincerità con cui Cacciari confessa il suo senso di vergogna e la sua preoccupazione di fronte ad uno degli aspetti più aberranti del caso «7 aprile» costituisce un esempio di coraggio politico di un intellettuale italiano. Questa memoria non è difensiva. Memorie difensive ne ho già scriue molte, rivolte ai giudici, alla opinione pubblica, alle numerose persone che sono intervenute pubblicamente in mia difesa testimoniando sulla mia vita, sulle mie auività, sul mio pensiero. Questa memoria a commento del rinvio a giudizio per costiwzione di banda armata del 30/3/81, che ha sentenziato il prolungamento della mia carcerazione, è un atto di accusa La mia condanna a quasi tre anni di carcere senza processo è, per la natura e il contenuto di questa sentenza, auo che denuncia il livello di subordinazione raggiunto da seuori della Magistratura a precisi indirizzi politici, quando non di partito; che denuncia altresì come, sotto la etichetta giuridica della «banda armata» e delle leggi antiterrorismo, si sia aperta una sfrenata corsa alla criminalizzazione sociale con effetti devastanti nella procedura penale, attraverso la distruzione dei diritti di difesa e di salvaguardia della libertà del cittadino. In un dibattito, tenutosi presso la Facoltà di Architettura di Milano pochi giorni dopo il mio arresto avvenuto nell'ormai lontano 21 dicembre 1979, molte voci «prudenziali» si levarono, a fronte de/l'unanimità con cui il Consiglio di Facoltà mi aveva espresso piena solidarietà e aveva respinto le mie dimissioni da direttore del Dipartimento di Scienze del territorio, sollevando la necessità di indagare sulle radici ideologiche e culturali del terrorismo e sulle sue articolazioni a/l'interno del mondo universitario. In sostanza veniva rilanciata la parola d'ordine: « La Magistratura faccia luce». Inaugurata molti anni fa in occasione della incriminazione di Pietro Va/preda per la strage di Piazza Fontana, questa pilatesca parola d'ordine, che si contrapponeva a quella del movimento: «La strage è di Stato», ha avuto la sua tragica verifica nel processo di appello di Catanzaro. La magistratura non ha «fatto luce». Per contro è andata avanti la strada tracciata dal «teorema» 7 Aprile, sulla progressiva riduzione a «terrorismo» di ogni forma di antagonismo sociale; sulla progressiva delegittimazione della conflittualità, fino alle campagne sulle analogie semantiche fra linguaggio sindacale e terrorismo, fino alle allusioni ai «mandanti morali» dell'attentato al Papa individuati nel fronte dei «no» al referendum clericale sull'aborto. Solo di fronte al Palazzo, il regolamento di conti politici tramite criminalizzazione degli avversari, si è arrestato: «no alle esecuzioni sommarie», «no alla caccia alle streghe», «le responsabilità penali sono individua/i», «no ai processi di marca fascista e stalinista», «si ai tribunali della libertà», ci hanno in coro gridato i nostri governanti non appena toccati dalla cultura del sospetto e dalla azione penale. Gli slogans che ho sentito alla televisione della mia cella avrebbero potuto anche farmi piacere, assistendo alla straordinaria estensione dell'area «garantista» persino ai suoi affossatori. Ma questo piacere non mi è dato, dal momento che tutte le garanzie e la salvaguardia dei diritti reclamate dal Palazzo, per me non valgono: sono stato oggetto di arrestosommario ciclostilato per comitive, sono stato sottoposto al metodo dell'inversione dell'onere della prova, sono accusato di responsabilità «morali» non usufruisco di tribunali della libertà, /lifti i diriui della difesa sono stati calpestati, la motivazione di fondo del mio rinvio agiudizio procede da/l'affermazione che non ho fauo gli interessi della classe operaia secondo l'interpretazione del giudice del pensiero di Lenin, Rosa Luxemburg, Gramsci. Ma si potrebbe obieuare che la sede naturale di queste mie recriminazioni dovrebbe essere, ormai, la sede dibattimentale in Corte d'Assise. Ma, a parte la vergognosa dilatazione dei tempi processuali, questo processo è in svolgimento da