Alfabeta - anno III - n. 29 - ottobre 1981

sivo è ritenuto incapace di conseguire. Come a livello politico si è costruito un modello di «sovversivo» perseguibile come tale, cosi si è tentato di costruire un modello di «mafioso», anch'esso perseguibile come tale, indipendentemente o quasi dal fatto che gli siano concretamente attribuibili comportamenti criminosi specifici. Questo è avvenuto in alcune prassi giudiziarie adottate in Calabria da alcuni giudici di Magistratura Democratica. La utilità e la validità di queste prassi sono state esplicitamente rivendicate in più occasioni. In un articolo apparso sul giornale Magistratura democratica del 1979, ad esempio, si legge: «Il processo alla nuova mafia della provincia di Reggio Calabria si è concluso agli inizi dell'anno con la condanna di ventotto 'personaggi di rispetto', dei sessanta imputati, ad oltre duecento anni di carcere per il reato di associazione per delinquere. Pur non essendo frequente l'affermazione di responsabilità di boss mafiosi, riteniamo tuttavia che non sia tanto l'esemplarità della condanna il dato interessante del processo, quanto l'analisi che del fenomeno, e delle sue implicazioni politiche, i giudici di Reggio hanno fornito e le tecniche probatorie adoperate per l'accertamento dei fatti in un processo tipicamente indiziario. La novità di queste ultime si _evidenzia già con le indagini bancarie disposte a vasto raggio nella fase dibattimentale, durante la quale l'ampio spazio dedicato all'interrogatorio di esponenti politici e pubblici amministratori preludeva anche al tipo di motivazione che avrebbe caratterizzato la sentenza, non l'uso dell'asettico tecnicismo con cui i tribunali sono soliti esaminare le fattispecie criminose (eppure l'assenza dal banco degli imputati di personaggi politici avrebbe favorito questo vizio professionale), ma lo sforzo di spiegare come la delinquenza mafiosa possa trovare nel tessuto economico, sociale e politico di una certa realtà meridionale terreno fertile per il suo rafforzamento~ am{Iloderna\Jlen_toI.l tribunale di Reggio, attribuendo dignità processuale a risultati extragiuridici cui erano pervenute sinora indagini economiche, sociologiche e politiche, ha insomma rotto la caratteristica di corpo separato che contraddistingue l'ordine giudiziario, approdando a conclusioni che ben si accordano con una corretta analisi di classe della mafia- 4 • Nella sua ordinanza di rinvio a giudizio il giudice istruttore di quella città aveva scritto: «solo in rarissimi casi è stato possibile acquisire la prova diretta ... della esistenza di una associazione mafiosa. Sarebbe tuttavia aberrante, proprio per una situazione per sua natura impeditiva di tal genere di prova, rinunciare alla valutazione critica della condotta di vita di determinati personaggi, delle significative situazioni in cui si trovano costantemente coinvolti e dei rapporti da cui sono continuamente ed alternativamente legati e ciò nel contesto della situazione ambientale, dell'essenza e delle tipiche esplicazioni della istituzione mafiosa». Indubbiamente i delitti mafiosi sono gravi e meritano una severa punizione (sotto questo aspetto i «persecutori• della mafia hanno assai maggiori giustificazioni dei giudici intervenuti contro l'Autonomia operaia), ma anche in questo caso, il modello di intervento giudiziario prescelto, sebbene carico di riferimenti alle masse popolari e al loro controllo permanente sul funzionamento della giustizia, va recisamente respinto, per i pericoli che da una sua generalizzazione possono derivare alle pubbliche libertà. Come ha esattamente osservato un gruppo di magistrati milanesi, critici verso l'approccio «calabrese• al fenomeno mafioso, il modello adottato da quei giudici finisce per dar luogo a una forzatura e ad una deformazione dei principi informatori del «giusto processo penale», nel momento in cui si prescinde dalla raccolta di indizi precisi volti all'accertamento di singoli specifici fatti criminosi e si imbocca invece eia strada di una prassi giudiziaria improntata pressoché esclusivamente al cosiddetto tipo di autore• 5 • Le iniziative padovana e calabrese sulle quali ci si è soffermati più a lungo anche perché sono state accompagnate da una sorta di rudimentale teorizzazione, costituiscono del resto soltanto i casi più clamorosi di allontanamento dai principi tradizionali del reato e della sua prova. Tutta una serie di iniziative giudiziarie in qualche modo collegate alla repressione del terrorismo mostrano un atteggiamento disinvolto (è il meno che si possa dire) nei confronti dei principi tradizionali della prova nel processo penale. 