più di due anni « a mezzo stampa», con sistematiche violazioni del segreto istruuorio, con la creazione pubblica, anticipata rispetto al giudizio, di colpevoli e «mostri»; esso è già souratto, di fatto, alle sue sedi naturali, ridoue a potenzia/i appendici di santificazione di verità già pubblicamente «rivelate». È per ciò che intendo avvalermi del diritto di anticipare fa mia veritàe ilmio auo di accusa, poiché sto scontando una pena che, per la sua durata, nessuno che abbia visto anche da lontano un carcere, può ipocriticamente ed eufemisticamente definire «attesa di giudizio». Ali' analisi che intendo svolgere della sentenza, occorre premettere una domanda: perché mi trovo tutt'ora in galera? Una prima inquietante risposta: perché ho difeso la mia innocenza, la mia totale estraneità alle accuse, e con ciò non ho collaborato a sostenere e solidificare l'impianto accusatorio. Moderna forma di tortura la carcerazione preventiva ha innanzitutto questo scopo: indurre gli impwati a confessare, a pentirsi. A poco varrebbe richiamare le parole del giudice al mio difensore «Avvocato, gli faccia dire qualcosa che glielo metto fuori», se questo uso discrezionale della preventiva (oggi santificato dalle proposte di legge governative) non fosse leggibile documenta/mente negli atti processuali, come principale criterio di derubricazione e di scarcerazione degli imputati, indipendentemente dalla gravità dei reati inquisiti o confessati. E chi non ha nulla da confessare e nessuno da accusare? Cultura del sospetto vuole che sia inevitabilmente colpevole: colpevole appunto di non collaborazione. Dunque la fase istruttoria non serve più a verificare gli indizi, a vagliare le prove, a riconoscere le eventuali infondatezze delle accuse, ma essenzialmente a mercanteggiare con gli imputati e con gli avvocati difensori i puntelli testimoniali di un impianto accusatorio precostituito. Nel mio caso tutto ciò è evidente: 16 mesi di istruttoria, 50.000 pagine di atti, non hanno aggiunto un solo elemento ai pretestuosi indizi che hanno portato al mio arresto. Anzi, valanghe di «pentili», organigrammi, percorsi organizzativi, sono n a dimostrare, anche a volerli prendere per oro colato, la mia totale estraneità alle accuse (ma di ciò fornirò documentazione più avanti). Un'altra inquietante domanda riguarda, appunto il valore di questo «oro colato», nel mio caso, Carlo Fioroni. Nel testo di rinvio a giudizio, come vedeemo, ogni parola di Fioroni è verità storica; nel testo ogni sua dichiarazione è assunta discorsivamente come assiomatica il riferimento alla fonte è in nota, come nei libri di testo; e ciò anche quando l'affermazione di Fioroni non ha alcun riscontro o è contraddetta da altri elementi; e ciò in base al principio «transitivo» che, avendo avuto conferma in qualche episodio, la parola di Fioroni è valida in assoluto su tutto. L'uso da parte dello Stato di un personaggio come Fioroni, così come emerge nella sua sinistra figura di asBibl1otecag1nob1ancò sassino per motivi abbietti e di «pentimenti» interessati a ascaricare su altri le proprie resonsabilità e la propria torbida visione del mondo, nel processo di appello di Milano sul delitto Saronio, mette in causa considerazioni morali sui limiti della Ragion di Stato. Ma Fioroni è al riparo da ogni verifica e confronto: il non luogo a procedere per la mancata estradizione, fa si che non sarà presente al dibattimento; inoltre per le accuse formulate nei confronti degli imputati del 7 Aprile ha già usufruito dell'articolo 4, prima di qualsiasi verifica processuale. D'altra parte era necessario toglierlo rapidamente dalla scena: come una vergogna di Stato. Infine, una terza inquietante domanda. Non sono un cultore della procedura penale e del diritto, ma appare sconcertante che quasi contemporaneamente, sulla stessa materia, con le stesse fonti testimoniali, due giudici istruuori, uno a Roma, l'altro a Padova, giungano nelle rispettive sentenze di rinvio a giudizio a due conclusioni opposte su/- la validità dell'impianto generale