11modello di intervento penale sopra analizzato non è del resto nuovo come potrebbe sembrare. li «tipo di autore» è stato infatti elaborato molto tempo fa, all'inizio degli anni quaranta di questo secolo, nella Germania nazista. li principio fondamentale di questa scuola era che il diritto penale non deve colpire i fatti vietati dalla legge, bensi le persone che tengono una certa condotta, punite non tanto per aver commesso delle azioni vietate quanto per essere quelle che sono, cioè dei «devianti», per non aver tenuto cioè una condotta diversa da quella in concreto tenuta. . \H\,. ~, ln altri termini, se alcuni tipi umani scelgono di comportarsi in modo diverso da come si comporta la maggioranza, essi vanno puniti più per aver compiuto questa scelta che per aver commesso determinati fatti vietati dal codice penale. li «tipo di autore» non era del resto restato soltanto una creazione teorica di giuristi operanti nella fase del tardo nazismo. Esso aveva avuto al contrario anche degli inizi di applicazione pratica in una sentenza del Tribunale supremo del Reich germanico il quale, in una sua decisione del 1941, aveva fatto propri i suoi postulati. La materia era costituita dallo sfruttamento di prostitute ed il Tribunale aveva considerato come elemento decisivo per l'affermazione della responsabilità la qualità di souteneur e precisamente la constatazione che l'imputato era apparso come un uomo ca cui si può attribuire il comportamento di souteneur>. Questa qualità non era stata «dedotta» dall'esame degli elementi tipici del reato (appropriazione dei guadagni della prostituta, favoreggiamento della sua prostituzione ecc.), ma da altri penale, il quale ha sempre colpito, nella sua fase «moderna», fatti in contrasto con l'ordinamento, non modi di essere ritenuti criminosi. Così P. Nuvolone, dopo aver rilevato che l'ambiente penalistico tedesco era dominato da due correnti di pensiero, quello biologico e quello idealistico e che erano espressione del primo le misure sempre più gravi di indole repressiva ed eugenetica prese contro la delinquenza, del secondo le teorie della espiazione, del sano sentimento del popolo, dei concreti ordinamenti della·çomunità e del Tiitertypus, non aveva potuto fare.a meno di concludere che i due indirizzi non erano dopotutto inconciliabili e che avevano una parte in comune, la Weltanschauung nazionalsocialista•. E un giurista altrettanto conservatore del Nuvolone, G. Bettiol aveva scritto che «la tipicizzazione dell'autore in contrapposto alla tipicizzazione de.11'.az_ionpoen è espressipne (almeno ,· tendenziale) di un coz,zo tra opposte ideologie politiche, sebbene non si possa negare che in concreto i 'tipicizzatori' dell'autore del reato si sono in prevalenza ispirati a ideologie antiliberali [...]. Coloro invero che vogliono garantita al massimo grado /a libertà individuale contro ogni arbitrario intervento dell'autorità, invocheranno, in nomi; della sicurezza giuridica, chiare e precise fattispecie nelle quali l'azione delittuosa sia chiaramente tipicizzata e modellata nei suoi aspetti caratteristici; mentre coloro che, invece di una formalizzazione della giustizia, preferiscono una pronuncia che - come si afferma - sia espressione di una esigenza di giustizia sostanziale, rivolgeranno lo sguardo alle caratteristiche della personalità dell'autore e cercheranno Ji--inquadrare questa in un determinato schema che sia possibilmente aderente alla realtà sociale. Gli è che proprio ai fini di una giustizia sostanziale la prima delle due strade è la più facile e la più sicura, mentre la seconda, per la difficoltà di fissare i momenti tipici dell'agente piuttosto che dell'azione, può finire in una astratta e pericolosa nebulosità»7 . Il «tipo di autore• non era del resto una pura creazione dello «spirito tedesco», ma un momento terminale di apporti diversi, anche di origine estern·aa quello «spirito•. Vi si riscontravano ad esempio anche tracce della teoria della «personalità» delinquenziale o dell'«uomo delinquente», predestinato biologicamente a cadere sotto i rigori della legge penale. clahorata elementi come il carattere dell'indivi- -------..,..