accusatorio, impostato peraltro a Padova. Quando un imputato deve ritenersi «sfortunato» di esseregiudicato da una magistratura di una città piuttosto che di un'altra, non c'è qualcosa che non funziona nell'amministrazione della giustizia? (...) occorre ricostruire la logica secondo cui un personaggio come quello plasmato sulla mia persona costituisce una casella importante nel teorema storico-politico che presiede a/l'impianto accusatorio. Una premessa: non sono stato arrestato il 7 aprile poiché glielementi a disposizione di Calogero non erano ritenuti sufficienti; con le ricostruzioni di Fioroni sul 7 I, si è raggiunta, a parere dei giudici, questa sufficienza. Procediamo per esclusione: la logica della mia incriminazione non è «geografica» come appare per altri (poiché la «Organizzazione» ha agito su tutto il territorio nazionale, necessaria premessa per il radicamento romano dell'inchiesta, ci voleva almeno un «insorto» nelle principali città: è il caso, ad esempio, di Ra iteri e Dalmaviva, unici insorti, rispettivamente a Genova e a Torino!). Mi/ano, città dove ho vissuto e operato negli ultimi dieci anni, era già densa di accusati. La logica della costruzione del personaggio è dunque un'altra: evidenziare le diramazioni sociali e istituzionali del disegno eversivo messo in atto da P.O. nel lontano 7 J. Di più: Tutti professori i capi delle BR, titolava, nel 79 La notte, a caratteri cubitali. Tant'è che la delusione dei commentatori fu grande quando Peci fornì l'organigramma della direzione strategica: impiegati, baby sitter, operai, disoccupati, impiegati. Da una parte vi era l'esigenza di allontanare da/l'immagine delle organizzazione armate ogni «contaminazione» con la classe operaia (drammaticamente evidenziata dagli stessi sindacati con gli eventi successivi) e riferirne la matriceallapiccola borghesia reazionaria; dall'altra l'esigenza di dare in pasto al pubblico una trama di un complotto eversivo che riproducesse nell'immaginazione collettiva le gerarchie del potere, che ne fosse lo specchio; come tale esorcizzabile con operazioni di chirurgia sociale, allontanando lo spettro di un antagonismo sociale diffuso nel proletariato. La teoria del «complotto» a cui ridurre dieci anni di storia del movimento per esorcizzarne le valenze politiche, richiede «cervelli», trame occulte (e a ciò le BR e simili non servivano poiché dichiarano il loro operato!), istituzioni che le contengono, persone che possiedono i segreti del potere da raccontare al nemico: insomma, una P2 Ma già prima del mio arresto la teoria di Negri capo delle BR scricchiolava occorreva riformulare il «complotto», quello de/- I' Autonomia, mantenendo tuttavia il teorema iniziale e puntando sulla importanza istituzionale degli organizzatori, più che sui «delitti» e sulle «bande» messe in atto. « L'autonomia colpita al cuore» titolava trionfalmente Il Giorno dopo gli arresti del 21 dicembre, sottolineando i ruoli sociali degli arrestati: professori universitari, giornalisti, professionisti, operatori culturali, ecc. La mia storia per la costruzione di uno di questi personaggi, organizzatori occulti, si adattava a pennello: ex dirigemedi P.O. (requisito fondamentale), professo re universitario in una facoltà tradizionalmente di sinistra, che aveva mantenuto rapporti di amicizia e di collaborazione in attività di ricerca con alcuni dei compagni dell'ex gruppo, lontano da ogni possibile implicazione diretta in gruppi o organizzazioni eversive o in delitti da queste compiuta. Una base attendibile per costruire l'immagine del dirigente.occulto di una Organizzazione (rimasta, anch'essa, occulta per IO anni!). (...) Dopo la militanza in P.O., come ho mille volte dichiarato, come testimoniano 50.000 pagine di atti processuali, la mia scelta politica è stata l'impegno nell'insegnamento e nella ricerca, dove /,o professato apertamente le mie idee, ho lavorato alla trasformazione delle struuure universitarie, con difficili battaglie quotidiane. Non ho fatto parte di alcuna organizzazione, gruppo, gruppetto, occulto o manifesto, inscritto giudiziariamente nella sigla Autonomia Organizzata. Ripeto questa litania dal 12 dicembre 1979. Eppure un impianto accusatorio formulato nei termini della semenza del Doti. Francesco Amato, riesce ad attribuirmi il ruolo di costillltore di una banda armata ai fini insurrezionali operante dal '7 J ad oggi su tutto il territorio nazionale e con qualche addentellato all'estero). Il mio personaggio costituisce un «teorema nel teorema» nel senso che, con procedimento «circolare», sono accusato di aver organizzato una banda la cui esistenza stessa costituisce una ipotesi accusatoria. (Si badi bene, la banda in questione non è ne P.O., né Autonomia néRosso, né Senza tregua, né Metropoli, né L.I., FARO, Centro nord, ecc.; ma è l'insieme di tutte queste sigle in una presunta continuità organizzativa e politica dei soggeui che si snoda su 1O anni come banda armata). Caso unico nei processi fino ad ora condotti per reati associativi, in particolareper terrorismo. In nessun processo è mai stata messa in discussione l'esistenza delle BR di PL e simili, né dei delitti ad esse ascriui e rivendicati. L'oggetto dei processi è la partecipazione e il titolo di reato di ogni singolo imputato. Qui no. Una accozzaglia di persone (molte delle quali non si conoscono, altre non si vedono da anni, ma niente paura è la compartimentazione!), di percorsi politici, di gruppi, di scritti, di giornali, lontani fra loro nel tempo, nello spazio, sono acco1nunati in un unico complotto eversivo; l'ipotesi accusatoria per ciascun imputato si sorregge unicamente presupponendo il collegamemo unitario di tutti questi percorsi, d'altra parte la presenza di ciascuno nel rinvio a giudizio sostiene l'unitarietà del disegno e ne costituisce la «potenza» eversiva. (...) Riprendendo dunque quanto ho introdouo nella premessa, sul processo a mezzo stampa, sottolineo la necessità di rendere pubblico questo atto di accusa: a) Nei confronti del G.I. Francesco Amato,per non aver assolto le funzioni istruttorie che gli competevano in quanto Giudice Istruttore della Repubblica, non avendo in alcun modo argomentato gli atti con cui respingeva le istanze di libertà; nel non aver tenuto in alcun conto le testimonianze dei «pentiti», peraltro utilizzate per accusare altri, da cui risulta la mia totale estraneità a qualunque percorso organizzativo successivo alla mia militanza in P.O., nel non aver tenuto, neppure formalmente, in conto le argomentate tesi difensive esposte dai miei avvocati difensori; per aver diffamato la mia attività accademica e la stessa università in cui ho lavorato; per aver artatamente occultato prove a mia difesa, modificato intenzionalmente il testo di miei interventi, travisando con manipolazioni il testo di miei scritti, non fornendo peraltro alcun riscontro al grave reato associativo per cui sono rinviato a giudizio; per l'evidente subordinazione del giudizio a interessi e ideologie politiche di parte; per aver trasformato la carcerazione preventiva da fase istruttoria di accertamento della verità, in strumento di ricatto e di mercato delle libertà provvisorie in funzione del pentimento e del consolidamento a posteriori dell'impianto accusatorio. b) Nei confronti delle forze politiche che, in nome dell'unità nazionale e dell'emergenza della lotta al terrorismo, non hanno esitato a promuovere un processo degenerativo della procedura penale (controriforma dei codici) eliminando ogni diritto alla difesa del cittadino accusato di delitti connessi al terrorismo, trasformando la carcerazione preventiva in una pratica aberrante di lunghe pene erogate senza processo; giustificando l'arbitrio dei giudici istruttori alla luce in un segreto istruttorio valido solo per gli imputati e i loro difensori, ma sistematicamente e intenzionalmente violato con la stampa per rafforzare la criminalizzazione preventiva degli imputati; regolando la durata delle pene preventive attraverso la sovradeterminazione delle imputazioni e la santificazione senza verifiche della parola dei «pentiti»; consentendo