----------. duo, gli ambienti che frequentava, la fama di cui godeva ecc. La valutazione complessiva della personalità dell'imputato non era stata pertanto più fatta soltanto ai fini della determinazione della pena (maggiore o minore durata della reclusione ad esempio), bensi addirittura come condizione della stessa operatività della norma incrirninatrice (colpevole o no). La ideologia sottostante a questo modello di intervento repressivo non era sfuggita, almeno in Italia, a tulli coloro che si erano occupati della questione. In particolare tutti avevano, sia pure con varie sfumature e con grande prudenza (eravamo, dopo tutti, «alleati») sottolineato che esso era stre11amente collegato con la concezione del mondo proprio del nazionalsocialismo e che era difficilmente armonizzabilc con la tradizione liberale del diriuo /',rn.\.\O, ( (·nk l:lwml, ,\fon Hur. Ptml t:luard, cadavere squisito,· 1936 ca. da Lombroso e dalla sua scuola (Ferri), anche se nella costruzione dei tedeschi l'elemento biologico veniva ricacciato in secondo piano e la «personalità criminale» veniva costruita prevalentemente sulla base di criteri giuridici•. E neppure vanno sottovalutati gli apporti di Cari Schmitt e della sua teoria dell'amico-nemico, dispiegata dal suo propugnatore prevalentemente sul terreno politico, ma dispiegabile ed utilizzabile con facoltà anche fuori di quello, per costruire una condizione di radicale incompatibilità «giuridica» tra modi di essere accettati come normali e status-condotte da estirpare integralmente nell'ambito della «comunità nuova» costruita dalla Germania nazista. La eliminazione radicale, in quella «comunità», di tutta una serie di «tipi» umani (l'ebreo, l'omosessuale, lo zingaro, il pazzo, il comunista ecc.) quale che fu la via seguita p~~ .realjZUjrla (int,ervento ama ministrativo o condanna penale), conferma, al di là di ogni ragionevole dubbio, che il principio dell'amico-nemico venne abbondantemente utilizzato anche nelle strutture amministrativogiuridiche, finendo per costituire un criterio formale di condotta del Terzo Reich anche in settori diversi da quelli della pura lotta politica. Indubbiamente si può ritenere che risuscitare modelli nazistici di diritto penale non rientra nelle intenzioni di nessuno dei giudici indicati nella prima parte di questo scritto (neppure del -sostituto Calogero). E tuttavia, le teorie giuridiche (come tutte le teorie del resto) hanno questo di particolare che, una volta formulate, tendono a godere di vita propria e ad operare a di là delle intenzioni (anche buone) di coloro che se ne sono fatti portatori. In una dimensione politica caratterizzata da un conflitto sociale profondo, anche se sotterraneo, vi saranno sempre delle parti politiche per le quali il controllo di questo conflitto è una necessità primordiale (e non è detto che queste parti nelle società attuali si collochino solo e sempre a destra). Che questo fine sia perseguito facendo un uso alquanto disinvolto delle regole sulla prova nel processo penale, può anche essere considerato da queste «parti• come un male accettabile. Ne deriva che anche le teorie giuridiche formulate e seguite in vista di scopi all'inizio condividibili e contro soggetti difficilmente difendibili (i mafiosi ad esempio), potranno allora rivelarsi assai pericolose per la conservazione delle libertà. È inevitabile porsi a questo punto la domanda perché proprio il gruppo dei giudici democratici abbia costituito il terreno sul quale si sono sviluppate le prassi descritte (e, quel che più preoccupa, le connesse teorizzazioni). • Le risposte sono molte e su tutte prevale la quasi completa istituzionalizzazione del gruppo o meglio il modo in cui questa istituzionalizzazione ha avuto luogo. Magistratura Democratica era nata sul punto di confluenza tra il giurista «selvaggio» ed il giurista riformatore, in un momento nel quale vi era posto e per l'uno e per l'altro. Può dirsi addirittura che la maggior parte della sua presenza nei media è stata assai più merito dei primi (con le loro dure polemiche