la discrezionalità al G. I. per premiare chi conferma l'impianto accusatori o senza verifica processuale e per punire chi lo contesta dichiarandosi innocente (l'innocente, per paradosso diventa colpevole, del reato di non collaborazione con la giustizia); c) Nei confronti degli organi di stampa, che auraverso continue e sistematiche violazioni del segreto istruttorio con la complicità degli uffici giudiziari interessati, auraverso campagne colpevoliste e diffamatorie hanno gravemente lese il mio diritto di essere considerato innocente fino alla sentenza definitiva, ed hanno contribuilo alla gestione anticipata del processo a mezzo stampa, ulteriore strumento di degenerazione della procedura penale. (-..) Alberto Magnaghi Rebibbia, settembre 1981 « Una vicenda assurda" Non nascondo di provare un senso di vergogna di fronte a un caso come quello di Alberto Magnaghi. Del «7 aprile> si è parlato molto, con pochissima cognizione di causa. Tra quelli che ne hanno parlato, chi si è letto, come era suo dovere, le 50.000 pagine della sentenza di rinvio a giudizio? Avrebbe scoperto che oggi in Italia si può essere accusati di reati da ergastolo senza la benché minima prova della propria partecipazione ad attività c/andestinoinsurrezionali, sulla base delle dichiarazioni di un testimone, rigorosamente tenute al riparo da ogni confronto decisivo, e riferentesi a falli accaduti dieci anni fa. Avrebbe scoperto, altresì, che • l'inesistenza di prove può diventare prova provata dell'abilità con cui si sa occultare la propria attività terroristica; il proprio impegno di docente a tempo pieno, prova dell'efferata determinazione con la quale ci si vuole infiltrare nelle struuure universitarie, ecc. L'aspetto più impressionante della vicenda Magnaghi (e di altre, come quella di Ferrari-Bravo) non sta -per dirla brutalmente - neppure tanto nella palese violazione di ogni principio «garantP stico», quanto ne/l'apparente assurdità anche politica, strettamente politica, di un simile procedimento. A che serve, infatti, tenere in galera una persona come Magnaghi? Che cosa si intende colpire? Quali fini si perseguono? Confesso che non so trovare che una risposta, volendo qui escludere a priori ogni sospetto di malafede. Cercherò di esporla valendomi di un libro di straordinaria vivacità intellettuale. Riti e sapienza del diritto di Franco Cordero. In situazioni critiche o di emergen;_a possono svilupparsi tendenze-tentazioni aperseguitare atti o parole ritenwi dannosi al sistema, indipendentemente da «accusanti» specifici; manifesta accusatione non indigeni, perché siano colpiti basta la loro pericolosità «diagnosticata da cattiva fama,. In questi casi, il procedimento si svolge tutto necessariamente per inquisitionem; esso assume l'aspetto di una «introspezione inquisitoria tendente a/l'infinito», dove twto può costituire «segno» di qualcos'altro, dando vita a intrecci labirintici nei quali soffocare la resistenza dell'imputato. Si procede, cioè, generaliter da segno a segno, puntando, con vari strumenti, o alla self-incrimination oppure a far confessare a/- l'imputato quanto doloroso sia ormai per lui il peccato commesso: l'essersi distaccato dal/'uterus ecclesiae. A leggere gli atti del processo concernenti Magnaghi (e non solo Magnaghi) è impossibile non ricordare simili «modelli». È illusorio pensare che un tale imbarbarimento potrà rimanere un'infelice eccezione. Sotto la spinta di una situazione obiettivamente di emergenza sul fronte dell'ordine pubblico, ma culturalmente e politicamente né compresa né governata, è addirittura troppo facile prevedere che procedure volte a ottenere comunque confessionipentimenti siano destinate a generalizzarsi. È doveroso cercare di bloccare il contagio finché, forse, si è ancora in tempo e di fronte ai suoi casi più eclatanti, quando, come in quello di Magnaghi, da anni si cercano inesistenti sostegni alle ipotesi accusatorie e impossibili segni di pentimento o confessione. Massimo Cacciari

RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==