pubbliche contro la corporazione dei giudici) che non dei secondi i"quali,tutto sommato, mai hanno reciso del tutto i legami con la dimensione tradizionale del ruolo. Con il passare degli anni, ed ilmutare della situazione, i giuristi «selvaggi• sono stati quasi del tutto ridotti al silenzio e lo strumento principale a loro disposizione, costituito dalla «interferenza», vale a dire dalla pubblica critica delle decisioni (sentenze, ordini di cattura ecc.) emessi da altri giudici di orientamento conservatore, è stato visto con sempre maggiore fastidio all'interno di MD, fino ad arrivare ad un suo abbandono di fatto. Scomparsi i tentativi di giurispru~ denza alternativa, cessate le interferenze, il gruppo vivacchia tra qualche convegno e qualche protesta contro i frequenti interventi di legislazione penale eccezionale, ai margini dell'establishment, dalla sinistra del quale non lo differenziano più né linea politica, né exploits individuali, ma soltanto la rozzezza dell'establishement stesso che continua, almeno in certe sue parti, a mantenere nei sui confronti antiche diffidenze ed antichi timori. La sua volontà di potenza non si esercita più contro le istituzioni come all'inizio della sua storia, ma al loro interno ed in loro difesa. Forse era inevitabile che questo accadesse. E tuttavia la inevitabilità della parabola cui MD è soggetta non deve impedire che al suo interno, come all'esterno, si denunzino prassi giudiziarie le quali, anche se nate dalla cultura del gruppo, appaiono pericolose per le libertà di tutti, in ogni caso, assai più pericolose di quelle tradizionali alle qu:ili esse l!l!Pi-!:~n~".o~ost(tuir- , si. La teoria del reato-fatto e quella della prova nel processo penale sono infatti conquiste alle quali nessuno intende rinunciare, quali che possano essere i sostenitori (e le giustificazioni da essi addotte) del loro invocato abbandono. Note , 1) J.H. M~rryman, fl.o stile itaiiànq:' la dottrina>, in Rivista trimestrale di diriJto e procedura civile, 1966, p. 1179. 2) Essi sono pubblicati nel volume Proces• so alla Autonomia a cura del comitato 7 aprile e del collegio di difesa, Lerici Editore, 1979. 3) Corriere della Sera, 5 luglio 1979 4) Processo allamafia; realtàprocessuale e considerazioni politiche, a cura del gruppo calabrese di Magistratura Democratica in Magistratura Democratica marzo-giugno 1979, p. 37 e ss; vedi anche l'intervento di G. Conte, A. Di Marco, C. Macrì e V. Macrl al convegno svoltosi a Palermo su «Mafia ed istituzioni» nei giorni 18-20 aprile 1980. 5) L'approccio giudiziario al fenomeno mafioso, intervento a cura di un gruppo di giudici milanesi al citato convegno sulla mafia. Nello stesso documento si sostiene che il metodo seguito dai giudici di Reggio Calabria non è detto si debba rivelare più pagante di quello tradizionale, sempre che questo sia seguito con la dovuta serietà e si conclude nel senso che, anche nelle zone maggiormente inquinate dal fenomeno mafioso, ci si deve battere perché diventi possibile portare avanti processi alla mafia che siano in grado di abbandonare il «tipo di autore> a favore di una strada che passi attraverso l'accertamento di specifici fatti delittuosi, dai quali prendere le mosse per la costruzione di struttureprobatorie meno arrischiate. In risposta a questo testo, in un corsivo apparso su Il Manifesto del 24 aprile 1980, Fare il giudice nel cuore della 'ndragheta, il giudice istruttore di Reggio Calabria G. Gambino dichiarava di non condividere le preoccupazioni dei garantisti relative all'uso delle «massime di esperienza> sociali alle quali il tribunalenon aveva in ogni caso attribuito una importanza esclusiva o prevalente. Le affermazioni di Gambino non sono tuttavia tali da rimuovere le ambiguità che si riscontrano nelle scelte dei giudici calabresi. 6) P. Nuvolone, «A proposito di ui:aasentenza del Reichgericht sul Tatertypus», in Rivista italiana di diritto penale, 1941, p. 47 e ss. 7) G. Bettiol, «Azione e colpevolezza nelle teorie dei 'tipi' di autore», in Rivista italiana di diritto penale, 1942, p. 5 e ss. 8) Vedi su ciò E. Florian, «Nuove differenziazioni di delinquenti - I delinquenti tipici in relazione alla parte speciale», in La giustizia penale, 1941, p. 4

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